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apparenza sbadato; ma non perdeva un moto, anco il più lieve, dell’aspetto di lui, e gli appariva manifesto come quella lettura lo avesse colpito. La faccia del marchese era divenuta ad un tratto del color della fiamma; le dita attrappite tiravano per tutti i versi la povera pergamena, che non ne avea colpa veruna; le labbra borbottavano confuse parole; come se dentro dell’animo il marchese Galeotto stesse ad una ad una ribattendo le argomentazioni del suo avversario.

Invero, a lui pareva di aver ragioni oltre il bisogno. La lettera di Giano Fregoso era accortamente rigirata. Niente più curavano i capiparte d’allora, fossero dogi, o pretendenti al dogato, che di mescolare il popolo nelle loro private querele, ire e vendette di famiglia. E a Galeotto cuoceva di veder tirare i genovesi in campo, quasi fossero eglino, e non già i Fregosi, che voleano la guerra. Nè a lui pareva di avere offeso mai Genova, destreggiandosi in mezzo alle fazioni che l’avean lacerata; che quella era per lui la ragione di Stato, e Genova a lui mettea conto vederla, non già nel governo dei Fregosi, ma nella persona degli Adorni fuorusciti, e appunto di quel Barnaba, doge scacciato, che stavasi allora al suo fianco.

E a Barnaba era corso il suo sguardo, in uno degl’intervalli da lui posti in quella ingrata lettura. Ma Barnaba nel messaggero di guerra avea ravvisato messer Pietro Fregoso, e non torceva gli occhi da lui.

— Bene sta; — disse Galeotto, poi ch’ebbe finito di leggere. — Messeri, è un cartello di sfida, questo che Giano Fregoso ci manda. —