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«Al magnifico signore Giano Fregoso, doge di Genova, salute.

«Tutto quanto mi significate nella vostra lettera, magnifico messere, io ho chiaramente inteso. Mi dolse della opinione dei Genovesi, aver io fatta poca stima della loro amicizia, che io sempre n’ho avuto grandissima, nè mai ho trascurato veruna di quelle cose per le quali ho udito e letto potersi conservare i vincoli della benevolenza tra gli Stati; nè penso essere alcuno dei vostri vicini che siasi più attentamente studiato di piacere a cotesta repubblica, perchè durasse tra noi la consuetudine dell’antica amicizia. E ciò talvolta con mio nocumento non lieve; laonde io debbo stupirmi di questa ira, che voi mi dite, dei cittadini di Genova. Vi ringrazio tuttavia che abbiate cercato di contenere e dissipare gli sdegni popolari, per istornarli dalla guerra, provvedendo in tal guisa non meno alla quiete dei Genovesi, che alla salute mia.

«Per rispondere alla lettera vostra, dirò che avrei amato meglio mi significasse pace perpetua, anzi che guerra. Si affà la pace alle mie consuetudini; alieno son io dalle guerre. Ma se infine è così statuito nei consigli degli invidiosi e nemici miei, accetto la sfida, e di grand’animo, confidando nel senno e nella potestà di quel giudice e padrone, che è splendore e difesa dei giusti e terror dei malvagi, a cui niente è nascosto. Egli invero conosce l’animo mio e gl’intendimenti vostri, e sa quanto io con virtù, quanto voi con odio vi facciate a contendere. Imperocchè io non sono, messer lo Doge, così fuori di senno, da non sapere come da