Belisario/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Giustiniano in trono, Filippo, Narsete, guardie, popolo.
Riede carco di palme, e noi godiamo
Di sue vittorie i frutti. Il Perso audace
Già sconfitto ed oppresso, or più non spera
Di rialzare l’orgoglioso capo.
Colui che tanto ha resi al braccio suo
Famigliari i trionfi, oggi ci reca
Tra catene un nemico il più feroce,
Il più ostinato che nell’Asia osasse
Volgere contro noi l’armi superbe.
In me, fidi, scorgete il signor vostro,
Ma in Belisario ravvisar dovete
Che s’io detto le leggi, ei le difende;
E se impugno lo scettro, ei lo sostiene.
E tempo ormai ch’egli da noi riceva
Un grato testimon del nostro affetto.
L’ eccelso onor cui Cesare il destina,
Giuri approvar ciascun di voi, che degno
È ben di vostra fè chi per la fede
Vostra s’espose, e tanto sangue ha sparso.
Narsete. Signor, tuo giusto cenno a me ha legge.
Che se assicura il giuramento mio
Di Belisario la grandezza, io provo
Gioja maggior nell’impegnar mia fede.
Giuro osservar il tuo decreto; ai numi
Tutti del cielo e a te, signor, lo giuro.
Filippo. (Filippo, che farai? Col giuramento
D’impegnarti a far grande un tuo rivale?) (da sè
Giustiniano. Di Narsete ciascun segua l’esempio.
Filippo, a te; giura; che fai? Dubbioso
Rimani ancor? Il tuo tacer comprendo.
O giura, o ch’io saprò...
Filippo. Giuro la legge
Osservar del tuo cenno (e del mio sdegno), (da sè
Giustiniano. Or Bisanzio vedrà quanto fia giusto
Giustinian ne’ suoi doni, e quanto Cesare
Apprezzi chi sa far opre gloriose.
Venga l’eroe, venga di Grecia il Marte.
SCENA II.
Di tua virtù, del tuo valor sublime,
Ch’esausta rende a paragon del merto
So ch’è premio all’eroe l’opra gloriosa,
E so che Belisario altro non cura
Che il bell’onor della vittoria, e suole
Per sua gloria pugnar, non per mercede.
Pur nella mente altrui Cesare ingrato
Troppo saria, se l’opere tue degne
Non cercasse premiar. Deh! vieni, o duce,
Vieni, e vedrai dove inalzarti anela
Cesare, e questo suo popol fedele.
Belisario. Troppo, signor, dicesti, e troppo omai
Belisario arrossir fai co’ tuoi detti.
Vincemmo, è ver; ma la vittoria è frutto
Dell’armi tue, non del mio braccio. A queste
Temute insegne, al nome tuo glorioso
Ogni più fier orgoglio in van resiste.
Vincer senza veder solito vanto
E de’ Cesari invitti; ovunque andaro
Le genti tue, sempre in tuo nome han vinto.
Narsete. (Oh magnanimo eroe!) (da sè
Filippo. (A qual maggiore
Gloria costui destina il greco fato?) (da sè
Giustiniano. Vieni, fedele amico, e in queste braccia (s’alza
Del sincero amor mio ricevi un pegno.
Oggi gli omaggi suoi vuo’ che Bisanzio
Tra Belisario e Giustinian divida.
Son due corpi ed un’alma; ed un sol cuore
Con reciproco amor vive in due petti.
Ma ciò non basta: oggi Bisanzio adori
Due regnanti in un soglio. Belisario,
Quel trono omai che sostenesti, ascendi,
E lo scettro difeso or meco impugna.
Narsete. È giusto premio al suo valor dovuto.
Filippo. (A tant’onor sale il nemico e taccio?) (da sè
Belisario. Cesare, per pietà, s’è ver che m’ami,
Del tuo affetto l’onor; d’altro non curo.
Giustiniano. Se obbligarmi volevi a non premiarti,
Con minore virtù parlar dovevi:
Che quanto umile più, più ne sei degno.
Or se le preci mie valer non ponno,
Vagliati un mio comando. Il trono ascendi.
Belisario. Ad un priego sì dolce, ad un comando
Sì risoluto io piego umil la fronte.
