Capitolo V

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IV VI

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CAPITOLO V.

Dal messaggio di Pietro Fregoso
e di ciò che ne seguisse al castello Gavone.


In quella che Tommaso Sangonetto sta almanaccando insieme coll’oste dell’Altino, per trovar modo di sapere le cose avvenute e di foggiarvi su una credibile invenzione, andiamo noi per la spiccia e vediamo che ambasciata portasse messer Pietro Fregoso alla corte di Galeotto, marchese del Finaro.

I due cavalieri genovesi (oramai l’arcano è svelato e l’incognito non serve più a nulla) presentatisi alla porta di san Biagio e debitamente fermati dalle scolte, si erano annunziati messaggieri dalla possente repubblica e portatori di lettere d’alto rilievo al marchese. Il comandante della porta, veduto il sigillo coll’arme di Genova, avea dato loro il passo e la compagnia d’un drappelletto di balestrieri, che, parte per onoranza e parte per custodia, li condussero oltre. Così orrevolmente scortati, sotto gli occhi di un popolo curioso che si affollava sul loro passaggio e della loro venuta non pronosticava niente di buono, erano riusciti alla porta settentrionale del borgo; d’onde, per una ripida strada serpeggiante sulla costiera del monte, erano saliti in vista del castello Gavone, dove i mar[p. 92 modifica]chesi del Carretto, terzieri del Finaro, avevano corte e dimora.

Si è già detto che il castello Gavone era murato a cavaliere del borgo, su d’un contrafforte della roccia di Pertica. Da quella notevole altura il feudale baluardo dei Carretti guardava davanti a sè il borgo anzidetto e tutto il corso del Pora fino alla spiaggia del mare; sui lati, poi, vigilava le due valli del Calice e dell’Aquila, quella che mette a Rialto e questa a san Giacomo. Era, per que’ tempi, fortissimo arnese. Quattro torri merlate lo munivano sugli angoli. Lunghesso le mura si aprivano larghe finestre, partite a colonnini, indizio di fasto all’interno; ma su quelle finestre correva un poderoso cordone di pietra e poco sopra di questo una lunga balconata, colle sue caditoie aperte sotto gli sporti, donde all’occorrenza si facea piovere una gragnuola di sassi sui nemici che avessero ardito accostarsi a pie’ delle mura.

Grandiosa mole, che, a mezzo diroccata (dopo essere risorta un’altra volta, insieme colla mutevole fortuna de’ suoi signori) fa tuttavia bella mostra di sè, e potrebbe anco tentare il più nobile dei capricci che la ricchezza consenta ai fortunati del tempo nostro; il capriccio, vo’ dire, di restaurare il passato nella sua parte accettabile! I marchesi del Carretto, ai quali era toccata quella porzione litorana del retaggio aleramico, avevano innalzato il castel Gavone intorno al 1100. Uomini in continuo stato di guerra con vicini e lontani, dovettero eleggere a loro dimora e presidio un luogo discosto dal mare e manco accessibile alle incursioni dei barbari, che infestavano in que’ tempi le coste della Liguria. Epperò, da princi[p. 93 modifica]pio si fortificavano in Orco, Verzi ed altre villate sui monti; indi, scemato il pericolo, o cresciute le forze, calarono a Pertica, dove sorse appunto il castel Gavone, due miglia distante dalla riva del mare.

Ci condurrebbe a troppo lunghe e, per giunta, non grate considerazioni, il cercare qual parte della valle fosse da principio abitata. Di certo, agricoltori e pescatori v’ebbero ugualmente dimora da antichissimi tempi. I Romani segnavano in que’ pressi una stazione della via militare che correva tutta la spiaggia ligustica, e il nome ad Pollupices ci fu tramandato dall’itinerario di Antonino. L’altro di Finar comparve nell’età di mezzo, e certo era nome antico del pari, a significare, non già la finezza dell’aria, come vollero certi etimologisti sconclusionati (Liguria a leguminum satione, Arenzano ab äere sano e simili altre bambinerie), ma dall’essere colà stabiliti i confini tra gl’Ingauni e i Sabazii.

E qui, prudenti, lasciamo da banda l’età romana, il basso impero e la gran notte barbarica; chè il troppo amore delle minuzie archeologiche non ci tragga fuori del seminato e, quel che sarebbe peggio, della grazia vostra, o lettori. Il Finaro, nel 976, per investitura di Ottone I, appartenne al marchese Aleramo; i cui discendenti, chiamati Del Carretto, lo ebbero e lo signoreggiarono, confuso con altre terre sotto il nome di marca savonese, fino al 1268; nel qual tempo, per la spartizione avvenuta fra i tre figli di Giacomo, toccò ad Antonio Del Carretto, da cui ebbe principio il ramo dei terzieri del Finaro.

