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I III
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II.

Nei giorni che seguirono, Emilia sembrò aver perduto una parte della sua spensierata gaiezza.

Era inquieta. Lasciava il piano per correre ai suoi fiori; coglieva una rosa che andava sfogliando sopra pensiero, e tornava al piano.

Da lì a un po’ s’affacciava alla solita finestra e guardava le barche pittoresche dei Chiozzotti attaccate alla piccola diga; le vele candide che solcavano l’orizzonte, e l’onda eterna che si spezza irremissibilmente, ma non cessa di battere contro l’argine della sponda, finchè, un giorno, la pietra logorata si frange e l’argine rolla.

Era ai primi di luglio: da quindici giorni Cesare non s’era più lasciato vedere; nè alcuna nuova era [p. 20 modifica]giunta dal castello. I contadini solevano chiamare così, l’ampia casa che Cesare abitava con la sua famiglia.

In que’ paesetti le relazioni giornaliere non esistono, non se n’ha alcuna idea. A poche miglia di distanza, famiglie legate da vincoli di parentela sono capacissime di rimanere tre o quattro mesi senza saper nulla le une delle altre. Ma Cesare che amava sua cugina, non lasciava mai passare una settimana senza farle una visita o scriverle.

Qualche cosa di straordinario doveva essere accaduto dunque; Emilia ne aveva il presentimento. In cuor suo ella approvava la risoluzione che il cugino le aveva manifestata di andare a raggiungere i mille volontari sbarcati in Sicilia con Garibaldi; ma non osava parlarne a nessuno.

Intanto il signor Luigi le propose un giorno d’accompagnarlo alla sua possessione di Salvore, e la fanciulla accettò.

— Si va per terra o per mare? chiese con una certa malizietta da bimba.

— Che domande! Sai bene che per mare io non ci vado mai: loda il mar, tienti alla terra, è un proverbio d’oro. Per mare manderemo la roba, e il signor Arturo ci farà il favore d’accompagnarla. [p. 21 modifica]

— Già, quel solito favore che lo fa rimaner con noi tutto il tempo che dura la villeggiatura.

Il vecchio sorrise, e partirono.

La strada che va da Pirano a Salvore è straordinariamente pittoresca. La prima metà è quasi una continua diga formata a piè del monte: il largo zoccolo d’una rocca immensa, che il mare accarezza o flagella a seconda de’ suoi capricci. Man mano che si va innanzi però, il monte si ritira e la vallata comincia.

È una magnifica valle, ubertosa e ricca, che si stende da Castelvenere al mare.

Piantato in vetta alla roccia il piccolo villaggio di Castelvenere domina il mare e la valle. Non credo che questo suo nome poetico sia un omaggio reso alle veneri moderne, per quanto le figlie di razza slava che abitano su quelle alture — fornaie dalla prima all’ultima — siene tutte belle nella loro giovinezza. Ma che gli giova? Ahimè, nessun Raffaello andò a scegliere in quell’eremo la sua fornarina.

Con una larga paniera in capo esse scendono tutte le mattine dalla loro dimora alpestre e portano il pane quotidiano nei paeselli vicini e anche nelle città; le povere a piedi, le più agiate in groppa ai pacifici asinelli. [p. 22 modifica]

È uno strano paese V Istria. Tanto piccolo e tanto diverso! Quasi ogni villaggio ci ha la sua fisonomia originale. Gli abitanti delle spiagge e delle città sono quasi tutti italiani, ma i contadini dell’interno quasi assolutamente slavi. Qual differenza però anche tra costoro. Qual differenza tra la robusta razza savrina di Castelvenere e di tutti i villaggi montuosi intorno a Trieste, e quei poveri contadini della pianura abbrutiti, girovaghi, che i proprietari chiamano Schiavi. Essi deperiscono di giorno in giorno e certo sono destinati a scomparire assolutamente. Intanto se vogliono farsi intendere sono costretti a parlare in italiano meglio che possono, poiché nessun istriano, persona civile, degna di scendere fino a parlare la loro lingua.

Sulle roccie di Castelvenere si vedono ancora gli anelli di ferro a cui si legavano le barche. Il mare arrivava fino là, una volta; ma chi sà in che tempi remoti. Allora tutta la vallata era sommersa e la montagna era il piano.