(ascende il Irono alla sinistra di Giustiniano
Giustiniano. Oh! egualmente glorioso e quando il merto,
E quando il premio ad acquistar ti accingi!
Narsete. (Oh giusto Imperator!) (da sè
Filippo. (Cesare ingiusto!) (da sè
Giustiniano. Miei fedeli vassalli, ecco colui
Che tanti soggiogò regnanti e regni.
Quel che i trionfi suoi conta dal pari
Colle battaglie; del mio trono augusto
Difensor valoroso e forte scudo.
Colui... Ma che più dico? A voi già noti
Sono i suoi pregi, e già la vostra fede
Impegnaste per lui col giuramento.
Or s’adempia, fedeli. Io lo dichiaro
Cesare e meco per compagno il prendo.
Non fia che al mio voler oggi s’opponga
Chi ’ngrato esser non vuol, empio e spergiuro.
Filippo. (Ed io giurai? Che feci?) (da sè
Narsete. È a Belisario
L’onor dovuto. Il popolo l’approva,
E del gaudio comun io t’assicuro.
Giustiniano. E Filippo non parla?
Filippo. È troppo ingiusto,
Cesare, il tuo voler. Io, che in le vene
Scorrer mi sento regio sangue, io devo
Uno che sol fortuna ha per suo pregio,
Io non lo soffrirò.
Giustiniano. Giovine altero,
Il mio cenno obbedisci, e il giuramento
Adempi.
Filippo. I numi han la mia fede assolta
Da un giuramento ingiurioso al giusto.
Giustiniano. Io non t’assolvo già. Frena l’orgoglio,
O punirti saprò. (scende dal trono
Belisario. Cessin omai, (scende anch’egli
Signor, gli sdegni tuoi. Regni Filippo.
Ei n’è di me più degno.
Giustiniano. A me il giudizio
Spetta de’ merti altrui. Vuo’ che il superbo
O il suo destin nel mio volere adori,
O a catena servil prepari il piede.
Filippo. Se ingiusto sei, esser tiranno ancora
Facilmente potrai. Le tue minaccie
Non mi sanno atterrir. Fa ciò che vuoi.
Fra catene anderò, ma ancor fra’ lacci
Farò tremar di Belisario il fasto.
Narsete. (A qual ira lo sprona invidia ria!) (da sè
Filippo. Al presente destin forza è ch’io ceda. (vien disarmato
Saprò chieder al popolo, ai soldati,
D’un’ingiustizia tal giusta vendetta.
Regni pur Belisario; io mi riserbo
L’alta ragion di vendicare il soglio. (parte fra guardie
SCENA III.
Giustiniano, Belisario, Narsete, guardie e popolo.
Quanto s’offende Giustiniano allora
Che si oltraggia il suo cuore in Belisario.
Ch’or giustizia tu chiami) aver m’affida
Grazia da te, che umil ti chiedo in dono.
Perdona l’ardir mio, se troppo abusa...
Giustiniano. Belisario, non più; chiedi, ed avrai,
Impegno la mia fè, ciò che più brami.
Belisario. La libertade di Filippo io chiedo.
Giustiniano. Ah! pensa che costar cara non t’abbia
Cotesta tua pietà.
Belisario. Soffrir non deggio
Veder per mia cagion penar fra ceppi
Il principe d’Antiochia, di Teodora
Nipote illustre, e di valor ripieno.
Giustiniano. Sì degno intercessor colui non merta.
Si disciolga Filippo. Tu, Narsete,
Gli dà l’annunzio, e di’ che riconosca
La libertà da Belisario, e apprenda
Come san vendicarsi i veri eroi.
Narsete. Ad uffizio sì bello io lieto volo.
Sempre mai generoso il suo bel core
Sa trionfar de’ più superbi ancora.
In eterno vivrà, chè nomi tali
Vivono sempre nell’altrui memoria. (parte
SCENA IV.
Giustiniano, Belisario e guardie.
Dirlo il labbro non sa, l’intende il core.
Giustiniano. Tutto conviensi a chi donai me stesso.
Ora, se non ti è grave, il fier cimento
Narrami, e come a fin trar tu potesti
La gloriosa e memoranda impresa;
Come i Persi fur vinti, e come il loro
Superbo re dal trono suo balzasti.
