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176 iii - catone in utica

SCENA X

Marzia e Cesare.

Cesare. Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei
appena il credo, e temo
che, per costume a figurarti avvezzo,
mi lusinghi il pensiero. Oh, quante volte,
fra l’armi e le vicende, in cui m’avvolse
l’incostante fortuna, a te pensai!
E tu spargesti mai
un sospiro per me? Rammenti ancora
la nostra fiamma? Al par di tua bellezza
crebbe il tuo amore o pur scemò? Qual parte
hanno gli affetti miei
negli affetti di Marzia?
Marzia.  E tu chi sei?
Cesare. Chi sono! E qual richiesta! È scherzo? È sogno?
Cosí tu di pensiero,
o cosí di sembianza io mi cangiai?
Non mi ravvisi?
Marzia.  Io non ti vidi mai.
Cesare. Cesare non vedesti?
Cesare non ravvisi?
Quello che tanto amasti,
quello a cui tu giurasti,
per volger d’anni o per destin rubello,
di non essergli infida?
Marzia.  E tu sei quello?
No, tu quello non sei; ne usurpi il nome.
Un Cesare adorai, nol niego; ed era
della patria il sostegno,
l’onor del Campidoglio,
il terror de’ nemici,
la delizia di Roma,