La favola narra che Venere andasse un giorno, con la sua conchiglia di madreperla, a visitare quelle spiagge ignorate, in compagnia d’amore. La cronaca racconta invece che una bellissima dama visitasse una volta il castellano che abitava la rocca, [p. 23 modifica]e vi rimanesse la notte. In conseguenza di che, divenuta signora e padrona, consacrò la sua nuova dimora a Venere, e mandò il castellano a fare una passeggiata in Terra Santa,

Probabilmente, la favola e la cronaca, raccontano la medesima storia, secondo il gusto e l’epoca diversa dei narratori. Comunque sia, a noi poco preme. La carrozza dei nostri due villeggianti attraversava la valle in mezzo a lunghe file di lavoratori di sangue italiano, occupati a raccogliere il sale che il mare aveva deposto sulle loro saline. Un tramonto sfolgorante gettava a larghi fasci i suoi raggi obliqui, che abbelliscono ogni yeduta, su quello strato cristallino e lucente.

Liete canzoni accompagnavano il lavoro.

Il vecchio, in questo tempo, accendeva per la ventesima volta la pipa, e Emilia guardava con simpatia quelle donne abbronzate e stanche, ma non troppo malcontente del loro destino, che aiutavano gli uomini nel lavoro.

Ma già l’erta salita cominciava sopra la costa rocciosa; la terra, di bianca ch’era fino a quel punto, diventava rossastra, come cinabrese in polvere. Si trattava di salire il versante di una di quelle piccole diramazioni del Carro che vanno a morir nel [p. 24 modifica]mare. I cavalli si misero al passo, il cocchiere discese; e il signor Luigi, che finalmente aveva la sua pipa accesa, cominciò la conversazione con un colpo proditorio tirato a bruciapelo.

— Ma dimmi un po’ perchè non vuoi sposare il signor Arturo? domandò egli.

La fanciulla alzò la fronte e gli fissò in volto que’ suoi occhioni meravigliati che dicevano tante cose.

— Perchè? gli è assai semplice il mio perchè, caro zio; perchè non l’amo.

— Fisime! L’amore vien dopo: tu vuoi il mondo alla rovescia.

— Scusa, zio; questo non è sempre vero; anzi da quello che vedo, direi ch’è proprio il contrario: so di molti che s’amavano prima e non s’amano più dopo, ma....

— Il ma non c’entra, esclamò il signor Luigi interrompendola con vivacità.

— La prima parte della tua proposizione dimostra abbastanza che l’amore non è necessario, un cavolo. Giacché, se a ogni modo si finisce col non amarsi più un giorno o l’altro, tanto fa pigliarsi a dirittura senza dar retta a sogni, e fare il proprio interesse.

— O quello degli altri, mormorò Emilia a bassa [p. 25 modifica]voce, ma non ebbe il coraggio di dirlo a forte; onde, il signor Luigi ch’era un po’ sordo non la intese.

— Miglior marito non potresti azzeccare — ripigliava il vecchio, tra il serio e il gaio — lui ricco, lui innamorato mentre tu non lo sei, e questo gli è il più gran vantaggio per una donna, grulla! lui sufficientemente bestia; e finalmente, lui abituato a dormire le sue dodici ore su ventiquattro! Ma è il paradiso ch’io t’offro, e tu non mi sei grata.

Emilia taceva.

La campagna le pareva supremamente bella: gli uccelletti svolazzavano cantando intorno al dolce nido.

— Essi non cercano queste qualità negative nel loro compagno d’amore — pensava — essi si amano, e io non dovrei mai amare!

— Ti farei sposare sotto il regime della separazione dei beni — tornava a dire il vecchio dopo una pausa — così saresti sempre padrona della tua dote che amministreresti da te....

— Ma io, caro zio, non so amministrare.

— T’aiuterei io, ci s’intende!

— Ah!

— E la tua dote dovrebbe restare per le tue spese particolari, al mantenimento della casa ci [p. 26 modifica]penserebbe lui solo: è ricco! Potresti fare ogni anno in carnevale un viaggetto a Venezia; l’estate andresti a Recoaro.... e l’amore non ti mancherebbe no, sta tranquilla.

— Ma come puoi dirmi questo, zio? Come puoi supporre, tu così intelligente, ch’io ami il signor Arturo?

Il signor Luigi fece un atto d’impazienza, poi sorrise con cert’aria di mistero.

