Canti della guerra latina/Ode alla nazione serba

Ode alla nazione serba

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Tre salmi per i nostri morti Preghiere dell'avvento


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ODE ALLA NAZIONE SERBA

[XVI NOVEMBRE MCMXV]




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ODE ALLA NAZIONE SERBA


I

 
Qual è questo grido iterato
che lacera il grembo dei monti?
Qual è questo anelito grande
che scrolla le selve selvagge,
5affanna la lena dei freddi
fiumi, gonfia l’ansia dei fonti?
O Serbia di Stefano sire,
o regno di Lazaro santo,
cruore dei nove figliuoli
10di Giugo, di Mìliza pianto,
lo sai: hanno ricrocifisso
il Cristo dell’imperatore
Dusciano ad ogni albero ignudo
delle tue selve, ad ogni sasso
15ignudo dell’alpe tua fosca,
gli han franto i piedi e i ginocchi
a colpi di calcio, trafitto
con la baionetta il costato,
rempiuto non d’acida posca
20la sacra bocca ma di bile
rappresa e di sangue accagliato.

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II

 
Il boia d’Asburgo, l’antico
uccisor d’infermi e d’inermi,
il mutilator di fanciulli
25e di femmine, l’impudico
vecchiardo cui pascono i vermi
già entro le nari e già cola
dal ciglio e dal mento la marcia
anima in cispa ed in bava,
30il traballante fuggiasco
che s’ebbe nel dosso il tuo ferro
a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
e l’acqua ingozzò della Drina
fangosa cercando il suo guado
35e forte spingò nella Sava,
mentre l’ardir dell’aiduco
Vèlico rideva nell’aspro
vento come contro al visire
in Negòtino e le tue squille
40squillavano a Cristo e il tuo monte
di Bànovo Berdo tonava
sopra la tua bianca Belgrado;

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III


O Serbia, lo squallido boia
per far di vergogna vendetta
45e per boccheggiare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per comunicare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per anco leccar salso sangue
50prima dell’eterno digiuno,
per compiere senza rimorso
la lunga sua vita terrena,
imperator di pie frodi
e re di fedele catena,
55con alfine un’ultima stretta
di laccio, con una suprema
strangolazione, al soccorso
chiama i manigoldi bracati
contro te, cinquanta contr’uno
60che in gola ti caccino il cappio
corsoio. «O Serbia di Marco,
dove son dunque i tuoi pennati
busdòvani? Non t’ode alcuno?»

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IV

 
Sì, gente di Marco, fa cuore!
65Fa cuore di ferro, fa cuore
d’acciaro alla sorte! Spezzata
in due tu sei; sei tagliata
pel mezzo, partita in due tronchi
cruenti, come l’aiduco
70Vèlico su la sua torre
percossa. Di lui ti sovviene?
Rotto fu pel mezzo del ventre,
e cadde. Il grande torace
dall’anguinaia diviso
75cadde, palpitò nella pozza
fumante. Giacquero le cosce
erculee del cavaliere
a tanaglia; giacquero in terra,
si votarono. E nel fragore
80della gorga grido si ruppe:
«Tieni duro!» Fiele dal fesso
fegato grondò. «Tieni duro,
Serbo!» Dalle viscere calde
tal rugghio scoppiò: «Tieni duro!»

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V


85Tal rugghio la Vila raccolse.
Tutte le tue Vile di monte,
tutte le tue Vile di ripa
raccolsero il ferreo comando;
e tu ’l riudisti pur ieri.
90L’ode la terra tegnente:
non verdeggerà per tre anni.
L’ode su la nuvola il cielo:
non stillerà per tre anni
rugiada. Che monta, o guerrieri?
95Il capo del Santo di Serbia,
il teschio di Lazaro splende
non nella Sìniza sola
ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia
il grande pezzato cavallo
100di Marco, e si sveglia l’eroe
squassando i capelli suoi neri.
Re Stefano vien di Prisrenda;
sorge dalla Màriza cupa
Vucàssino; s’alzano a stormo
105da Còssovo i nove sparvieri

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VI

 
E grida la candida Vila
dal crine del Rùdnico monte,
sopra la Iacèniza lene;
grida e chiama in Tòpola Giorgio
110che ristà poggiato all’aratro.
«Or dove sei, Pètrovic Giorgio?
Qual fumido vino ti tiene?
Qual t’occupa sogno? Non m’odi?
Dove sei, buio bifolco?
115Dove sono i tuoi voivodi?
Dov’è il voivoda Milosio?
Giàcopo e il calogero Luca?
e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco
della Morava? A simposio
120seggono? Ucciso hanno il giovenco
e trinciano, e cantano lodi?
Beono alla gloria di Cristo
che li aiuti? beono in giro?
E sul buccellato di farro
125scritto è tuttavia: Cristo vince.
Ma non v’è quartiere pei prodi.