Non già dal mio valor, ma dall’usato
De’ tuoi prodi guerrier coraggio invitto.
Qual foco ardesse nella Persia, e quale
Fosse d’Asia nemica il fier orgoglio,
Tu ben lo sai. Vedeansi in ogni parte
Per l’aura ventilar nemiche insegne;
E colli, e prati, e larghe strade, e anguste
Ripien’eran d’armati. Arditi andammo.
E siccome il torrente ovunque passa
Gli arbori svelle, e gli argini non teme,
L’esercito così dell’armi nostre
E quinci e quindi discorrea fremendo,
E gli armati nemici e le lor torri,
E le macchine loro, e i suoi ripari
Disperdendo, atterrando e distruggendo,
Facea stragi inaudite, e ad ogni passo
Un cimento incontrava e una vittoria.
Finalmente giungemmo in faccia all’alta
Tauris superba, ultima speme ai Persi,
’Ve tutte unite e ricovrate aveano
Poche rimaste lor ultime insegne.
Parea che ad atterrarla in van s’andasse;
Ma non andossi in van, chè in vano mai
Pugnan di Giustinian l’armi vittrici.
Tosto corremmo ad assalir le mura:
E con macchine e scale, arieti e ferri,
Battute con valor caddero al fine.
Io ridir non potrei quanti l’irato
Popolo sovra noi crudeli colpi
Scagliò di morte. I fidi tuoi cadevano
Dalli sassi, dal ferro oppressi, uccisi.
Superate le mura, entrammo arditi,
E col ferro alla mano in ogni parte
Femmo rivi di sangue. Alzar le grida
Della presa cittade offrir le chiavi.
Chiesero in don dal cenno mio la vita.
Ma al furor militar fren non valendo
Impor col mio comando, in breve tempo
Tanta strage si fece e tal ruina,
Che Tauris di città riserbò appena
Qualche memoria, e fu una tomba il resto.
Le donne, i vecchi, e i pargolett’imbelli
Nella strage comun caddero estinti.
Demolite le torri, ed atterrati
I superbi palaggi, i tempj stessi
Profanati dai Persi arsero i nostri.
Non v’era alcun che non gridasse: E viva
Dell’Impero di Grecia il gran monarca.
Così frattanto in nome tuo vincemmo.
Così il nemico tuo geme sconfìtto;
Non già dal mio valor, ma da quel Giove,
Che diviso, signor, teco ha l’impero.
Giustiniano. Di’ pur che tu vincesti. Io la vittoria
Riconosco maggior, poichè il tuo braccio
Me la presenta, ed il più bel trionfo
Di Giustinian ha Belisario istesso.
Amico, l’alte mie cure d’impero
Mi richiamano altrove. A’ tuoi riposi
Ti lascio, indi fra poco a me ritorna,
Che senza te pace goder non posso. (parte
SCENA V.
Belisario, poi Teodora.
Posso aver io, se il mio bel sol non veggio?
Antonia, idolo mio... Ma qui sen viene
L’imperatrice; ad incontrarla io vado,
Che cangiata ella sia, nè più la fiamma
Che l’ardeva per me, riserbi in petto!
Teodora. Al grande, al forte, al più sublime eroe
Che venerasse mai Bisanzio e Roma,
Giusto è ben che Teodora ancor tributi
E gli omaggi dovuti e i giusti applausi.
E giusto è poi che al più vezzoso e vago
Nume di questa terra una regnante
Donna consagri del suo cor gli affetti.
Belisario. Teodora, il tuo favor tropp’alto sale,
Nè degli applausi tuoi degno son io.
Tutto ciò che in me vedi, è solo dono
Della fortuna. Agli altri detti tuoi
Abbastanza risponde il mio silenzio.
Teodora. Oh! sempre, e quando parli, e quando taci,
Amabile e gentil! Se il suo tacere
Rispetto è forse, dal tuo sen discaccia
L’importuno timore. Apprender puoi
Libero a favellar da me, che pure
Men di te lo dovrei. Ma quell’ardore,
Che non mi cape in seno, omai trabocca
Libero or per le labbra, ora per gli occhi.
Parla, ch’io tel concedo, e i pensier tuoi
Non mi celar.