Costoro, come ho detto più sopra, posero sede nel castello Gavone, a cavaliere del Borgo, e comanda[p. 94 modifica]vano di là su tredici villate, che tutte dovevano concorrere all’incremento del capoluogo. Tra esse la Marina, come più prossima, aveva le molestie più gravi. I marchesi mettevano grosse multe a chi ardisse riparar case e murarne di nuove colà; ai forestieri intanto concedeano privilegi, esenzioni ed ogni maniera larghezze, purchè mettessero dimora nel Borgo. Donde appariva manifesto il timore di que’ castellani, che la gente non avesse a dilungarsi di troppo dalla loro vigilanza, e l’intento di cansare la sorte toccata ai loro consanguinei della marca di Savona, che questa nobil città e la fortissima terra di Noli avevano sullo scorcio del XII secolo malamente perdute. Già, popolo marinaro, popolo libero; la tirannia non attecchisce sulle spiagge; però non si sta molto ad ottenere consoli proprii e franchigie, in cui maturare ordini di libertà popolana. Ora, questo pericolo miravano a stornare i discendenti d’Antonio, tirando al Borgo il grosso dei vassalli e afforzando sempre più il castello sovrastante.

Dicevasi castel Gavone, con vocabolo di controversa etimologia. Altri lo deriva da giogo, come se anticamente si fosse detto Giovone, o Govone. Io ricordo che dicevasi gavone un ridotto delle nostre vecchie galee, posto sotto coperta, così da prora, come da poppa, e serviva per alloggio degli uffiziali e dei marinai, laddove le ciurme dormivano sotto i banchi di voga. E questo gavone marinaresco e il terrestre possono perciò derivarsi, con assai più verosimiglianza, dal cavum dei latini, nel significato di cavità custodita, murata, od altrimenti rinchiusa.

Altri, per avventura, nell’informe e disforme voca[p. 95 modifica]bolario dell’età di mezzo, troverà di che avvalorare questa etimologia, che ha già il vantaggio, sull’altra, d’esser più ragionevole. Io frattanto, ritornando alla storia, dirò che il castello Gavone era davanti e da tergo reso inaccessibile, mercè due fosse profondamente stagliate nel masso; che era afforzato da quattro torri sugli angoli; che ci si entrava da un ponte levatoio e che sulla porta castellana, in una tavola di pietra scuriccia, vedevasi scolpita l’arma dei signori Del Carretto, cioè a, dire uno scudo, partito a fascie diagonali, sormontato da un elmo di corona e tratto su d’una carretta simbolica da due leoni aggiogati.

Quella nobil veduta si parò davanti ai due cavalieri genovesi, a mala pena ebbero afferrata la cima del monte. Doveva esser quello il fine dell’impresa futura; che peccato, in cambio di giungervi eglino soli e in veste di messaggeri, non esservi già collo stendardo della Repubblica e con buona mano d’armati!

Messer Pietro Fregoso, come uomo che delle grandezze umane s’intendeva la sua parte, guardava ammirato quel forte e insieme leggiadro edifizio. Il Picchiasodo non ci vedeva tante bellezze e dava in quella vece la sua guardata alle balze circostanti, per vedere se ci fossero strade, e come disposte. Le strade, si sa, erano il suo grattacapo, e di queste delizie n’avrebbe volute in ogni luogo e per ogni verso, come pur troppo occorre solamente delle molestie, in questo mondo gramo.

Varcato il ponte levatoio, entrarono sotto l’androne, e, mentre il capitano degli arcieri andava a dar no[p. 96 modifica]tizia del loro arrivo al marchese, erano fatti scender di sella per riposarsi in una sala terrena, dove si diè loro acqua alle mani e rinfresco. Accettarono l’acqua e l’aiuto dei famigli, per scuoter di dosso la polvere, ricusando tutto l’altro che venia loro profferte; e immagini il lettore con quanto sacrifizio e merito di Anselmo Campora, che non avrebbe sgradito di paragonare la cantina del marchese con quella di mastro Bernardo.

