Cesare/III
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III.
Emilia restò alcune settimane in casa de’ suoi parenti. Intanto Cesare scrisse. Era sano e contento, e la guerra cui prendeva parte, pareva una marcia trionfale attraverso ai paesi della Sicilia.
La madre cominciò a sperare di rivederlo presto, e Emilia tornò dal tutore che la chiamava con impazienza.
Il signor Luigi era andato in campagna per sorvegliare una filanda che rappresentava un grosso cespite delle sue rendite, le quali erano assai considerevoli, ma venivano quasi annullate dalle numerose passività.
Anche Emilia, appena tornata andò a veder la filanda; non perchè ci avesse de’ motivi d’interesse, ma perchè fra le giovani operaie ve n’erano spesso di gentili. Venivano tutte dal vicino Friuli, e ella amava il loro accento più italiano, i canti e il costume. Facevano un vivo contrasto colle contadine della tenuta, le schiave, serie, chiuse in sè, e poco amanti del canto e dei lieti trattenimenti.
In mezzo alle vecchie conoscenze che le si fecero subito incontro, essa notò alcune delle nuove, tra le quali una bellissima fanciulla di vent’anni, brunetta e pallida che la guardava con affettuosa ammirazione.
Emilia s’avvicinò a lei, tocca dalla sua aria modesta e melanconica, e attirata da quel visino simpatico.
— Come ti chiami? le domandò dolcemente.,
— Teresina, rispose l’altra; sono di Cividale.
— È la prima volta ehe vieni in Istria?
— No, signora, rispose la ragazza esitando.
Emilia stava per farle qualche altra domanda che rendesse più scorrevole la conversazione, allorchè una bimba di quattro anni, bella come un amore, sgusciò fuori da un bugigatolo e corse presso la giovane operaia, nascondendo il capino biondo e ricciuto nel suo largo grembiale.
— Tua sorella? domandò Emilia chinandosi verso la piccina. Ma questa che dopo le prime ritrosie si mostrò subito amica, disse quasi in atto di protesta:
— La mamma!
— Mamma! ma è impossibile! dimmi Teresina, non è mica tua figlia?
Teresina chinò la fronte; un vivo rossore le si sparse sul viso e sul collo, e non ebbe fiato di rispondere,
— Mamma mia! Cara mamma mia! andava ripetendo la bimba stringendola ai ginocchi, quasi avesse avuto coscienza di quell’imbarazzo e di quel rossore di cui era la cagione innocente, e avesse voluto risarcire la sua povera mamma colle sue carezzine.
Emilia capì; restò un momento sospesa e cambiò discorso.
Da quel giorno mamma e figliuola furono lo sue protette. La piccola Angiolina rimaneva quasi tutti i giorni a desinare con lei e la voleva sempre vicina.
Le insegnava a leggere e a far di maglia, e nelle ore di svago le cuciva un bel corredino.
Si sentiva felice di questo nuovo sentimento. Il suo cuore pauroso dell’amore s’apriva alle dolci estasi dell’affetto materno.
— Forse non amerò mai! sospirava a volte.
Ma l’amore è un traditore che approfitta di tutti i mezzi per insinuarsi dove vuole lui.
Cesare le aveva scritto un’altra volta; ed ella gli aveva risposto, e cominciava a pensarci più che di ragione.
Intanto, il signor Luigi e il signor Arturo seguitavano a farsi bella compagnia.
Tutti e due speravano che un giorno o l’altro la fanciulla avrebbe assecondato i loro desideri, e più lo sperava il signor Luigi, il quale, la sapeva più lunga del diavolo.
Era verso la metà di settembre. I giornali francesi, e quelli italiani passati di contrabbando, annunziavano la gloriosa entrata del generale Garibaldi a Napoli.
Tutti i cuori giovani e entusiasti battevano di contentezza.
Cesare non scriveva più da un mese, nemmeno a sua madre. Invano la famiglia s’era rivolta a dei loro amici, molto accreditati perchè gli ottenessero il permesso di ritornare in patria; nessuno rispondeva.
Quella sera il signor Arturo, ch’era andato a Pirano due o tre giorni per certe sue faccende, stava appunto tornando con una barchetta.
Era verso le cinque; un’ora deliziosa in quel luogo, in quel mese. Il mare era lucido e terso come uno specchio d’argento. I contadini stavano a lavorare nei campi. Com’era bella la campagna! Grossi grappoli gialli e turchini brillavano tra i pampani. Era il prim’anno che si sperasse una buona raccolta dacchè la malattia aveva attaccate le viti.