— Sei pur bimba! non capisci nulla. Chi mai ti dice d’amarlo, lui? Io dico che l’amore non ti mancherebbe perchè l’amore viene sempre dopo il matrimonio... ma questo non vuol dire che l’amato debba essere il marito. Basta sapersi condurre e aver per compagno un uomo che beva grosso come il signor Arturo, una bella donnina come te, che vive signorilmente, ha dinanzi a se un orizzonte infinito nel quale può spaziare a suo talento. Conosco il mondo io, sai. Ne ho vedute di belle quand’ero laggiù a Milano; e ne ho vedute anche qui. Non ci hai mica a credere all’aria contritta di codeste pinzochere! Ne han fatte d’ogni erba fascio. E hanno fatto bene; tanto, sai, a questo mondo ci si sta per le spese.

— Stai zitto, zio, — disse la fanciulla con voce stanca — basta! [p. 27 modifica]

Il vecchio riaccese la pipa, che s’era spenta da capo, e guardò la campagna crollando le spalle.

Il sole era tramontato, la salita quasi finita; correvano sull’altipiano: la vallata dietro alle loro spalle giaceva nelle tenebre: Castelvenere in mezzo a un leggero velo di nebbia pareva un fantasma gigantesco. Un ruscelletto scendeva mormorando per la costa fin giù nella profondità più scura della valle; la ginestra in fiore spandeva un odore soave.

Emilia pensava alla sua povera mamma morta tanti anni addietro, e di cui non conosceva nemmeno la tomba; pensava al padre che l’aveva seguita, e si sentiva sola vicino a quel vecchio che aveva giurato di proteggerla e provvedere alla sua felicità.

— Ma, e chi mi dice che parlandomi così egli non creda veramente di parlare per mio bene? mormorò subendo senza avvedersene, l’influenza di quel cinismo.

— Ah, no! continuava poi, sempre tra sè e sè; c’è il suo interesse di mezzo. È in nome del suo interesse, non del mio che mi parla. Oh mamma mia! se tu fossi viva, tu mi parleresti altrimenti.

E chinava la testa sul petto, e due lagrime lunghe, amare, solcavano le sue guancie.

Avevano fatto un mezzo miglio così in silenzio, [p. 28 modifica]allorchè un giovane contadino friulano che viveva sui poderi del signor Luigi, s’arrestò sull’orlo della strada e accennò di voler parlare.

La carrozza si fermò, e il giovane trasse di tasca un involto che presentò alla signorina.

Era una cassettina di legno che Emilia aprì con premura. Ma quale fu la sua meraviglia vedendo che conteneva il ritratto di Cesare e una lettera.

— Chi t’ha dato questo? domandò, volgendosi al contadino.

— Il signorino in persona. L’ho accompagnato fino a Venezia, e prima di partire m’ha detto di consegnar quest’involto alla signorina.

— E non sai s’è passato?

— Sì, signora; m’aveva detto ch’aspettassi tre giorni e poi che andassi al comitato, dove mi ci aveva menato lui una volta; che lì avrebbero saputo tutto. E difatti, appena mi son presentato, que’ signori, boni signori, per Dio! m’hanno detto ch’era passato, hanno voluto che bevessi alla sua salute, e m’han regalato dei sigari.... Comandano altro, signor padrone, padroncina... soggiunse il giovane interrompendosi a un tratto, doppiamente imbarazzato per quel suo slancio inconsulto e il silenzio dei signori. [p. 29 modifica]

— Tieni, disse la fanciulla porgendogli una moneta d’argento che il giovane lasciò cadere a terra arrossendo fino ai capelli.

Ma Emilia non se ne accorse: il cocchiere aveva allentato il freno ai cavalli che sentendosi vicini a casa andavano via come il vento.

— È partito quella testa balzana! borbottò il signor Luigi fra i denti.

— Ha fatto il suo dovere di giovane d’onore, disse Emilia; ora lo stimo di più.

— Si capisce! sempre romantica.

— O che e’ entra il romanticismo in questo, caro zio?

— Già, già, la vostra Italia! Imbecilli! Quanto a te, era ch’è diventato un eroe, a lasciarti fare, te lo sposeresti. Per me, sai, tu sei libera. Non sono tuo padre, e però non posso che consigliarti; ma, credi a me, faresti uno spropositone. È ricco sì, e abbastanza grullo, anche lui, ma c’è quella birba del nonno che ti terrebbe a bacchetta; e poi, sempre in campagna, figurati che divertimento!