Poco stante, apparve sull’uscio un donzello a disse loro:

— Venite, messeri; il magnifico marchese è pronto a ricevervi. —

Lo seguirono tosto, e, fatta una breve scala, furono introdotti in un ampio salone, che appariva situato nel mezzo del castello, poichè prendeva luce da una parte e dall’altra, pel vano di larghe ed alte finestre, partite a colonnini e chiuse da intelaiature di legno e vetri sigillati col piombo, a mo’ di losanghe, come portava la foggia del tempo. Una numerosa e orrevol brigata era accolta colà; molti servitori e donzelli sui lati; nel mezzo un crocchio di gentiluomini; seduto a uno scrittoio il vecchio cancelliere della corte; tutti, poi, ordinati in guisa da far corona ad un seggio rilevato, su cui stava, nobilmente composto, il marchese del Finaro. Gentildonne non erano in quella adunanza; che bene il marchese aveva inteso non doversi quel giorno ricevere ospiti d’allegrezza, sibbene messaggieri di guerra.

Era in quel tempo il marchese Galeotto un uomo di piacevole aspetto, d’anni intorno ai cinquanta, ma di sembianza più giovane, la mercè d’una carnagione [p. 97 modifica]rosata, degli occhi azzurri e scintillanti, della barba e dei capegli biondi, che ancora dissimulavano abbastanza le moleste fila d’argento. La figura sua, al primo vederla, lo diceva bollente di spiriti e pronto ad infiammarsi, ma in pari tempo di senni umani e cortesi, quanto il concetto della sua dignità e la logica feudale d’allora potessero comportarne in un principe.

Egli accolse con un sorriso ed un gesto amorevole messer Pietro, che s’inoltrò a capo scoperto e s’inchinò davanti a lui, con atto di ossequio, non disgiunto da un sentimento di onesta alterezza. Il Picchiasodo, per far conoscere la sua condizione più umile rispetto al suo nobil compagno, si era fermato sui due piedi, ma colla berretta in capo, da soldato e non da servitore, a poca distanza dall’uscio.

— Siate il benvenuto, messere; — disse il marchese Galeotto al nuovo venuto, per offrirgli occasione a parlare; — e che cosa recate al Finaro?

— Un messaggio dell’illustrissimo signor Doge e del comune di Genova; — rispose Pietro Fregoso, togliendosi di cintura un rotolo di pergamena, suggellato di piombo, colle armi della Repubblica.

— Ai quali auguriamo ogni prosperità, e grandezza che colla giustizia si accordino; — ripigliò nobilmente il marchese.

Ciò detto, prese dalle mani di messer Pietro la pergamena, ruppe il suggello e lesse. Cotesto faremo anche noi, dando una sbirciata allo scritto.

«Al magnifico signor Galeotto, marchese del Finaro, salute.

«Sebbene a noi per lo passato fosse stata grandemente a cuore l’amicizia vostra, perchè tra noi du[p. 98 modifica]rasse la quiete, voi sempre dell’amicizia e benevolenza nostre avete fatto stima mediocre. Per la qual cosa, gli animi della città e della repubblica tutta si sono straordinariamente accesi, volendo guerra contro di voi; e guerra sarà, poichè non sembra esservi cara la pace. A questo per vero dire ci disponiamo contro voglia e sforzati; che anzi, mai abbiamo cessato di far pratiche, se per avventura avessimo potuto acquietare lo sdegno di questo popolo, irritato dalla Signoria Vostra con somme offese negli anni trascorsi; e ciò con ogni poter nostro abbiam procurato, nè mai potuto ottenere.

«Ed ora, poichè ricordiamo avervi promesso che, quando fossimo per rompervi guerra, vi avremmo avvisato della cosa, perchè non vi paresse di esser còlto alla sprovveduta, vogliamo significarvi che dobbiate aspettar guerra al Finaro a dì 5 del prossimo dicembre. Però, scorso il giorno 4 di detto mese, sappiate non esservi più dato di vivere con noi in quelle forme di pace e d’amicizia, che sono state finora. Così portiamo speranza di larga vittoria su voi, come d’insegnare a tutti i pari vostri che non abbiano a misurarsi in imprese siffatte con noi. Inoltre quando vi piacesse far correre minor spazio di tempo alla guerra, di quello vi abbiamo indicato, vogliate darcene avviso, e sarà fatto secondo il piacer vostro.

«Data da Genova, addì 21 novembre 1447.