Il signor Luigi gongolava di giubilo.
Nella mattinata a dir vero aveva avuto un momento di cattivo umore. Un signore vestito di nero, che puzzava d’usciere a cento miglia di distanza s’intratteneva lungo tempo con lui; finalmente egli l’era alzato, aveva aperto un piccolo stipo e ne aveva tratto un foglio scritto, col quale, l’ospite poco gradito s’era deciso a sgombrare il campo.
Ma oramai il suo viso non serbava più alcuna traccia di quel piccolo dispiacere. Ecco come gli era passato.
A mezzo giorno, sua nipote occupata a leggere qua’ giornali tanto desiderati, l’aveva visto entrare nella sua camera. Le aveva detto tante cose graziose, scherzando con insolita bonomia sul suo entusiasmo, poi aveva soggiunto sbadatamente:
— Mi faresti il piacere di mettere la tua segnatura ai piedi di questa carta?
— Subito, zio; cos’è? — rispondeva Emilia, scrivendo il suo nome senza guardare.
— Ah, una cosa da nulla: gli è il conto del semestre. Sai, voglio mandarlo al pretore come faccio sempre per tutte le buone regole. Anche questa di farti firmare a te non è che una formalità. Ma nella delicatezza della mia coscienza voglio essere garantito mettendoti a giorno di tutto.
Dopo ciò, dunque il malumore cagionatogli dalla visita dell’usciere non aveva lasciato traccia sul suo viso di satiro. L’ingenua condiscendenza della nipote, il rispetto ch’ella dimostrava per la sua coscienza illibata, avevano giustamente calmato le sue inquietudini e lisciate le grinze della sua fronte.
Ahimè! la nipote veramente non sentiva un rispetto molto profondo per quella coscienza che non le pareva tanto illibata. Prima di rendere il foglio al tutore, mentr’egli recitava la sua parlatina giustificativa, la ragazza ci aveva gettato un’occhiata, e una cifra, enorme per un conto semestrale, l’aveva colpita.
Eppure non aveva osato parlare.
Emilia non compiva ancora i diciasett’anni, e provava in sè quella repugnanza invincibile che un animo giovane e ben fatto prova sempre davanti alla vergogna di quei tanto venerati capelli bianchi.
Meglio morire, meglio esser tradita che scoprire in tutta la sua nudità schifosa, la vigliaccheria di chi aveva accaparrato il suo rispetto e la sua fiducia, per tanti anni. Meglio avere il cuore lacerato, che venire a una di quelle spiegazioni degradanti che rompono il filo della vita.
Lei, poverina, sola, senza genitori, cercava di farsi più illusioni che poteva sul conto del zio ch’era tutta la sua famiglia; e se non poteva illudersi, voleva almeno tacere e dimenticare.
I buoni provinciali del suo paese la dicevano stupida e romantica.
Ma intanto ch’ella fantasticava la barchetta che conduceva il signor Arturo era divenuta visibile a occhio nudo.
Il signor Luigi che ci aveva appuntato il cannocchiale, da un quarto d’ora, poteva distinguere meglio le persone, fra le quali il grosso pedante faceva la sua figura.
— Guarda, disse volgendosi alla nipote, c’è Gianni quel bel giovanotto che t’ha portato il ritratto di tuo cugino, Arturo l’ha condotto con sè. Povero Arturo, non si può negare che par molto brutto vicino a lui
Emilia sorrise.
— È proprio un bel giovane, quel Gianni, continuò il vecchio, s’io fossi donna lo preferirei a molti signori.
— Lo sposeresti? domandò Emilia.
— Ah, che bisogno c’è di sposare?... Sai cos’ha detto di te?
— Chi?
— Gianni, oh bella!
— Che può dire di me, lui?
— Oh come sei superba. Non sai che la bellezza è la prima aristocrazia?
— E sia pure, a me non m’importa.
— Insomma quel povero ragazzo ha detto che andrebbe volentieri all’inferno per tutta l’eternità, solo che tu gli volessi bene un’ora. Gran fortuna esser donne giovani e belle! Se rinascessi....
Il vecchio rideva. Emilia gli volse le spalle e uscì dalla sala.
