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rosata, degli occhi azzurri e scintillanti, della barba e dei capegli biondi, che ancora dissimulavano abbastanza le moleste fila d’argento. La figura sua, al primo vederla, lo diceva bollente di spiriti e pronto ad infiammarsi, ma in pari tempo di senni umani e cortesi, quanto il concetto della sua dignità e la logica feudale d’allora potessero comportarne in un principe.

Egli accolse con un sorriso ed un gesto amorevole messer Pietro, che s’inoltrò a capo scoperto e s’inchinò davanti a lui, con atto di ossequio, non disgiunto da un sentimento di onesta alterezza. Il Picchiasodo, per far conoscere la sua condizione più umile rispetto al suo nobil compagno, si era fermato sui due piedi, ma colla berretta in capo, da soldato e non da servitore, a poca distanza dall’uscio.

— Siate il benvenuto, messere; — disse il marchese Galeotto al nuovo venuto, per offrirgli occasione a parlare; — e che cosa recate al Finaro?

— Un messaggio dell’illustrissimo signor Doge e del comune di Genova; — rispose Pietro Fregoso, togliendosi di cintura un rotolo di pergamena, suggellato di piombo, colle armi della Repubblica.

— Ai quali auguriamo ogni prosperità, e grandezza che colla giustizia si accordino; — ripigliò nobilmente il marchese.

Ciò detto, prese dalle mani di messer Pietro la pergamena, ruppe il suggello e lesse. Cotesto faremo anche noi, dando una sbirciata allo scritto.

«Al magnifico signor Galeotto, marchese del Finaro, salute.

«Sebbene a noi per lo passato fosse stata grandemente a cuore l’amicizia vostra, perchè tra noi du-