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VII


Bulica il sangue dei prodi
al cavallo insino alla staffa,
insino alla staffa e allo sprone.
130Diguazza il fante nel sangue
insino all’inguine e all’anca;
v’affoga, se v’entra carpone.
Le donne rivoltano i morti
pel bulicame, né sanno
135figlio ravvisare o germano.
Son tutti un rossore, una piaga
tutti, come al campo del conte
i maschi di Giugo Bogdano.
Più corpi enfii che scerpate
140radiche porta il Danubio
né sa a qual riva deporre;
rigurgita il Vàrdari ai groppi;
la Sava è una vena svenata
che gorgoglia giù per le forre;
145è schiuma del Tìmaco a sera
canizie che galla; e la Drina
veloce è un carnaio che corre.

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VIII


Su, Giorgio di Pietro, bovaro
di Tòpola, su, guardiano
150di porci, riscuotiti e chiama!
Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;
Ianco il savio e Vasso il furente.
Prenditi con teco gli aiduchi
che danzano sopra le vette
155degli aceri. Vèlico, or ecco,
all’anguinaia il torace
rappicca come prima era,
e dentrovi il fegato ardente.
Su, su, porcaro di Dio!
160Il turbo di Mìsara, or ecco,
pei gioghi della Sumàdia
raggira l’antica vittoria,
sparpaglia la nova semente.
Altre mandrie tu caccerai
165dinanzi a te, altri branchi
più irti, altro bestiame
più tetro, altro sagginato
coiame, altra sordida gente.

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IX


Sovvienti? Diceano i padri
170un tempo, sedendo a convito:
«Ve’ porco di Bulgaro nero
che tutt’oggi dietro ci tenne
pel tozzo e ’l bicchiere di vino
e per un lacchezzo d’agnello!»
175Non per tozzo il Bulgaro nero
e né per gocciol di vino
e né per minuzzo di carne,
ma per tutto prendere alfine,
per tutto a te prendere alfine,
180per tutto a te togliere alfine,
la terra il nome il soffio il bianco
degli occhi lo stampo dell’uomo,
per questo il Bulgaro nero
dietro ti venne, alle spalle
185ti dà, alle reni t’agghiada.
Tre n’hai, e col Bulgaro nero:
fanno tre viltà una forza.
Ma guarditi il fegato secco
Dio, o macellatore di porci.

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X

 
190Pigliaron Semendria la regia,
pigliarono, ed anche la bianca
città, Belgrado la regia,
in una geenna di fiamme:
dal Lìparo al Vràciaro grande,
195fornace fu ogni collina.
Pigliarono Lùciza, ed anche
Sclèvene pigliarono, e l’una
e l’altra colmaron di mosto,
di lúgubre mosto, due tina.
200Iplana rempieron di vegli
senz’occhi, di femmine senza
mammelle, di monchi fanciulli
carponi a leccar la farina.
E di Sòpota la meschina
205ei fecero lor beccheria
trinciandovi la battezzata
carne (o Battista!), e l’altare
lor tavola fu sanguinente:
strapparono al prete la lingua
210con sópravi l’ostia vivente.

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XI


Ma ben di Verciòrova scorse
il Rùmio dagli occhi di druda,
dal viso di cera dipinto,
gallare nel freddo Danubio
215i Lurchi enfii, rivoltolarsi
a mille pel grigio Danubio
fra Rame Dubràviza i morti,
fra Sip e Tèchia gli uccisi
sotto la montagna di Tèchia
220crosciante qual torcia di ragia,
a grappoli i corpi dei Lurchi.
Non Lipa è villata che mangi:
è mucchio che pute. Non colle
che frutti è Trivùnovo: è mucchio
225che vèrmina. Vrànovo è mensa
di corbi e Vuiàn d’avvoltoi.
O razza di Cràlievic Marco,
l’usura tu fai con la strage!
Sotto Orsova, dove il mal fiume
230s’insacca, ora Bulgari e Lurchi
si giungono, stèrcora e fecce.