Il signor Arturo arrivò di buonissimo umore. Aveva molte novità da raccontare, e una fra l’altre, non lieta a dir vero, ma che gli faceva, forse senza saperlo un vivissimo piacere.
Diciamolo franco: era una cattiva nuova.
Gli amici influenti ai quali la signora Ottavia, madre di Cesare, s’era indirizzata per ottenere il suo ritorno in patria, non avevano osato scrivergliene: ma un signore del Comitato lo aveva scritto a Gianni: Cesare si credeva morto.
— Morto! gridò Emilia, morto!
E la commozione che ne provò fu così forte che lasciò quasi cadere la piccola Angiolina, seduta sulle sue ginocchia.
Il giovane campagnuolo mostrò la lettera del Comitato veneto.
Un veneziano che gli si trovava vicino, aveva veduto cadere il povero Cesare; ma, assalito lui stesso, non aveva potuto assisterlo. Dopo il combattimento nessuno era riescito a vederlo. Il suo cadavere non era stato trovato; ma poichè il suo nome non figurava tra i prigionieri, nè tra i feriti non poteva essere altro che morto. Così la lettera.
Il signor Luigi taceva; forse per la paura di tradire la gioia maligna che ci provava. Gianni, con l’istinto affettuoso dei giovani, non staccava gli occhi dal viso d’Emilia. Solo il buon pedante andava sciorinando certe sue prediche sui dispiaceri che i figliuoli danno ai genitori, sulla sconsideratezza di certe imprese, e la vanità di prodezze infruttuose.
Emilia che a que’ discorsi si sentiva salire il sangue alla testa, s’alzò, baciò in fronte la bimba, diè la buona notte agli altri e si ritirò.
Quando fu nella sua camera si chiuse dentro perchè nessuno venisse a darle noia. Aveva bisogno di restare sola. Sentimenti contradditori mettevano in tumulto l’animo suo.
Eppure non lo aveva amato!
Questo pensiero che s’andava formulando nella sua mente, le cagionava una singolare meraviglia.
Non l’aveva amato! Ne era proprio sicura?
Ma perchè desiderava tanto di rivedere il suo ritratto? Qual potenza magnetica le dipingeva le sue fattezze, illanguidite dalle sofferenze, più seducenti, più belle che mai?
Era già notte fitta. Emilia accese il lume; staccò dal muro il quadretto che conteneva la fotografia del povero garibaldino, e rimase come estatica a contemplarla.
Le sue mani tremavano: il cuore le batteva forte. Che strano foco brillava in quegli occhi!
E che rimprovero atroce in quel sorriso malinconico!
— Cesare! Cesare! gridò fuori di se; perdonami! perdonami! Ero un’insensata, non comprendevo me stessa, ma ti amavo, ti amo!
E soggiogata da un sentimento nuovo, prepotente, ella appoggiava le sue labbra ardenti sul vetro che copriva il ritratto, e lo bagnava di lagrime.
Lo amava. Quel sentimento così nuovo non poteva essere altro che amore.
Per qual cecità assurda non l’aveva compreso prima? Lo aveva amato sempre, non aveva mai rivolto il pensiero a altri, ne era sicura, ora.
E ora era morto.
Era sceso sotterra credendola fredda e indifferente per lui.
Non poteva crederci: era un delirio, una menzogna: le girava la testa.
L’aria calda della camera non le parve più respirabile. Aprì la finestra e vi s’appoggiò.
Era una brutta notte. Si sentiva il sussurro del vento tra gli alberi che cominciavano a sfrondarsi, e il lento e monotono sussulto del mare in lontananza. Le ore le passavano inavvertite in quella specie di prostrazione catalettica. Era tardi. Pareva che fossero tutti addormentati nella casa e fuori.
Un lampeggìo di cattivo augurio solcava il cielo verso la parte di mezzogiorno; del resto, oscurità perfetta.
Restò qualche tempo immobile; ma a poco a poco la freschezza dell’aria le calmò la febbre.
Un rumore novo, distinto da quello del vento, e da quello del mare svegliò la sua attenzione.
Pareva la cadenza monotona di un passo lento, interrotto, di quando in quando, da un sordo gemito. Ascoltava, quasi suo malgrado; affascinata da una curiosità, che le pareva assai strana in un momento simile.
Qualcuno piangeva come lei, vicino a lei. Chi?
Questa domanda l’imbarazzava.
