Cesare/VII
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VII.
— Ma sai che lo hai messo a un grave prezzo il tuo amore! disse Cesare una sera alla sua promessa sposa. È una fortuna risorgere dalla tomba per godere tanta beatitudine; ma d’altra parte pretendere che un uomo muoia per risolversi a volergli bene mi pare un pochino troppo, sai!
— Le cose che si ottengono facilmente non valgono nulla, rispose Emilia; bada a tener di conto quello che hai guadagnato!
— Oh! se ne terrò di conto! Non potrai mai farmi un rimprovero: ogni tua volontà mi sarà legge: la tua vita sarà bella come questo bel cielo stellato che brilla sulle nostre teste, tranquilla come questo mare azzurro.
Il cielo era bello e stellato, davvero, il mare limpido e liscio lambiva mollemente la sponda. Era di marzo. I primi venticelli tepidi della vicina primavera accarezzavano i visi dei due innamorati. Erano in quel medesimo salottino, vicini alla stessa finestra aperta dove si erano parlati l’ultima sera prima della partenza di Cesare.
I cittadini ricominciavano le loro passeggiate interrotte dai crudi venti invernali, e una quantità di battelli e barchette andavano vogando su e giù per l’acqua, poco lontano dalla riva.
Chi non si sarebbe stimato felice se la vita gli avesse promesso un avvenire bello come quel mare, sereno come quel cielo?
Ma il mare è un traditore, e il cielo è più traditore del mare. Sono due abissi imperscrutabili come il dimani che pende sul nostro capo. Guai al presuntuoso mortale che piglia confidenza colla serenità d’un cielo di primavera, che confida la sua povera navicella all’onda volubile senza premunirsi contro i pericoli della tempesta.
Una piccola nuvoletta, appena visibile verso occidente cominciò a salire e a ingrossare. Non era passata un’ora dacchè Cesare aveva fatto quel paragone, che già le stelle non si vedevano più: già s’avvicinava il rumore del tuono.
Improvvisamente, si levò il vento, furibondo, sibilante. Le assi delle barche legate alla riva scricchiolavano come se volessero rompersi: le onde s’accapigliavano furiosamente.
Le voci dei marinai svegliati in sussulto suonavano sinistre in mezzo al fischiar del vento. I legni più piccoli correvano a riparo dentro il mandracchio, una specie di laguna in miniatura.
Cesare aveva paragonato alla serenità del cielo, alla tranquillità dell’onda la vita calma e beata che voleva preparare alla sua diletta: cielo e mare s’erano affrettati a smentirlo.
— Ma quale è l’elemento che non sia lì pronto a darci una smentita, a noi poveri insetti, che la natura deride così apertamente?
Cesare lo disse ridendo per fare un po’ di filosofia pessimista; in realtà per altro non vi badarono nè l’uno nè l’altra; non accettarono il pronostico: erano felici e si amavano.
L’esperienza non li aveva ancora ammaestrati al dubbio: l’illusione li proteggeva: però erano forti e non ascoltavano i presentimenti.
L’uragano improvviso aveva resa impossibile la partenza di Cesare per quella sera: il signor Luigi era stato obbligato a offrirgli la sua ospitalità.
Questa circostanza bastava perchè i due amanti benedicessero il vento, e dicessero tutto il bene delle folgori e della pioggia.
Venuto il maggio, il signor Luigi dovè come tutti gli anni tornare in campagna per la solita facenda dei bachi da seta. Emilia fu più che mai contenta d’accompagnarlo; Salvore è più vicino alle possessioni dei Conti di *** e però se ne rallegrava pensando che là poteva sperare di veder il suo Cesare più spesso assai.
La prima persona che incontrò fu la Teresina: il signor Luigi che la trovava una buona operaia l’aveva pregata d’anticipare la sua stagione, prendendo parte all’assistenza dei preziosi animaletti finchè giungesse il momento di filarne la seta.
Anche questa volta la piccola Angelina era con sua madre e Emilia fu tutta contenta di quest’incontro, e del bene che le dava occasione di fare. Era così felice che aveva bisogno di veder tutti felici, e però i benefici che faceva agli altri erano prima di tutto benefici che faceva a sè stessa.
Il secondo giorno vennero subito a trovarla lo sorelle di Cesare e la pregarono di andare per un po’ di giorni al castello. Il signor Luigi fece alcune difficoltà tanto per non perdere l’abitudine; ma poi accondiscese.