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XII


Sì, presero i valichi e i passi,
li presero; e noi i nostri guati
tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,
235presero, e Strùmiza e Vrània,
e Cràlievo presero, e Lacle,
villate e città, mura e ripe;
ma dove più ossa che selci,
più teschi che ciottoli dove
240lasciarono? Presero e Nissa
l’antica, vestita a gramaglia,
oité, santa Serbia, di neri
drappi vestita le case
dolenti ove suda il contagio
245e l’odore vieta la porta.
Presero e Scòplia l’antica
(oité, santa Serbia, fa pianto),
la casa che in prima all’Iddio
tuo edificasti con pietre,
250e quivi la rocca, la guardia
dell’imperatore Dusciano.
O Serbia, in ginocchio fa pianto.

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XIII


Poi rìzzati e balza e riprendi
la chiesa e la rocca, l’altare
255e il mastio, l’impero e la sorte.
Il verde Vàrdari tingi
come la Nìssava a Vlasca,
colora il Vàrdari come
lo stagno di Vlàsina fatto
260già bulgaro brago di morte.
Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
che scannò il suo padre con sacra
mano perché servo non fosse,
il Tìmaco tingi in eterno,
265in eternità dell’infamia,
dalla sorgente alla foce
e insino alla melma profonda,
per le tue donne calcate
dallo stupro contro la sponda,
270pei pargoli tuoi palleggiati
e scagliati come da fionda,
per chi teda fu, per chi arso
fu fiaccola furibonda.

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XIV


Tronco s’ebbe Lazaro il capo
275nel piano di Còssovo, e perso
fu il regno, fu spenta la gloria.
Da Scòplia il Bulgaro nero
al piano di Còssovo sfanga
fiutando l’ontosa vittoria.
280Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio
di Vèlico che si rappicca
e possa rifà. Tieni duro!
Se pane non hai, odio mangia;
se vino non hai, odio bevi;
285se odio sol hai, va sicuro.
Non erbe coglie nel monte
la Vila, non radiche pesta,
per le piaghe a te medicare.
Non a ferita combatti,
290a morte sì, per l’altare
combatti e pel focolare.
Se caschi in ginocchio, ti levi;
se piombi riverso, e ti levi;
se prono, e ti levi a lottare.»

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XV


295Così parla al sangue la Vila
dal crine del monte, la Vila
così stride e chiama a battaglia.
O Serbia, fa cuore! T’è l’odio
osso del dosso, armamento
300t’è l’odio e t’è vittuaglia.
A Còciana ancor si combatte
e si combatte a Piròte;
a Tètovo è lungo macello,
e a Babuna tra le due vette.
305A Ràzana i tuoi cavalieri,
al passo d’Isvòre i tuoi fanti,
a Glava le donne tue scarne
con le coltella e le accette.
Le madri combattono in frotta
310col pargolo al seno e lo schioppo
alla gota, o dritte su i carri
tirati dai bufali torvi
le gravide, o in sella con due
pistole come la grande
315Ljùbiza, ghiottume di corvi.

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XVI


Qual è questo riso che scoppia
come manrovescio potente?
È il riso di Vèlico aiduco
dalla dentatura d’alano.
320Che vede egli? un Bulgaro nero
perdere i suoi trenta dinari?
un Lurco basire, calando
le brache e levando la mano?
il pennacchin tirolese
325del boia longevo che crocchia
e affoga nel flusso senile?
o il tronfio Amuratte alemanno,
soldano d’eunuchi cinghiati,
trar la scimitarra scurrile?
330Che vede di turpe e di vile
lo schernitore, che vede?
Ve’ ve’ bagascion di corona,
ve’ bardassa in Cesare vòlto,
di unguenti asiatici liscio
335che piglia da Cesare Giulio
il letto di re Nicomede!

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XVII


Tastalo con le tue dure
mani, questo sacco di dolo
e di adipe, o Vèlico, questo
340sacco di lardo e di fardo.
Cesare dei Bulgari neri,
come Simeone, è costui,
come Caloiàn di Preslavia,
è questo Coburgo bastardo?
345Tu che metter suoli la lama
tra i denti, aiduco, se vuoi
aver la pistola nel pugno,
tu tagliami questo codardo
con la squarcina del fiso,
350tagliuzzalo come lombata,
condiscilo poi con zibetto,
con cinnamo e con spicanardo.
Lo manderai così concio
alle meretrici di Scòplia.
355E che il tuo scherno s’appigli,
che il tuo riso crepiti e scrosci
ai tuoi come un fuoco gagliardo!

