Cesare/VIII
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VIII.
Passarono dieci giorni nella più perfetta calma: la calma foriera della tempesta.
Emilia era sempre felice. Cesare aveva qualche momento di malumore; pareva spesso assorto in pensieri penosi; ma quando si trovava vicino a Emilia dimenticava tutto.
Sola la povera Teresina non riesciva a scuotere da sè, nemmeno per un momento la tristezza che la opprimeva. Più taciturna di giorno in giorno, lavorava con un’attività febbrile come se avesse voluto macerare il dispiacere a forza di fatica.
Tutte le volte che vedeva arrivare da lontano il giovane conte, spariva, sicchè egli non era più riescito a incontrarla sebbene la cercasse.
Un giorno però, nelle ore calde, ch’ella stava a fare la foglia per i bachi nel viale dei gelsi, colla sua bimba accanto, Cesare ch’era venuto a piedi per la solita scorciatoia attraverso al bosco, si trovò improvvisamente di faccia a lei.
La piccina, per un atto istintivo di curiosità, levò gli occhi e li fissò in lui, tra ammirata e paurosa.
Cesare s’arrestò: anche lui fissò i suoi occhi neri in quelli della bimba, girandoli poi sulla giovane operaia, con ansietà mal dissimulata. Teresina, pallida come una morta, guardava quasi affascinata le erbe alte e folte ai suoi piedi.
Questa situazione penosa durò alcuni momenti; finalmente, trascinato da un sentimento più forte della sua volontà, Cesare prese la piccina tra le braccia, la baciò in fronte, e, volgendosi alla ragazza.
— Chi è questa bimba? chiese con voce sorda.
— Non l’hai indovinato? disse la giovane cogli occhi gonfi di lagrime — non riconosci tua figlia?...
Ma poi, quasi confusa e pentita di aver osato tanto, o forse spinta da un sentimento istintivo di dignità: — perdoni, signor Conte, mormorò stringendosi le braccia al petto — perdoni, questa bimba non è che mia figlia.
Cesare depose sull’erba la piccola Angiolina, che pareva molto soddisfatta delle sue carezze; si passò una mano sulla fronte, e, dopo un momento d’esitazione, disse guardandosi intorno:
— Hai ragione, Teresa, ho mancato ai miei doveri: ho dimenticato troppo a lungo questa creatura; ma ora riparerò la mia dimenticanza: le farò un assegno, e anche a te; solo, ti prego, non compromettermi....
— Signor Conte! lo interruppe la giovane, io rispetto la sua posizione, so che sono una poveretta, che non posso sperar nulla da lei; ma non posso accettare nemmeno le riparazioni ch’ella mi offre: alla mia bambina basta il lavoro di sua madre.
— Teresa! — esclamò Cesare, non umiliarmi coi tuoi rimproveri; non giudicarmi troppo severamente, ti prego; non voler far male alla tua creatura. Senti, ci parleremo poi: è tanto ch’io desidero di discorrere con te... ma qui è impossibile... potrebbero vederci, e allora.... Facciamo una cosa: stasera quando vado via aspettami nel bosco: spero scolparmi ai tuoi occhi.
Teresina sorrise tristamente.
— Ci verrai? domandò il giovane incamminandosi. Ti prego, non mancare, per amore della tua figliuola.
La ragazza accennò di sì col capo.
— A stasera dunque! ripetè Cesare stringendo convulsamente il braccìno della bimba.
Poi s’allontanò, si guardò intorno con precauzione, tornò addietro nel bosco e prese un’altra strada per andare alla villa.
Indarno si forzava di vincere la preoccupazione che s’era impadronita del suo animo. Quella bimba, ch’egli sapeva bene dover esser la sua; quella povera donna che lo aveva tanto amato e lo amava ancora gli stavano troppo impresse in cuore dacchè le aveva vedute.
Ma, che fare?
Anche Emilia lo amava: la bella, l’altera Emilia di cui era tanto innamorato.
E difatti bastò un suo sorriso, un dolce sguardo d’amore de’ suoi begli occhi, perchè le altre immagini si dileguassero.
