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Mi pareva che qualcosa di inusitato, di enorme dovesse fra poco succedere.
— Ma sapete — disse — che l’abito nero dà un bel caldo! Deve essere caldo, oggi.
— Sì, caldo! — dissi, e ricordai non so quanti gradi di temperatura.
— Oh, anche di più! — disse ridendo. — Permettete?
Uscì. Rimasi solo. Rientrò poco dopo. Era uscita dalla guaina nera: era tutta vestita di una gran veste rosea. Mi parve più magnifica. Stupii come sotto quelle maniche dell’abito nero ci fossero state nascoste due braccia così bianche! Ebbi l’impressione di una energia occulta e deliziosa in quelle braccia nude.
— Oh, che cattiveria, che cattiveria, che cattiveria — disse ridendo e venendomi sempre più vicino, quasi rasente — tormentare col greco e con tutti quei libracci un povero bambino! — e così dicendo crollava la testa, e si appressava di più.
— Povero bamboccione — disse d’un tratto, e mi prese con le due mani adunche per i capelli ed accostò il mio volto alle sue grosse labbra.
Io impallidii. Ella parve godere del mio pallore. Non parlava più.
Probabilmente la mia faccia era diventata una mela o una pesca di luglio: una pesca sugosa e fresca che ben si morde.