«Giano Fregoso

Messer Pietro, in quella che il marchese Galeotto leggeva la lettera, stava immobile al suo posto e in [p. 99 modifica]apparenza sbadato; ma non perdeva un moto, anco il più lieve, dell’aspetto di lui, e gli appariva manifesto come quella lettura lo avesse colpito. La faccia del marchese era divenuta ad un tratto del color della fiamma; le dita attrappite tiravano per tutti i versi la povera pergamena, che non ne avea colpa veruna; le labbra borbottavano confuse parole; come se dentro dell’animo il marchese Galeotto stesse ad una ad una ribattendo le argomentazioni del suo avversario.

Invero, a lui pareva di aver ragioni oltre il bisogno. La lettera di Giano Fregoso era accortamente rigirata. Niente più curavano i capiparte d’allora, fossero dogi, o pretendenti al dogato, che di mescolare il popolo nelle loro private querele, ire e vendette di famiglia. E a Galeotto cuoceva di veder tirare i genovesi in campo, quasi fossero eglino, e non già i Fregosi, che voleano la guerra. Nè a lui pareva di avere offeso mai Genova, destreggiandosi in mezzo alle fazioni che l’avean lacerata; che quella era per lui la ragione di Stato, e Genova a lui mettea conto vederla, non già nel governo dei Fregosi, ma nella persona degli Adorni fuorusciti, e appunto di quel Barnaba, doge scacciato, che stavasi allora al suo fianco.

E a Barnaba era corso il suo sguardo, in uno degl’intervalli da lui posti in quella ingrata lettura. Ma Barnaba nel messaggero di guerra avea ravvisato messer Pietro Fregoso, e non torceva gli occhi da lui.

— Bene sta; — disse Galeotto, poi ch’ebbe finito di leggere. — Messeri, è un cartello di sfida, questo che Giano Fregoso ci manda. — [p. 100 modifica]

Un fremito corse per tutta l’adunanza; che sebbene da lunga mano preveduto, non riusciva meno grave l’annunzio. C’era anzi taluno dei soliti ragionatori alla grossa, che dalle antecedenti lentezze e continue ambascerie genovesi aveva argomentato la poca voglia di venire a mezza spada e tratto speranza pel Finaro d’una via di salvezza. Non così Barnaba Adorno, che ben conosceva l’animo dei Fregosi e la tenacità con cui avrebbero proseguito i loro disegni. Costoro inoltre, non che a colpir Galeotto miravano a molestare in quel suo rifugio la sbandeggiata famiglia Adorno, e lui più di tutti, lui Barnaba, che pochi mesi addietro Giano Fregoso, improvvisamente sbarcato a Genova e con un pugno di suoi partigiani impadronitosi del palazzo ducale, aveva scacciato dal governo e dai confini della repubblica.

Queste cose pensando, Barnaba Adorno aveva sempre creduto alla guerra, e pur dianzi non gli era stato mestieri delle parole di Galeotto per averne certezza, bastandogli il noto aspetto del messaggiero di Genova. Però, quando il marchese ebbe accennato il cartello di sfida a lui mandato dal Doge, egli, con ironico piglio, soggiunse:

— E Giano Fregoso non lo manda per mano d’un semplice cavaliere, bensì a dirittura per quella di Pietro Fregoso, suo comandante d’esercito. —

Messer Pietro si volse stizzito e saettò d’una torva occhiata il nemico.

— Non ancora; — diss’egli di rimando; — e voi, messer Barnaba Adorno, usurpate, a mio credere, i diritti del marchese Galeotto. Io non sarò capitano dell’esercito genovese all’impresa del Finaro, se non quando egli avrà accettata la sfida. [p. 101 modifica]

— È vero; — notò con accento benigno, sebbene impresso d’una certa amarezza, il marchese Galeotto. — Io non l’ho anche accettata. Ma come potrei onestamente cansarmene? L’intimazione è chiara e recisa. Leggete, o signori! —

Così dicendo, porse la lettera a Barnaba, intorno a cui si fece ressa di gentiluomini, per leggere l’orgoglioso messaggio di Giano.

— Il mentitore! — sclamò l’Adorno. — Egli ha cercato di acquetare gli sdegni del popolo!

— Rompe guerra sforzato; gli vincon la mano, al poveretto! — notò un altro del crocchio.

— Non è Genova che vuol questa guerra, — soggiunse Barnaba Adorno, infiammato di sdegno, — io lo attesto.

Pietro Fregoso stava per dargli risposta; ma Galeotto lo trattenne col gesto.