La sua fidanzata non gli era parsa mai così seducente. Aveva indosso una vestina bianca, scollata alla vergine; un nastro celeste le cingeva i fianchi un’altro d’egual colore i capelli; le sue braccia nude avevano atteggiamenti mollemente amorosi; il collo e le spalle invitavano ai baci sotto il leggero mussoline che li copriva.
E, quasi l’avesse fatto a posta, non era mai stata così espansiva. Il profumo della sua bocca gli dava le vertigini, l’onda de’ suoi capelli ch’ella gli sbatteva folleggiando sul viso gli bruciavano il sangue.
Le ore passavano inavvertite; un po’ in giardino, un po’ nel bosco, un po’ in sala, tanto per fare atto di presenza davanti al signor Luigi; sempre occupati di sè medesimi e del loro amore, i due promessi sposi vedevano appena le persone che gli stavano d’intorno; ma non prestavano alcuna attenzione a ciò che gli altri facevano.
Se non fosse stato questo sublime assorbimento di tutte le loro facoltà in un solo oggetto e in un solo pensiero, forse avrebbero veduto i sorrisetti ironici e le occhiate maligne che il signor Luigi e, il signor Arturo si scambiavano di quando in quando.
Verso il tramonto erano tutti e due seduti nell’orto vicino a una larga vasca cinta di mura, dove andavano tutte le sere ad abbeverarsi gli animali della masseria, poichè in quelle campagne l’acqua potabile è una cosa preziosa e rara; che non è lecito sprecare a uso di semplice adornamento. La masseria a cui era unita la villa del signor Luigi passava per un modello e la paragonavano alle fertili campagne lombarde, più ch’altro perchè egli sapeva serbare l’acqua piovana, in larghe cisterne e vasche e fossati, e anche nei mesi dì luglio e agosto, allorchè su quella costa tutti patiscono un po’ la sete, egli ci aveva sempre dell’acqua limpida e sana per gli animali e per gli uomini.
Il suo rivale, il conte di *** più fortunato di lui e più ricco, ma non più previdente non possedeva, oltre la cisterna unita alla casa di padronato, altro che alcune sorgenti naturali sulle sue vastissime terre: la sua avarizia gli diceva che l’oro vale più dell’acqua.
Quella vasca, che i contadini chiamavano «il lago,» per distinguerla dall’altre assai più piccole, era un luogo molto caro LL’Emilia. Dalla parte dove il muro s’apriva a guisa d’un ferro di cavallo per lasciare il varco ai bovi e agli altri animali che scendevano allegramente la piccola china, sorgevano due alte quercie ricche di frondi che ombreggiavano quasi tutta la superficie dell’acqua. Dalla parte del muro invece tutto all’ingiro crescevano salici piangenti, pioppi e qualche rosaio. L’erba veniva d’un bel verde quasi in tutte le stagioni, e folta ch’era un piacere. Alcuni banchi di pietra disposti all’ombra, invitavano al riposo. Emilia ci aveva passate là molte ore della sua seconda infanzia triste e solitaria, e ci tornava sempre volontieri, tanto più poi in compagnia del suo amante, quasi alla vigilia d’essere sua per sempre; in quel momenti di malinconia voluttuosa, agitati dal fremito della passione.
I raggi obliqui del sole vicino a tramontare passavano sotto i rami delle alte querele e andavano a specchiarsi nell’acqua, che prendeva certi riflessi metallici, come di bronzo fuso.
Emilia si chinò e colse uno di que’ piccoli fiorellini celesti che crescono vicino all’acqua. I tedeschi li chiamano Vergiss mein nicht.
— Tieni — disse, porgendolo a Cesare — tieni e non ti scordar di me, mai!
— Scordarmi di te, angelo mio! Prima mi scorderei di me stesso: senza di te non vivrei.
E i loro occhi si fissarono intensamente, e le loro labbra si unirono,
— No, tu non puoi tradirmi, disse Emilia, rispondendo a uno di quei vaghi terrori dell’anima, che la assalivano qualche volta nelle ore più belle: i tuoi occhi sono sereni e limpidi: dubiterei che anche mia madre non mi avrebbe amata se dubitassi di te. Mio zio ha fatto quanto poteva per rendenti scettica e cinica: ma l’amore e la fede sono nati insieme: lui non deve avere amato mai; per questo non crede a nulla.