Belisario. Poichè parlar m’imponi,
Dirò che d’un amor cotanto ingiusto
Tent’in van Belisario. Amo la gloria
Del tuo, del mio signor; per lui la vita
Più volt’esposi, e il sangue mio versai;
Pensa tu, se tradirlo ora potrei.
So che meco tu scherzi, oppur fai prova
Della mia fede; al cielo e al mondo è nota,
Nè bisogno di prove ha la mia fede.
Teodora. L’ingiuria a Giustinian scorno non reca,
Della tua fè, s’egli fedel ti crede.
Belisario. (Che indegno favellar!) Falsi principi
Nella scuola d’onore io non appresi.
L’onor che d’alma grande è il più bel fregio,
Un fantasma non è. Perdona, troppo
Una vana passion cieca ti rese.
L’onor non sta nell’opinione altrui;
Sta nell’opere proprie: e se talvolta
Qualche nube l’offusca, egli risplende
Sempre a vista del ciel candido e puro.
Creda altri ciò che vuole, a me sol basta
Che sia la fede mia nota a me stesso.
Teodora. Senti: se all’amor mio nieghi mercede,
Vedrem se quell’onor che tanto apprezzi,
Punto ti gioverà. Farò ben io
Ciò che commesso rimarrebbe occulto,
Imputarti dal mondo a tuo dispetto.
Innocente esser puoi, se me secondi;
Ma reo sarai, se l’innocenza affetti.
Belisario. Un cuor fedel gl’inganni altrui non teme.
Dell’innocenza è protettore il cielo.
Teodora. Così sprezzi, superbo, un regio affetto?
Belisario. Così vuol l’onor mio, così mia fede.
Teodora. Senti, ti abborrirò quanto t’amai.
Belisario. L’amor ti offende. Io l’odio tuo non merto.
Teodora. Ingrato; un dì ti pentirai, ma in vano.
Belisario. Mai non mi pentirò d’esser fedele.
Teodora. De’ tuoi disprezzi vendicarmi io giuro.
Belisario. Difenderamm’ il ciel dai colpi tuoi.
Teodora. Un ne cadrà, che ti darà la morte.
Belisario. Ed io morrò prima d’amarti; in questo
Fermo pensier sarò costante. Augusta,
Non ti lagnar di me; se dritto miri,
Forse ti piaceran le mie ripulse. (parte
SCENA VI.
Teodora, poi Antonia.
Di Teodora l’amor, che già per poco
Tu fastoso n’andrai. Tale vendetta
Giuro di far contro l’ingrato core,
Ch’eterna resti la memoria al mondo
Dell’odio mio. Ma viene Antonia, io temo
Ch’ella sia la sua fiamma. A piagner mesta,
Dacchè lui si partì, la vidi sempre.
Serenata or mi sembra. Il ver si scopra. (si ritira
Antonia. Consolati, mio cor, ch’è giunto al fine
Colui che d’ogni doglia e d’ogni affanno
Levar ti può. Ma oh dio! fra tanti e tanti,
Che tributan gli ossequi al grand’eroe,
L’ultima sarà Antonia? Ah! troppo dura
Legge del nostro sesso! In questa effigie,
Consueto conforto alle mie pene,
Fisserò le pupille, onde frattanto
L’anima disponendo a rivederlo,
L’improvviso piacer poi non m’uccida.
Belisario, mio ben, la più fedele (al ritratto
Tenera amante a consolar che tardi?
Teodora. (Non m’ingannai. Ah gelosia mi rode!) (da sè
Antonia. S’ora l’effigie tua baciar mi lice,
Spero l’original stringermi al seno.
Teodora. Lo speri in van, pria stringerai la Parca.
Antonia. Misera! Che sarà?
Teodora. Sentimi, Antonia.
Per quanto esser ti può cara la vita
Di Belisario, dei lasciar d’amarlo.
Da questo solo il suo destin dipende.
Antonia. Come! lasciar d’amarlo? Ah! per pietade,
In noi l’acceso ardor?
Teodora. Taci e obbedisci.
Fuori del mio voler altra ragione
Non ti lice cercar. Non è delitto
L’amar; ma Belisario è colpa grave.