— Sia Genova, o no, — diss’egli, per chetare gli spiriti, — imperano i Fregosi colà; ad essi ci bisogna rispondere. E perchè l’esercito, che si sta radunando a Savona, — aggiunse poscia, accompagnando la frase con un cenno del capo, che voleva mostrare com’egli fosse di ogni cosa informato, — perchè l’esercito non abbia ad aspettare di soverchio il suo capitano, eccovi messer Pietro Fregoso, una pronta risposta. Cancelliere, scrivete. —

E con voce alta e sicura, in mezzo ad un silenzio solenne, il marchese Galeotto dettò la sua risposta allo scriba; rimessa in principio e tranquilla, come portava il costume, indi man mano, per lo infiammarsi a grado a grado del personaggio, più concitata ed altiera. [p. 102 modifica]

«Al magnifico signore Giano Fregoso, doge di Genova, salute.

«Tutto quanto mi significate nella vostra lettera, magnifico messere, io ho chiaramente inteso. Mi dolse della opinione dei Genovesi, aver io fatta poca stima della loro amicizia, che io sempre n’ho avuto grandissima, nè mai ho trascurato veruna di quelle cose per le quali ho udito e letto potersi conservare i vincoli della benevolenza tra gli Stati; nè penso essere alcuno dei vostri vicini che siasi più attentamente studiato di piacere a cotesta repubblica, perchè durasse tra noi la consuetudine dell’antica amicizia. E ciò talvolta con mio nocumento non lieve; laonde io debbo stupirmi di questa ira, che voi mi dite, dei cittadini di Genova. Vi ringrazio tuttavia che abbiate cercato di contenere e dissipare gli sdegni popolari, per istornarli dalla guerra, provvedendo in tal guisa non meno alla quiete dei Genovesi, che alla salute mia.

«Per rispondere alla lettera vostra, dirò che avrei amato meglio mi significasse pace perpetua, anzi che guerra. Si affà la pace alle mie consuetudini; alieno son io dalle guerre. Ma se infine è così statuito nei consigli degli invidiosi e nemici miei, accetto la sfida, e di grand’animo, confidando nel senno e nella potestà di quel giudice e padrone, che è splendore e difesa dei giusti e terror dei malvagi, a cui niente è nascosto. Egli invero conosce l’animo mio e gl’intendimenti vostri, e sa quanto io con virtù, quanto voi con odio vi facciate a contendere. Imperocchè io non sono, messer lo Doge, così fuori di senno, da non sapere come da [p. 103 modifica]lunga pezza, e innanzi voi perveniste a tal dignità, fosse stabilito d’intimar questa guerra. Conosco l’animo vostro e di tutti i vostri contro me e contro tutti i miei; ricordo con quanta moderazione e temperanza mi diportassi coi Genovesi, pur di vivere in pace continua con esso loro, e so come tutte queste cose, a mala pena entraste voi in Genova, niente abbiano giovato a mutare i vostri propositi. Che se vi pensavate esser io obbligato di alcun patto a cotesta illustra repubblica, il quale io oggi negassi di mantenere, mancavano ancora le cagioni di guerra; imperocchè io mi contentai, come mi contenterei anche oggi, che, o l’imperator de’ Romani, od altro principe, o comune, o studio di giureconsulti, giudicasse della nostra querela. E nol voleste allora, e nemmeno ora il vorrete, poichè siete infiammati, inaspriti, bramosi di guerra; laonde, resta che con mani e piedi, con tutte le forze mie, di congiunti, di amici e di quanti avrò meco, difenda questa terra e il mio dritto. Facciano adunque i Genovesi come vogliono; resisterò come potrò.

«Voi frattanto, Doge Giano Fregoso, io debbo pregiare assai più che non facessi da prima, se avete pensato di me che io fossi uomo da serbar la mia fede, e m’avete indicato il giorno in cui dovessi aspettarmi la guerra; così facendo cosa dicevole ad ogni principe, e in particolar modo a voi stesso. Spero di uscirne vincitore e di potervi rimeritare, in ogni occasione, della vostra lealtà, se mai avrete mestieri dell’opera mia.

«Data dal Finaro, addì 27 di novembre, 1447.

