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atto primo 163


regolati saranno, ultima speme
non sono i miei numidi. Hanno altre volte
sotto duce minor saputo anch’essi
all’aquile latine in questo suolo
mostrar la fronte e trattenere il volo.
Catone. M’è noto; e il piú nascondi,
tacendo il tuo valor, l’anima grande,
a cui, fuorché la sorte
d’esser figlia di Roma, altro non manca.
Arbace. Deh! tu, signor, correggi
questa colpa non mia. La tua virtude
nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.
Nuovo legame aggiungi
alla nostra amistá; soffri ch’io porga
di sposo a lei la mano:
non mi sdegni la figlia, e son romano.
Marzia. Come! Allor che paventa
la nostra libertá l’ultimo fato,
che a’ nostri danni armato
arde il mondo di bellici furori,
parla Arbace di nozze e chiede amori?
Catone. Deggion le nozze, o figlia,
piú al pubblico riposo
che alla scelta servir del genio altrui.
Con tal cambio d’affetti
si meschiano le cure. Ognun difende
parte di sé nell’altro; onde, muniti
di nodo sí tenace,
crescon gl’imperi e stanno i regni in pace.
Arbace. Felice me, se approva
al par di te con men turbate ciglia
Marzia gli affetti miei!
Catone.  Marzia è mia figlia.
Marzia. Perché tua figlia io sono e son romana,
custodisco gelosa
le ragioni, il decoro