Cesare/VI
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VI.
Qualche settimana dopo Emilia tornò in casa di suo zio.
I bei giorni d’autunno erano finiti. Ma la raccolta era stata buona, e il signor Luigi si fregava le mani, facendo mille bei progetti che comunicava al suo inseparabile amico Arturo; il quale, pieno di cortesia e di deferenza, gli stava sempre d’intorno sommettendosi a tutte le sue esigenze.
Coi primi freddi, abbandonarono tutti la bella casa di campagna per tornare a Pirano dove solevano passar l’inverno.
Anche le filatrici friuliane erano partite verso la fine di ottobre. Soltanto la Teresina rimaneva un po’ più tardi perchè la sua salute non le permetteva ancora di mettersi in viaggio. La povera ragazza era stata per morire: la sua malattia aveva durato tutto il tempo che Emilia aveva passato in casa dei Conti di ***.
Così aveva consumato quel po’ di risparmio messo da parte ne’ primi mesi, e poi non aveva potuto lavorar più. Ma Emilia non faceva le sue benificenze a metà, nè a capriccio.
Appena tornata a Salvore ella aveva risarcito il danno della malattia alla giovane operaia, che partiva benedicendola con un bel gruzzolo di denaro, e la sua Angioletta vestita a novo come una piccola contessina.
L’inverno voleva esser freddo: la solita bora soffiava.
La povera Emilia pensava sul serio come doveva passare quel brutto inverno.
Che giorni tristi s’aspettava, che giorni sconsolati! Vivere così, con tante tristezze nell’anima, in un paesetto estraneo alla vita intellettuale che si svolge nelle grandi città, e assorbe e consola tante pene; tra gente oziosa, sempre disposta a occuparsi de’ fatti altrui per distrarsi dalla propria noia, è veramente una condizione intollerabile.
Ella avrebbe voluto almeno poter viaggiare; percorrer l’Italia; vedere i luoghi dove Cesare aveva combattuto, dove era morto; chiedere informazioni; muoversi, operare, o non foss’altro illudersi di far qualche cosa.
Ma con chi viaggiare? Sola non glielo avrebbero permesso: Dio! Una ragazza della sua età viaggiar sola! Ma sarebbe stato di che fare escir dai gangheri le porte del duomo e rivoltarsi le fondamenta della città.
Emilia si sentiva condannata all’inerzia. E questo era il martirio più grande. Un’organizzazione potente e logica come la sua si sarebbe sottomessa con rassegnazione a un’infelicità che le pareva ignominioso di scongiurare, ma a patto di poter spendere la vita in qualche cosa di serio. Non voleva dimenticare: poichè Cesare era morto per amor suo, le pareva giusto di consacrarsi eternamente alla sua memoria. E non credeva che ci fosse alcun eroismo in questo; ma un obbligo irremissibile: si sarebbe disprezzata se si fosse creduta capace d’operare altrimenti: la legge del taglione si trovava come un istinto nella sua anima ardente e fiera.
Non era una di quelle indoli tenere che languono d’amore e gemono e si consumano al foco interna che le accende.
Il suo stesso amore per Cesare sviluppatosi dopo la notizia della sua morte nasceva forse più dal rimorso che dalla tenerezza, cioè da un sentimento di giustizia dominante, assolato, per il quale la sua coscienza sentiva a volte il bisogno di punir sè medesima.
Era stata amata, e aveva amato: il tradimento non era venuto a amareggiare il suo cuore: le sue illusioni riposavano intatte dentro un sepolcro. Quando pensava ai discorsi di suo zio e alle tanto esistenze senza fede e senza ideale che passano sulla terra, inutili a sè stesse e agli altri, le pareva quasi che il suo destino fosse tra i privilegiati. Ma non aveva che diciasett’anni; sentiva il bisogno di dare uno scopo, una ragione di muoversi all’attività esuberante del suo temperamento; e questo scopo, questa ragione non sapeva dove trovarli.