«Galeotto del Carretto

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La lettera del marchese Galeotto era nobilissima, come ognun vede, sebbene per avventura in alcuni passi ricisa ed aspra più del bisogno, e condita nel fondo di sottile ironia. Ma queste cose erano da condonarsi ad un principe, che metteva in quel punto a grave cimento la quiete sua e la sicurezza de’ suoi dominii. Del resto, e il pepe e il sale di quella risposta piacquero in uguale misura a tutti i gentiluomini della sua corte, e un bisbiglio d’approvazione e certi sorrisi mal rattenuti commentarono prontamente le lodi alla lealtà di Giano, che tutti ricordavano in qual modo fosse tornato a Genova e salito ai sommi onori della repubblica.

Galeotto, così per debito dell’alto suo grado, come per atto di cortesia verso l’inviato di Genova, era rimasto in contegno. Più saldo e più chiuso di lui Messer Pietro, a cui l’uffizio di ambasciatore comandava in quella occasione il silenzio e la calma. Per altro, la torva guardatura e l’atteggiamento della persona fieramente appoggiata al pomo della spada, significavano le represse pugne dell’animo e promettevano alla corte del Finaro che ben presto la libertà del capitano si sarebbe ricattata dei silenzi sforzati del messaggero di Genova.

Finita la lettera e sigillata colle armi del marchesato, Galeotto la prese dalle mani del cancelliere e la consegnò a messer Pietro.

— Eccovi la mia risposta all’illustrissimo Doge e al nobil comune di Genova; — diss’egli frattanto. — Aspetterò la guerra in quel giorno che mi è stato indicato; non posso desiderarla prima, perchè non la ho provocata e aspetto ancora che vogliano i miei [p. 105 modifica]nemici tornare a più miti consigli. Comunque sia, messer Pietro Fregoso, io vi prego di render grazie in mio nome al Doge vostro cugino, che tanto ha fatto stima di me e di tanto ha cresciuto la solennità della sfida, mandandola per le mani di un così illustre capitano. —

Anche da queste parole, come già dalla lettera, traspariva un fil d’ironia; ma messer Pietro non poteva adontarsene, e perchè l’ironia era finamente condotta, e perchè, poi, quell’ufficio di messaggero, non al tutto conveniente al suo grado, lo aveva voluto egli stesso.

Si accomiatò con garbo, diede un’ultima occhiata, in guisa di arrivederci, a Barnaba e agli altri fuorusciti genovesi, indi si mosse per uscir dalla sala. Galeotto lo accompagnò fino all’androne del castello.

— Cavaliere, — gli disse, porgendogli cortesemente la mano, — la guerra ha tristi vicende per tutti. Ricordatevi che Galeotto Del Carretto, se è pronto e risoluto a respingere, è poi altrettanto umano in accogliere. Il Finaro è luogo d’asilo ai disgraziati; perciò avete qui veduti gli Adorni. Il giorno che sarà guerra tra noi, non avrete altri avversarii che i Carretti; gli Adorni avranno, non pure licenza, ma preghiera di ritirarsi da un rifugio, che non sarebbe quind’innanzi più sicuro per essi.

— Nobilmente parlate, messere; — disse a lui di rimando il Fregoso; — capitano dell’esercito genovese, io ricorderò queste vostra parole. Ed ora, signor marchese, alla sorte delle armi! —

Le cortesie del commiato rasserenarono il volto di messer Pietro Fregoso. Del resto, quella bisogna era fornita, ed egli facea ritorno, come suol dirsi, nella sua beva. [p. 106 modifica]

— Animo, via! — disse ad Anselmo Campora, a mala pena furono usciti di là. — I grattacapi sono finiti e adesso verrà il buono. Mi fermo stassera a Vado, e tu proseguirai fino a Genova, per consegnare la lettera.

Il Picchiasodo fece a queste parole una faccia scontenta, che nulla più.

— Messer Pietro riveritissimo, — soggiunse egli poscia, veduto, che l’altro non aveva badato a’ suoi versi, — non perderò mica il mio posto alla predica?

— E come potresti tu perderlo, se c’è tempo fino ai cinque del mese venturo? Siamo oggi ai ventisette di novembre, mi pare, ed io non leverò il campo dalla spiaggia di Vado che la mattina del due di dicembre. Tu dunque domani arrivi a Genova; consegni la lettera al Doge mio cugino; gli dai que’ ragguagli di veduta che egli ti chiederà certamente; aspetti le lettere e i comandi che vorrà darti per me, e doman l’altro, il trenta, alla più trista, puoi essere al campo di Vado.

— Eh, diffatti, se non mi fanno aspettare dell’altro, la cosa può esser così come voi dite, padron mio reverito! Dopo tutto, non son io il capo dei vostri bombardieri? Dee premere a loro di rimandarmi libero, come a me di capitar primo all’osteria dell’Altino.