Ma appena passata una settimana, scrisse che doveva ritornare assolutamente, che davanzo l’arrebbe perduta presto, che non voleva gli si togliessero anche que’ pochi giorni che gli rimanevano da passare vicino alla sua cara nipote, alla pupilla de’ suoi occhi; e molte altre cose scrisse.
Emilia ritornò una sera di sabato, la vigilia delle Pentecoste.
Le campane chiacchierine della parrocchia la svegliarono di buon mattino, il giorno dopo il suo arrivo. Tutta la campagna pareva in festa: s’alzò col cuore pieno di gioia: sapeva che avrebbe incontrato Cesare alla messa.
Stava vestendosi allorchè la cameriera entrò con un magnifico mazzo di rose, di tutte le grandezze e di tutti i colori, un mazzo degno di ricevere il primo premio a un’esposizione d’orticoltura.
— Oh che belle rose! E ben Cesare che le manda? esclamò l’Emilia scendendo dal letto con un salto di gioia.
— No, signorina, rispose la cameriera un po’ mortificata di dover dire una cosa contraria al desiderio della sua padroncina. Le manda il signor Arturo.
— Il pedante?
— Sì, signorina.
— E dove le ha trovate tutte queste rose?
— È andato apposta a Pirano per coglierle nel suo giardino.
— E dove vuole che lo metta il mazzo, signorina? Qui in questo vaso?
— Fammi il piacere, pigliati il tuo mazzo e portatelo in camera tua, non voglio regali del pedante.
Qualche ora dopo Emilia era sul sagrato della parrocchia e guardava con impazienza lungo la strada per dove doveva arrivare il suo Cesare. Il sagrato era un bel pezzo di prato erboso, ombreggiato di quercie e gelsi. A pochi passi di là si stendeva il piccolo cimitero fin quasi in cima alla Punta. Tutti i signori villeggianti e quelli stabiliti in campagna nei d’intorni di Salvore stavano là aspettando la messa, in mezzo ai contadini vestiti a festa.
I signori tutti italiani, i contadini tutti slavi, eccetto alcuni friuliani, fatti venire a posta come più abili per certi lavori.
Le carrozze di quelli che dimoravano più lontano erano schierate all’ombra: i cavalli staccati pascolavano l’erba intorno al cimitero; nè mancavano le treggie tirate dai buoi, arnese preferito da quelli che avevano strade più cattive da attraversare; e poi baroccini d’ogni foggia, e carrette.
I giovani più eleganti venivano a cavallo. Questa messa era il ritrovo universale. Vi si sfoggiavano i cappellini nuovi; si faceva la cronaca della settimana; i pettegolezzi, e le maldicenze fioccavano. A volte si davano degli appuntamenti, o si fissavano le partite di piacere, le caccie, le pesche mattutine, i pranzi sull’erba, le allegre festicciuole.
Le amiche d’Emilia arrivavano a due a tre per volta, ma Cesare tardava.
Intanto la Teresina, occupata a lavorare fino all’ultimo momento, scendeva con alcune compagne il viale dei gelsi, che dalla villa del signor Luigi mena alla chiesuola.
Ella camminava in silenzio, rispondendo appena con gualche monosillabo al cicalio delle compagne.
Giunte vicino al punto dove il viale sbocca nella strada maestra, fiancheggiata da un bosco d’acacie da una parte, da cespugli e piante di ginestra dall’altra, fino alla sponda alta e scoscesa del mare, intesero il passo di un cavallo venire per una viottola traverso al bosco.
Un momento dopo il profilo d’un cavaliere spiccava sul verde delle foglie.
La Teresina si fermò di botto.
— Chi è quel signore a cavallo? chiese alle sue compagne, con un tremito che le appanava la voce.
— Non lo sai? saltò su la più vecchia. Gli è il cugino della signorina, e credo anche il suo promesso sposo.
— Che cugino P domandò nuovamente la ragazza appoggiandosi una mano al cuore, come si fà quando si è assaliti da uno spasimo improvviso.
— Tò! o non lo sai? Il conte Cesare, quello che avevano creduto morto....
Ma Cesare era oramai sulla strada maestra e le operaie sull’orlo del viale: per cui, vicinissimi.
Teresina, appoggiata a un tronco d’albero, cogli occhi sbarrati, le labbra semiaperte e tremanti, pallida come una morta, pareva una di quelle ninfe di marmo ingiallito che si vedono ancora nei vecchi parchi abbandonati. Tutte le forze dell’anima sua erano concentrate negli occhi.