Naturalmente il tutore non capiva nulla di tutto questo, e il signor Arturo meno di lui.
Il vecchio rideva. Nel suo spirito regnava la ferma convinzione che a diciasett’anni il dolore non potesse durar molto e aspettava pazientemente il felice momento in cui la noia, facendo capolino in mezzo a quella tristezza, avrebbe spinto la ragazza a cercare qualche distrazione nella sola cosa che valga a distrar le ragazze quando hanno perduto l’amore.
— Quello sarà il vero momento di farvi valere, diceva egli all’Arturo. Dopo la delicatezza che avete mostrato in questa circostanza rispettando le sue lagrime, avete tutto il diritto d’aiutarla a distrarsi. E v’accetterà state certo, basta che sappiate farlo con garbo.
Una mattina verso le nove, la bora soffiava, come accade tanto spesso contro quelle spiaggia.
Il porto era pieno di barche che non potevano escire per causa del vento: un’insolita animazione dava nuovo aspetto alla piccola diga. Marinai chiusi ne’ loro grossi cappotti lunghi fino a terra, rigidi come piviali, colle berrette rosse a foggia di calze ripiegate, passeggiavano sul molo parlando del tempo, osservando ogni leggiero mutamento del cielo e le più piccole deviazioni dell’angelo di bronzo, posto sulla cima del campanile a guisa di banderuola.
Aspettavano il battello a vapore che doveva venir da Trieste. Alcuni temevano che il vento lo avesse trattenuto più in su al principio del viaggio ma i vecchi marinai dicevano sorridendo che col vento in poppa si viaggia sempre bene.
— Fino qui arriverà, diceva una faccia bronzina ch’era stata in Australia e aveva fatto quattrini nel commercio delle mignatte; ma qui dovrà fermarsi: non è mare da passar le Punte codesto.
Intanto il piroscafo arrivava e gettava l’ancora dentro il bacino.
Dalle finestre delle case circostanti, la gente guardava col cannocchiale quelli che sbarcavano. Nella prima barchetta scendeva un giovane alto e snello che dalla maniera con cui guardava la riva, pareva smanioso d’arrivarci.
A poco a poco gli sguardi dei curiosi aggruppati in capannelli sopra la diga, i cannocchiali dalle finestre, si fermarono sopra di lui. Alcuni bisbigliavano sommessamente in atto di meraviglia, altri gli sorridevano. Si sentivano degli Oh! degli Ah! mal repressi.
Arrivato a due passi dalla sponda spiccò un salto e fu a terra. La folla gli s’aperse dinanzi facendogli ala, e due o tre lo salutarono commossi.
Lui, rispondeva appena ai saluti; pareva come fuori di sè e che ogni ritardo gli desse noia.
Attraversò la strada in un lampo e infilò l’uscio della casa dove stava l’Emilia.
Pece la scala in due salti e afferrò il campanello come se avesse voluto strapparlo.
La cameriera che gli andò a aprire diè addietro spaventata:
— Gesù aiutaci! gridò la povera figliuola.
— Cos’hai? Sei pazza? domandò il giovane a sua volta.
— Ma è proprio lei? Ma non è morto dunque?
— No, no, va pur franca son vivo, disse Cesare ridendo. Ma dov’è mia cugina?
— È di là... ma lasci andar prima me; bisogna prepararla:
— Hai ragione.
Non fecero a tempo: l’uscio del salotto fu aperto con impeto, e una figura pallida e tremante si presentò sulla soglia.
— Emilia!
— Ah! Dio! Cesare!
Emilia si gettò fra le sue braccia, e svenne.
Ma tornò presto al dolce sentimento della vita; si risvegliò sotto un bacio ardente per riassicurarsi dell’immensa felicità che le era concessa.
Come le pareva bello di vivere!