— Ah sì, — disse Pietro Fregoso, ridendo, — questa è la tua meta; ma temo che la bisogna non sia per correre spedita come tu pensi. Castelfranco non si piglia in un giorno.

— Lo capisco ancor io; — rispose il Picchiasodo; — ma questa è una ragione di più per capitarci in tempo colle bombarde. — [p. 107 modifica]

In questi ragionari, oltrepassato il Borgo, s’erano avviati sulla strada della Marina, dove aveva a trattenerli il tristo caso che abbiamo narrato nel capitolo antecedente.

E adesso torniamo al castello, dove la sfida di Genova avea messo tutti in trambusto. Il marchese Galeotto, prevedendo da lunga mano la cosa, aveva, siccome ho già detto, raccolto gran gente nel marchesato; ma egli bisognava spartire i comandi, sincerarsi che niente mancasse nei luoghi più esposti a un primo assalto nemico, asserragliare i passi più facili, e frattanto mandare l’annunzio della guerra dichiarata al capitano della Lega, perchè incontanente spedisse gli aiuti promessi al Finaro.

Per questo uffizio nessuno parve al marchese più adatto di Giacomo Pico. Egli era tornato bensì quella stessa mattina dalla Langhe; ma in lui Galeotto riponeva ogni sua fede; il negozio richiedeva la massima speditezza nel messaggero e pari conoscenza dei luoghi, degli uomini e delle cose; però fu mandato a cercare nelle sue stanze il Bardineto, e, non essendo trovato colà, fu mandato a cercare nel Borgo.

Ora, in quella che lo si aspettava, e il marchese Galeotto s’intratteneva co’ suoi gentiluomini e colle donne della sua casa, ecco giungere la Gilda, una vispa e leggiadra ragazza, e, avvicinatasi a madonna Bannina, susurrarle alcune parole, che parvero turbar grandemente costei e la sua gentile figliuola, che le aveva udite del pari.

— Che c’è? — dimandò il marchese, notando il turbamento improvviso delle sue dame.

— Giacomo Pico moribondo all’Altino; — rispose [p. 108 modifica]madonna Bannina al marito; — questo è l’annunzio che ci ha recato la Gilda.

— Come? che è stato? e da chi lo sai? — ripigliò il marchese, volgendosi alla ragazza con atto di profonda ansietà.

La Gilda, tutta confusa, ripetè allora ad alta voce come il Bardineto avesse combattuto in duello pur dianzi col cavaliere di Genova e fosse gravemente ferito all’osteria dell’Altino, dov’era accaduto lo scontro. La notizia era stata portata a lei da Tommaso Sangonetto, aiutante del notaio David, che stava ancora in anticamera, per aspettare i comandi del marchese. Disse infine tutto quel che sapeva; non già tutto quello che le aveva detto il nostro Tommaso, Egli diffatti, in mezzo alle notizie dell’accaduto, aveva trovato modo di schiccherarle una dichiarazione d’amore, che a lei era parsa sconvenevole al sommo, in quella occasione, e glielo sarebbe parsa, ne abbiam fede, in altre parecchie.

Ora, come si spiega cotesto, senza frugare un pochino negli arcani del cuore? Veramente, i segreti d’una bella ragazza non s’avrebbero a dire; ma noi siamo qui per raccontare, e non andremo fuori di carreggiata dicendo che la Gilda ci aveva il suo e che un uomo le aveva dato nell’occhio. Anche lei, cresciuta nella compagnia e nella benevolenza dei castellani, era diventata ambiziosa, come Giacomo Pico; per altro, siccome nel cuore d’una ragazza inesperta l’ambizione non mette ancora troppo in alto la mira, gli occhi della Gilda non s’erano levati fino ad un cavalier di corona; avevano fatto sosta sulla persona di quell’altro ambizioso, che era Giacomo Pico. Il gio[p. 109 modifica]vinotto non le aveva mai detto nulla di singolare; nè occhiate, nè sospiri, avevano fatte le veci di una accesa parola; ma egli era così buono, così dolce, così grazioso con lei! Già si capisce che il Bardineto fosse tale, o si studiasse di parerlo, con quante persone attorniavano di consueto madonna Nicolosina. Epperò, fidandosi a quelle apparenze, la Gilda aveva pigliato un granchio, come a tante ragazze della sua età facilmente interviene. Egli è tuttavia da soggiungere, a lode delle donne, che esse, pigliato il primo, non ne pigliano più altri; li fanno pigliare.