Antonia. Colpa è l’amar eroe sì degno e forte?
Colpa è l’amar il domator degli empj?
Colpa è l’amar chi tutto il mondo adora?
Teodora. Colpa è l’amarlo, se Teodora il vieta.
Antonia. Troppo ad amarlo ho il cor avvezzo, e fia
Impossibil scacciarne il primo affetto.
Teodora. Non dubitar. Difficile cotanto
Alla donna non è cangiar amore.
Credilo pur, ch’io già per prova il dico.
Belisario s’accosta, io mi ritiro.
Odi tu un mio comando: in faccia a lui
Vo’ che il labbro non sciolga, e le pupille
Non sollevi a mirarlo, e i detti suoi
Tu non ascolti, o pur l’ascolti e taci.
Ad obbedir t’appresta, o Belisario
Pagherà col suo sangue il tuo delitto.
Antonia. Dura legge m’imponi.
Teodora. E questa legge
Devi osservar. E basti al tuo rispetto
Che testimoni gli occhi miei saranno. (si ritira
SCENA VII.
Belisario, Antonia, e Teodora ritirata.
Riveder mi concede il tuo bel volto.
Vinsi pugnando, e non usata forza
Provai nel braccio mio, qualora, o bella,
Il tuo nome invocai. Or a te riedo
Che venner meco... Oh dio! Tu non mi guardi?
Così crudele il tuo fedel ricevi?
Quest’è il piacer che risentir sperai
Dopo tanto penar nel rivederti?
E mirarmi non degni? Ah! sì, t’intendo:
La lontananza mia ti rese ingrata,
Incostante, spergiura.
Antonia. (Oh dei! che pena!) (da sè
Belisario. Ma se deggio morir, pronunzia almeno
La sentenza fatal della mia morte.
Di’ che non m’ami più. Di’ che m’aborri;
E che cangiasti il cor, dimmi, crudele.
Antonia. Ciò dir non posso e favellar non deggio.
Belisario. Ah! sì, dirlo non puoi, perchè nel seno
Il rimorso ti rode. Il mio tradito
Amor ti turba, e ti confondi, e tremi.
Ma favellar non devi? Ah! fors’è questa
Barbara legge del novello amante?
Antonia. Questa è legge crudel, ma non d’amore.
Belisario. D’odio dunque sarà. Deh! come mai
Odioso divenni agli occhi tuoi?
Io son lo stesso, tu non sei già quella.
Antonia. Quel tu sei; quella sono... (Oh dio, che affanno!) (da sè
Belisario. Ma s’io non sono quel, mi fuggi ingrata.
E se quella tu sei, perchè non m’ami?
Sospiri, e non mi guardi? È tutto questo
Quel gran segno d’amor, ch’ora a me porgi?
Piangono gli occhi tuoi? Che sperar posso;
E che temer degg’io da questo pianto?
Se infedele mi sei, perchè mai piangi?
E se mi sei fedel, perchè non parli?
Antonia. Belisario, non più; parti, se m’ami.
Belisario. Vado dunque a morir; ma spirto errante
T’adorerò benchè tradito; ad onta
Dell’odio tuo ti serberò la fede.
Antonia. (Ahi che legge crudel!) (da sè
Belisario. (Che duro fato!) (da sè
Antonia. (In faccia all’idol mio parlar non posso), (da sè
Belisario. (Presso la vita mia morir io deggio). (da sè
Antonia. (Parte il mio bene, ed il mio cor lo segue). (da sè
Belisario. (Colla bella crudel resta il mio core). (da sè
Antonia. (Belisario, mia vita!) (da sè
Belisario. (Antonia, oh dio!) (da sè
Antonia. (Ahi tiranno destin!) (da sè
Belisario. (Fato crudele!) (da sè, e parte
SCENA VIII.
Teodora ed Antonia.
Ma rimedio non ha.
Antonia. Non ha rimedio?
A legge sì crudel perchè condanni
Un innocente amor? Fra tante e tante,
Che aman senza delitto, Antonia sola
Colpevole sarà?
Teodora. Tu non intendi
La cagion del divieto, e perciò strano
Ti sembra il cenno mio. Brami la colpa
Saper dell’amor tuo? Sentila, e trema.