Altro che attività, e vita del pensiero, e viaggi e storie. Tutte miserie, vanità delle vanità, di cui si era cullata quando credeva che l’amore fosse morto per lei.
Ora lo sentiva davvero: non c’era che un bene al mondo e questo bene era l’amore. Cesare era là vicino a lei, bello, felice, innamorato. Rinascevano tutti e due a nuova vita; passavano dall’inferno della desolazione all’estasi dei beati. Com’era dolce il passaggio!
— Mi ami dunquo? domandava Cesare che non sapeva persuadersi di tanto bene.
— Se ti amo! T’ho amato sempre. Ero una grulla, non sapeva leggere nel mio cuore. Ma quando venne la nuova della tua morte sentii subito ch’eri tutto per me, che la mia vita, era spezzata senza di te.
— O Emilia mia, che fortuna sentirsi rivivere così nel paradiso!
E i due felici continuarono a parlare del loro amore e della vita divina che li aspettava. Parlarono per quasi un’ora, senza dirsi nemmeno una piccolissima parte delle tante cose che avevano a comunicarsi.
Il signor Luigi, ch’era andato a non so che asta pubblica insieme al signor Arturo, rincasò verso l’undici. La cameriera pensò bene di non dirgli nulla della strana sorpresa che lo aspettava. Allorchè entrò nella sala la sua meraviglia fu così grande che la fida pipa gli scivolò di mano e andò a spezzarsi sul pavimento.
«Guarda don Baitolo pare una statua» zufolava tra i denti quella biricchina di dietro l’uscio dell’anticamera.
Quanto al signor Arturo, avvisato dal rumore della pipa, e dalle esclamazioni del vecchio che qualcosa di strano doveva essere accaduto, dette appena una sbirciatina oltre le fessure dell’uscio e interrogata la cameriera che per questa volta fu felicissima di dirgli la verità, sgattaiolò pian piano e non si fe più veder per un pezzo.
Ma lo zio d’Emilia non era per nulla un abile cortigiano e un diplomatico di vecchio stampo. Appena passato il primo momento di confusione capì che bisognava sputar dolce per quanto avesse bevuto amaro. Però, accostatosi a Cesare con affettuosa premura, lo abbracciò cordialmente e si fè a interrogarlo, col più ben simulato interesse, su quella sua meravigliosa risurrezione. Il giovane spiegò ogni cosa in poche parole: la sua risurrezione era semplicissima.
Ferito nella mischia egli era stato raccolto dai nemici, fatto prigioniero e condotto a Gaeta.
La resa della fortezza e lo scambio dei prigionieri gli avevano ridonato la libertà. Col mezzo di qualche raccomandazione aveva ottenuto dall’Austria il permesso di ripatriare; ma, desiderando vivamente di sorprendere il segreto del cuore di sua cugina, aveva voluto presentarsi all’improvviso e però non aveva scritto a nessuno.
Tutto era andato a seconda de’ suoi voti; sua cugina l’amava: ora gli premeva di andare a consolare sua madre. Ora soltanto! Tutto piegava ahimè davanti all’egoismo invincibile del suo amore.
Dopo mezzogiorno, fatto di necessità virtù, il signor Luigi si metteva in via coi due giovani verso la casa paterna di Cesare. Erano cinque o sei ore di carrozza, che parvero deliziose agli amanti, tediosissime al vecchio.
Non è da descriversi la gioia suprema che provò la signora Ottavia, allorchè dopo un discorso di Emilia, destinato a preparare il suo cuore, vide il figlinolo che aveva pianto per morto correrle incontro tutto commosso e gettarsi fra le sue braccia.
Il cuore di una madre in un momento simile è un poema di quelli che sfuggono alla profanazione dell’inchiostro.
Tutta la famiglia era in giubilo: le cinque sorelle volevano abbracciarlo tutte in una volta. Maria cantava, Ida spiccava de’ salti che facevano tremar la casa.
Perfino il conte nonno dimenticò il sermone che aveva in serbo.