— Non aver paura, zio, non lo sposerò; ma non per questi motivi.

— Perchè dunque?

— Perchè non l’amo. [p. 30 modifica]

— E dalli con quest’amore! Ah poveretto me, che tempi, che tempi! E che progresso... germanico. Le ragazze che ti parlan d’amore come se non dovessero ignorarlo! — disse il signor Luigi accompagnando il suo discorso con un sogghigno ironico.

La sera, quando si chiuse nella sua camera, Emilia non seppe resistere al desiderio di guardare un po’ il ritratto di suo cugino. Era un gran bel giovane.

I suoi occhi splendevano; l’amore raggiava sulla sua fronte: era sereno e mesto a un tempo.

— Chi sa se lo vedrò più? disse fissando i suoi occhi in quelli del ritratto. Ma, chi lo sa! Beato lui ch’òèun uomo e può muoversi, e operare secondo la sua volontà! Io sono sepolta qui. Così dicendo messe da parte il ritratto e prese la lettera che non aveva letta ancora.

«Cara Emilia — scriveva Cesare.

«Parto perchè ho vergogna di restare inoperoso, mentre i nostri fratelli si battono.

«E parto anche perchè mi sento il bisogno di far qualche cosa che mi sollevi e mi renda più degno di te. Chi sa che tu non m’ami un giorno! Lasciami almeno questa speranza; mi sarà di conforto, [p. 31 modifica]se dovrò morire sul campo, il pensiero che ti rimanga una memoria meno volgare di me.

«Ti raccomando mia madre, va a confortarla.

«Tutto tuo
«Cesare»


— Povero Cesare! — disse la fanciulla con un sospiro. Ma perchè non lo amo? Non so. Non comprendo me stessa: ho come un sasso sul cuore che me lo tien compresso. Quella sera, l’ultima sera che l’ho veduto, quando mi stringeva la mano, mi pareva proprio ch’ero vicina ad amarlo. Ma poi vennero gli altri. Non so perchè, ma quando veggo mio zio e il suo amico, non ho più slancio. Sento come una voce che mi dice: «No, no, non amare.» Ho un presentimento di dolori, di sconforti che mi toglie tutta la bella fede nella vita che hanno le altre ragazze della mia età. Mi pare come se il giorno che lo amassi, tutto questo grand’amore che lui dice di sentire per me, non avesse a bastarmi più. È strano.

Ah zio, zia, sei tu che m’avveleni lentamente, che mi togli dagli occhi quel bel velo che fa tanto bene; tu che distruggi la mia fede e le mie illusioni, per farmi bere la feccia della tua vecchia esperienza! [p. 32 modifica]

Emilia passò una cattiva notte con questi pensieri. La mattina si levò anche più triste, e disse al tutore che voleva andare dalla madre di Cesare. Aveva quel bisogno irresistibile di cambiar di luogo che accompagna certi dolori dell’anima.

Il signor Luigi la fece accompagnare dalla cameriera, che quanto a lui, in quella casa ci andava il meno che poteva.

Malgrado i costumi e le leggi mutate, questi signorotti di provincia, questi ex-feudatari, sentono sempre gl’impulsi del vecchio sangue. Nutrono gli odi inveterati, le gelosie di territorio e di dominio, che non s’estinguono mai.

Il signor Luigi aveva circondata tutta la sua possessione di un muro piuttosto alto affinchè nessun straniero ne varcasse il confine: ma il conte di *** il nonno di Cesare non passava mai vicino a quel muro superbo senza sorridere beffardamente.

Questo sorriso era stato commentato e riferito a chi di dovere: e il signor Luigi ne sentiva tutta l’amarezza. Le possessioni del suo vicino erano così vaste che gli sarebbe stato impossibile di segnarne il confine: appena appena se lo conosceva.

— Il signor Luigi ha il mal della pietra, soleva dire il conte di *** brutto male e pericoloso! Con ciò [p. 33 modifica]alludeva a quella manìa di fabbricare per cui s’era più che a metà rovinato.

Il signor Luigi a sua volta gli dava dell’usuraio e, nei momenti più brutti lo accusava d’aver assassinato il suo figliuolo per non dividere le sue terre.

Nè mancavano referendari, anche per queste ingiurie. Ma il Conte di *** le ascoltava ridendo; tutto al più se gli sfuggivano queste parole:

— Badi lui a non andare in gallera per gl’imbrogli che fa col patrimonio di sua nipote!