Una raffica improvvisa spense il lume che ella aveva posato sul tavolo vicino alla finestra.
Non vi badò; i suoi occhi affaticati dal piangere sopportarono meglio le tenebre.
I passi misteriosi e i gemiti si chetarono. Concentrò un’altra volta il pensiero sovra sè stessa. Le pareva di fissare un abisso.
A un tratto i gemiti e i singulti, soffocati un istante, risalirono fino a lei, più distinti. Ma il suono de’ passi non si sentiva più. Evidentemente la persona misteriosa doveva essersi fermata poco lontano dalla finestra, giù nel giardino.
Guardò un poco senza vedere, finalmente un lampo più vicino degli altri venne a rischiararla.
Vide una forma umana inginocchiata, col capo appoggiato agli scalini di pietra che circondavano la vasca: credè riconoscere i contorni e le vesti della Teresina; ma dubitava ancora.
Un momento dopo tutto ricadde nella medesima oscurità.
Nonostante, fosse illusione o realtà, quella figura prostrata, stanca, oppressa dal dolore, l’aveva colpita. Non riesciva a staccarne il pensiero; non poteva fare a meno di raffigurarsela sotto le sembianze della filatrice.
Quella giovane di vent’anni appena e di già madre d’una creaturina di quattro, le pareva un essere fantastico, straziante e adorabile a un tempo; sempre mesta, sempre sola, ella non accompagnava i canti delle altre, non prendeva parte alle danze: lavorava indefessamente poichè doveva lavorare per due, e non un lamento usciva dalle sue labbra. Chi era l’infame che l’aveva tradita bambina ancora?
E quell’Angiolina tanto cara! Vi erano dunqne uomini, capaci di abbandonare una creatura simile? Ah! cos’era dunque questo terribile sentimento che chiamavano amore?
Cosa poteva essere un sentimento che non s’era destato nel suo cuore mentre Cesare era accanto a lei, e la tormentava adesso con tutte le smanie atroci del rimorso?
Ma era poi amore? O cos’era? E l’uomo che aveva sedotta la Teresina l’aveva egli amata?
Queste erano le solite riflessioni, dove si smarriva sempre. Ma in codesta sera, il sentimento doloroso che le accompagnava le rendeva più amare. Intanto il temporale era scoppiato. Cadeva una pioggia diluviale.
Colta dal freddo, si ritirò dalla finestra. Anche la donna che piangeva in giardino s’era ritirata.
Si gettò sul letto vestita a quel modo, e, dopo lunghe meditazioni dolorosissime e lagrime amare che le bruciavano le palpebre, vinta dalla stanchezza, chiuse gli occhi e s’addormentò.
Ma il sonno che la tolse per brev’ora alla disperazione, non era di quello che calma lo spirito e ristora le forze. Era un sonno affannoso, tormentato da sogni orribili.
Vedeva, con un’insistenza che teneva dell’allucinazione, un campo di battaglia sparso di morti, e di feriti: il sangue scorreva a rivi: un frastuono spaventoso rintronava il suo cervello: gemiti disperati straziavano il suo cuore. E in mezzo ai morti vedeva Cesare agonizzante, trascinarsi tra la polvere e i ciottoli, lungo una strada arsa dal sole, per chiederle un sorso d’acqua, a refrigerio della sua gola ardente, delle sue labbra inaridite.
Ma mentre ella correva in cerca di una bevanda rinfrescante, una donna più pronta di lei sollevava il ferito e gli porgeva da bere.
Provò un dispiacere così violento che si svegliò.
Pioveva sempre. Un lampo illuminò la sua camera, le parve di veder l’ombra della donna piangente disegnarsi sui vetri della finestra.
Le ispirava pietà e nello stesso tempo le pareva di odiarla, di un odio cieco, irragionevole, ma profondo.
Avrebbe giurato che avesse gli stessi lineamenti di quella veduta in sogno.
Era fantasma o realtà? Era veramente la filatrice quella che aveva vista piangere? I sensi turbati d’Emilia non potevano giudicare con sicurezza; e nello stesso tempo provava un desiderio ardente e come una speranza che fosse tutto un sogno, tutto, anche quella notizia terribile che le aveva spezzato il cuore.
Finalmente, verso l’alba la pioggia cessò, i lampi si fecero più rari; a poco a poco tutta la natura ritornò calma e serena, e anche Emilia ebbe un momento di riposo e d’oblio.