La giornata passò in racconti espansivi, scoppi di pianto, baci, scrosci di risa, un diavoleto da assordare un esercito. Anche la cena fu gaia. Il signor Luigi e il conte, fecero a chi si sarebbe mostrato più fine, più maneggevole, più degno della propria fama.
Era un piacere a osservarli. Certo i loro discorsi erano meritevoli dell’immortalità per la profonda maestria con cui li svolgevano; e pieni di sale e d’ammaestramenti; ma, ahimè, l’uditorio non ci prestava quasi punto attenzione.
I due amanti, le sorelle, la madre, avevano ben altre cose pel capo che il loro macchiavellismo decrepito. Il cappellano solo era al caso di comprenderlo e di apprezzarlo.
I due vecchi però non si davano alcun pensiero nè di lui, nè degli altri. Simili a que’ grandi artisti drammatici o cantanti, rivali di lunga data che non pensano se non che ad abbagliarsi reciprocamente, allorquando il caso li mette di fronte, que’ due artisti della dissimulazione non si curavano altro che di loro stessi
Arte misera doo tutto, di cui tutte le astuzie non valevano un sorriso di quelle belle faccio giovani sulle quali si rifletteva la vita colle sue più dolci emozioni.
— Poichè siamo tutti uniti, disse a un tratto il conte nonno, e persuasi di volerci tutti bene, sarebbe ovvio che provvedessimo alla felicità delle generazioni future, come il nostro dovere comanda.
A quest’esordio il signor Luigi avrebbe voluto essere a cento miglia lontano; ma dal momento che ciò non dipendeva dalla sua volontà s’inchinò col più amabile sorriso, attestando al conte ch’egli comprendeva tutta la saggiezza e l’opportunità di questo consiglio.
— Ebbene, signor Luigi C. disse il conte nonno alzandosi: le chiedo per mio nipote, il conte Cesare di ***, la mano della sua pupilla.
Uno scoppio d’applausi destò gli echi della sala: Cesare e le sue sorelle esternavano in questo modo la loro profonda soddisfazione.
La signora Ottavia e Emilia che erano sedute vicine si abbracciavano e piangevano di gioia.
Il tutore s’alzò a sua volta e dichiarò al signor Conte che accettava tale domanda come un onore per la sua pupilla e per sè.
Povero signor Luigi! Egli decretò in quel momento a se stesso, nel segreto del suo cuore, una medaglia di primo grado, e pensò se mai il cielo potesse essere cotanto ingiusto e inclemente, da non accordargli la rivincita che sentiva di meritare.
Le nozze furono fissate al venturo settembre.
Questa volta il conte sapeva che i due fidanzati si amavano, ma oramai aveva capito che tutto non può andare a fil di spada, che il mondo ha preso il dirizzone, e che per quanto uno si tenga saldo, e diritto, da qualche parte bisogna cascare.
E poi, e poi, la ragazza non gli dispiaceva; era la sola ricca dei dintorni; Cesare era uno scapataccio che premeva di mettere al sodo; e finalmente, questo matrimonio cagionava una rabbia maledetta al suo caro vicino, il quale non poteva poi dissimular tanto bene ch’egli non gli leggesse in cuore. C’erano dunque una gran quantità di motivi che lo persuadevano a chiudere un occhio e a lasciare che i due fidanzati si amassero in santa pace, e si disponessero a mettere al mondo una mezza dozzina di bambini.
Tanto meglio per i due giovani ai quali era dato di godere il frutto di tutte queste alte considerazioni.
Così quell’inverno che Emilia s’aspettava di passare con tanta tristezza, fu invece pieno d’incanti di felicità.
I giorni che Cesare veniva a trovarla erano di quelli che si segnano col filo d’oro; le sembravano rapiti al cielo, e anche se doveva scontarli poi con le lagrime, le pareva che non avrebbe potuto scordarne mai tutta la dolcezza.