Il giovane la vide e sembrò colpito: i loro sguardi s’incontrarono; un movimento forse involontario del cavaliere, fece rallentare il passo al cavallo, e, per un momento, vi fu come una corrente elettrica tra quei due sguardi fissi l’uno nell’altro.
Certo non doveva essere la prima volta che s’incontravano; ma se sul volto della fanciulla si dipingeva un’ambascia e una passione fortissima, il viso di lui non esprimeva altro che meraviglia e incertezza.
A un tratto la filatrice voltò le spalle al cavaliere, mettendosi a correre quanto più lestamente poteva, su per il viale, verso casa.
Dove vai? Gridarono le altre operaie stupite di quella fuga.
Ma lei non rispose; si voltò solo un momento accennando col braccio che andassero pure. La sua corsa diveniva sempre più rapida: pareva spinta da un terrore irresistibile.
— Si sarà pentita d’aver lasciata a casa la bimba, disse una giovane filatrice sua amica: sapete che non può vivere un momento senza di lei. Lasciamola fare, ci raggiungerà poi. E intanto andiamo avanti ch’è finito di suonare il terzo segno alla messa.
Le altre seguirono il suo consiglio e s’affrettarono tutte verso la chiesa.
Cesare era rimasto come impietrito davanti alla fuga improvvisa della ragazza: tutto gli diceva ch’era scappata così per lui. E poi, quel viso, quegli occhi, quel pallore destavano nell’anima sua una folla di memorie dolci e confuse. Un momento spinse il cavallo verso il viale, come per inseguire quella specie di visione tormentosa; ma poi si fermò, tornò adagio adagio sulla strada maestra, e s’avviò verso la chiesa. Le operaie, che non avevano osato mostrarsi curiose davanti a lui, lo guardavano alla sfuggita ora che lo avevano oltrepassato di alcuni passi.
Visto questo, il giovane diè risolutamente di sprone al cavallo, e arrivò sul sagrato in pochi minuti.
Emilia lo accolse col suo più bel sorriso, ed egli vi rispose con una stretta di mano molto espansiva. Una nube oscurava ancora la sua fronte, un vivo rossore tingeva le sue guancie; ma ciò poteva benissimo dipendere dell’emozione di vederla e dalla corsa precipitosa cui s’era lasciato andare per trovarsi più presto vicino a lei.
Così, almeno credette Emilia. È tanto bello credere quello che piace!
Altrimenti però avrebbe pensato il signor Arturo se si fosse trovato là.
Il buon pedante aveva veduto tutto dal bosco dove stava raccogliendo erbe, pensando forse alla fortuna del suo mazzo di rose.
Dopo il recente naufragio delle sue speranze amorose egli s’era dato corpo e anima alla botanica, forse perchè la grammatica pura e il linguaggio dei fiori non bastavano più a distrarlo, o che gli paresse necessario di rimanere ancora un poco vicino a Emilia e avere un pretesto per osservare l’andamento delle cose fingendosi, immerso in studi profondi.
Quando Cesare o le operaie si furono allontanati egli uscì dal bosco e tornò alla villa, ruminando su ciò che aveva veduto.
Trovò il cortile deserto e tutto immerso in quel profondo silenzio che si spande sulla campagna all’ora del mezzogiorno, specialmente la domenica, allorchè tutti sono alla messa. Una finestra al pian terreno della filanda era socchiusa, il signor Arturo vi s’accostò pian pianino, e fece penetrare i suoi sguardi dentro la stanza attraverso alle sprangherò delle persiane.
In quella stanza stava la Teresina, gettata sopra una panca, nell’abbandono della disperazione.
La piccina dormiva nel suo letticciuolo, e la povera donna frenava i suoi singhiozzi per non svegliarla; ma tanto era l’impeto di quello scoppio di dolore, che tutto il suo esile corpo tremava.
Ricco di questa scoperta e pensando giudiziosamente che quelle lagrime dovessero significar qualche cosa e provenire da forte dispiacere, il signor Arturo si recò dal suo protettore e gli raccontò tutto quanto aveva veduto; certo in cuor suo che lo spirito acuto dell’antico diplomatico saprebbe meglio di lui dippanar la matassa e raccoglierne le sparse fila.
— Gatta ci cova! esclamò il vecchio astuto quand’ebbe sentito il racconto: e se non siamo rimbambiti chi sa che non ne abbiamo una rivincita: attenti compare!
Con questo incoraggiamento accompagnato da un piccolo scappaccione confidenziale, i due degni amici s’avviarono finalmente verso la chiesa. Era tardi; ma a loro bastava fare atto di presenza all’ultima scena.