Amo anch’io Belisario, e l’amor mio
Soffrir non può di gelosia la pena.
Intendesti il perchè? Tanto ti basti.
Antonia. Cieli! che sento mai? Di qual amore
È capace il tuo cor? Se Giustiniano...
Teodora. Tu rimproveri a me? Taci, superba;
Guardati di scoprir. Se mi tradisci,
Belisario morrà; morrai tu ancora.
Antonia. (Barbara donna!) (da sè
Teodora. Io sì crudel non sono
Però, quanto mi credi. Il so, si pasce
Sol di teneri affetti il nostro core.
Cangia dunque la fiamma, e t’assicuro
Che pronuba m’avrai nell’amor tuo.
Antonia. L’amar e il disamar non è in balìa
Del voler nostro. Il mio destin mi vuole
Fida e costante al mio primiero affetto.
Teodora. Non vuo’ più garrir teco. In me conosci
Il tuo destino; ecco Filippo, ad esso
Oggi stender la man devi di sposa.
Antonia. Offrirò prima a crudo ferro il capo.
SCENA IX.
Filippo e dette.
Teodora. A che t’arresti?
Ami Antonia, lo so. Io non m’oppongo
Ad un sì giusto amor. Essa è ben degna,
Prence, dell’amor tuo.
Filippo. La tua presenza
Timoroso rendeami; or che concedi
Spiegar quel fiero ardor che m’arde in seno,
Bella, dirò... (ad Antonia
Antonia. Se vuoi parlar d’amore,
Meco in van t’affatichi.
Filippo. E perchè mai
Sì crudele, mio ben, con chi t’adora?
Antonia. Perchè amarti non posso.
Filippo. (Oh duro fato!) (da sè
Le modeste donzelle ira e dispetto
Mostrar con chi le adora, e a poco a poco
L’ira diviene amor, desio lo sdegno.
Non è sì lieve impresa un cuor di donna.
A chi vincer lo vuol, soffrir conviene.
Filippo. Tu m’insegni a sperar, ma il cuor mi dice,
Che la speranza è vana.
Teodora. Un cuor codardo
Nulla ottiene, Filippo, e sol l’audace
Ha fortuna in amor. Dove non vale
Il pregare, il servir, vaglia il rapire.
Antonia. Pria vedransi cangiar lor corso i fiumi;
Prima immobile il mar, mobil la terra,
Che si piegh’il mio cor. Filippo, è vano
Il tuo pregar; vano sarà l’ardire.
Non piaci a gli occhi miei; t’odia il mio core;
Io non ti posso amar, tanto ti basti. (parte
SCENA X.
Teodora, Filippo.
Teodora. T’arresta, o prence.
La cagion del disprezzo è a me palese.
Filippo. Non la tacer, s’hai del mio mal pietade.
Teodora. E accesa d’altr’oggetto.
Filippo. E chi è mai questo
Fortunato rival dell’amor mio?
Teodora. Quando il saprai, forse sì fiero in viso
Non ti vedrò.
Filippo. Fosse l’istesso Marte,
Vendicarmi saprò.
Teodora. Novello Marte
Appunto egli è...
Teodora. Ad esso
Tutti Antonia donò gli affetti suoi.
Filippo. E non basta al superbo avermi tolto
I prim’onor dell’armi e il primo fregio
Nell’impero d’Oriente? anco in amore
Nemico ho Belisario? Ah! giuro al cielo,
Giuro di vendicar... Ma che dich’io?
Quest’aure ch’io respiro e questi passi
Ch’ora liberi formo, son suo dono.
Gratitudin m’arretra, amor mi sprona,
Nè so chi avrà nel petto mio vittoria.
Teodora. Dunque tu avrai ad un sì caro prezzo
Compra la libertà? Cotanto vile
Ti avrà reso un favor del tuo nemico?
Se per tal libertà schiavo ti rendi,
Cangiasti solo e non sciogliesti i lacci.
Eh! non tradir te stesso. Un vero amante
Altra, fuorchè l’amor, ragion non sente.
Pensaci meglio e poi risolvi, o prence. (parte
Filippo. Ho pensato, ho risolto. Il mio nemico,
O mi ceda la sposa, o cada estinto.
Fine dell’Atto Primo.