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XVIII


O Serbia, che avesti regina
di grazia Anna Dandolo e desti
360del ceppo regale di Orosia
a un Buondelmonte la sposa,
odi: la Vittoria è latina,
ed ella è promessa al domani.
è una pura vergine bianca
365(non è la tua Vila a lei pari)
più lieve della tua Vila
selvaggia che col piè nudo,
in vista dell’oste schierata,
danzò su le lance dei bani.
370Diceano intanto gli araldi
in Prìlipa a Marco: «O signore,
contendono i re, dell’impero.
A chi sia l’impero e’ non sanno.
Ti chiaman di Còssovo al piano
375che tu dica a chi sia l’impero.»
Un grida: «Al Latino è l’impero.
Per forza a lui viene l’impero.
Roma a lui commise l’impero.»

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XIX


Lode all’uno, grazie al verace!
380In Còssovo teco i Latini
combatteranno domani
sotto il gonfalone crociato,
mentre il Lurco «A me è l’impero»
grugna «ché la forza s’alterna.»
385Sarà coi Latini domani
la grande lor vergine bianca.
Già misto il lor sangue col tuo
ebbero a Valàndovo, sacre
primizie. Ora Vèlese è rossa
390di quelle, e vermiglia è la Cerna.
Tra le corna sta di Babuna
la pertinacia non rotta
e in Prilipa avvampa la fede.
O Rumio dagli occhi di druda,
395a che musi verso la steppa,
bilenco tra rischio e mercede?
E tu, vil Grecastro inlurchito
che palpi le sucide dramme,
non odi il cannone di Dede?

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XX


 
400O falso Dace, che vanti
la gloria del nome latino
e non pur sei degno del nome
barbarico ch’era tremendo
né mondo pur sei della lebbra
405d’Asia che tuttora ti squamma,
or quando entrerai nella lite?
Quando la Colonna traiana,
di pietra fattasi fiamma,
t’andrà camminando dinanzi
410come la Colonna divina
in Etam dinanzi ai figliuoli
d’Israele verso il deserto
lenito e per l’acque spartite?
Ma tu, o Greculo, merca.
415Da tempo son morti i tuoi clefti.
Si leva di giù Bucovalla
e sputa su te dal carnaio.
Venditi. Non già ti compriamo,
non per una sucida dramma.
420Ma ti pagheremo d’acciaio.

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XXI


È tempo, è tempo. La notte
precipita. Sta sopra tutti
la legge di ferro e di fuoco;
e questo è il supremo cimento.
425Prudenza è vergogna, disfatta
il dubbio, delitto il riposo,
viltà ogni vana parola,
e l’indugio è già perdimento.
Popolo d’Italia, sii schiera
430appuntata a guisa di conio,
schiera di tre canti romana,
che cozza scinde e s’incugna.
Popolo d’Italia, sii chiusa
falange, con fronte ristretta,
435fasciata d’ardore, scagliata
come un sol vivo alla pugna.
Popolo d’Italia, sii come
la forza dell’aquila regia
che batte con l’ala, col rostro
440dilania, ghermisce con l’ugna.
 
E v’è uno Iddio: l’Iddio nostro.

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NOTE


ODE ALLA NAZIONE SERBA


Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell’anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell’anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo».


Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l’ultimo re grande di Serbia. Ebba Miliza per donna, d’insigne sangue, d’animo insigne. Nell’anno 1389 sul piano di Cossovo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei poveretti».

Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Miliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l’oste loro» si narra nel carme eroico.


Vèlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa [p. 76 modifica]della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d’uomini sostenne maravigliosamente l’assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d’un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de’ suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l’aiduco Vèlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l’aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate.

Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati.


Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vicenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372).

Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent’anni, trecent’anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s’ode il suo grande cavallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda... [p. 77 modifica]

Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiudicare l’impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: è mio. Uliesa despoto: no, gli è mio. Il voivoda Goico: no, ch’è mio.» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: ad Urosio l’impero.»

Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono.

Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dalla fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de’ suoi».

Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321) furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de’ Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia di Orosia.