Ciò posto in chiaro, si capirà come la Gilda fosse dolente per l’annunzio recato dal Sangonetto e come dovessero parerle sconvenevoli le digressioni da lui fatte per utile proprio. E non ne diciamo più altro.

Udita la Gilda, il marchese Galeotto volle vedere il messaggiero, che fu subito introdotto e raccontò, s’intende, l’accaduto a suo modo. Giacomo Pico era andato con esso lui a diporto sulla Caprazoppa. Scesi all’Altino, avevano udito di due cavalieri, che, prima di salire al castello, s’erano intrattenuti a curiosare per via e a pigliar lingua dei luoghi. Cotesto aveva insospettito il Bardineto; ambedue avevano fiutato i genovesi e s’erano messi sulle orme loro. Nel risalire alla volta del Borgo li avevano incontrati, ma già sul ritorno, e lì, una parola ne tira un’altra (il Sangonetto non ricordava più come), erano venuti alle grosse. Pico aveva la spada a sfidò a duello il Fregoso. Egli, Sangonetto, non l’aveva, e non potè essere che testimone al combattimento, che era finito colla peggio del suo povero amico.

— Fu un colpo disgraziato! — diceva il prode [p. 110 modifica]Tommaso. — Ed io non ho potuto ricattarmi sul compagno del Fregoso, perchè non avevo meco che questo coltello da caccia.

— Bravi giovani! — sclamò il dabben gentiluomo. — Ma dimmi, è così grave la ferita, che il nostro Pico non possa muoversi dall’Altino?

— Oh, non dico questo, magnifico messere; su d’una lettiga si potrà sicuramente portarlo via di laggiù.

— Va dunque; piglia quattro soldati alla porta di San Biagio e sia il nostro Giacomo condotto al castello, dove gli sarà usata ogni cura.

— Padre mio, — entrò a dire timidamente quell’anima pietosa di madonna Nicolosina, — se noi gli andassimo incontro?

— Perchè no? — soggiunse il marchese, assentendo del gesto. — È delle dame aver cura ai feriti. Giacomo Pico ha salvato la vita a me; la mia famiglia deve essergli grata. Andate dunque e veda il Finaro che le sue castellane son pronte ad ogni ufficio di carità pei nostri fedeli servitori e soldati. Ma ora che Pico è ferito, chi porterà l’annunzio della sfida di Genova al capitano della Lega, a Millesimo? —

Tommaso Sangonetto, che stava coll’occhio alla penna, vide che quello era momento da farsi avanti e acciuffar l’occasione.

— Magnifico signore, — diss’egli, inchinandosi, — non valgo io nulla per obbedirvi? Son tutto vostro e se v’è cosa che io possa fare, in cambio del mio povero amico, eccomi ai vostri comandi.

— Sì, puoi servirmi benissimo; — rispose il marchese Galeotto. — Si tratta di portare una lettera a messer Francesco del Carretto, signor di Novelli. Lo [p. 111 modifica]troverai a Millesimo, nella torre di Oddonino. Andando a staffetta, potrai essere domani, all’alba, in Millesimo. Va dunque a pigliare il nostro Giacomo e torna; ti metterai in viaggio tra un’ora. —

Ed ecco il nostro Tommaso Sangonetto ambasciatore dell’esoso tiranno. La fortuna capricciosa lo aveva innalzato a quel segno; ma la fortuna egli l’avea anche aiutata con una mezza serqua di bugìe; non le era dunque debitore di nulla. Per contro, egli poteva credersi obbligato di qualche cosa alla disgrazia di un amico, e, pensando al povero ferito che andava a togliere dall’osteria dell’Altino, aveva anche ragione a considerare la profonda verità dell’adagio, che tutto il mal non vien per nuocere. Disgrazia di cane, ventura di lupo, dicevano i vecchi.

— Un bel garbuglio s’è fatto! — andava egli digrumando tra sè. — Giacomo in di grosso ha capito quello che dee lasciar credere della sua sfuriata contro il Fregoso. Mastro Bernardo, che è stato cagione di tutto il guaio, non parlerà. Io ci ho guadagnato di poter dire una parolina alla Gilda e di diventare un pezzo grosso alla corte. Non c’è che dire; sono ambasciatore, o giù di lì; lascio la spada pel caducèo, il panzerone per la guarnacca; cedant arma togae!