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XIV XVI

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XV.


Arrigo era poc’anzi vicino a Gabriella; ma il ritorno improvviso della contessa di Castelbianco lo aveva messo in fuga.

— Che hai, zio? — diss’egli, vedendo il Gonzaga con le ciglia aggrondate.

— Ho... ho, che tu potevi rimanere accanto a Gabriella. Il contino non aspettava che la tua fuga, per occupare il tuo posto.

— Dovevo forse rimanere? Con quell’altra, che mi fa gli occhiacci!...

— Che vuoi, che ti divori? Ah, benedetto ragazzo! Tu commetti gli errori, e non sai riscattarli con un po’ di coraggio. Eccolo laggiù, il contino, che fa il trovatore davanti alle belle! Sento una gran voglia di schiaffeggiarlo.

— E perchè? [p. 259 modifica]

— Un’altra lettera anonima, capisci? E questa, poi, l’ha ricevuta il senatore Manfredi.

— E tu sospetti di lui? — disse Arrigo. — Sei ben sicuro di non fargli torto, e di non essere tanto più ingiusto verso di lui, dopo che egli ha incaricato i suoi padrini di farti delle scuse?

— Si possono far delle scuse per debolezza d’animo, come hai creduto tu questa mane, o per non guastarsi con qualche persona troppo amica dell’avversario, come ho creduto io; — rispose il Gonzaga. — E in un caso e nell’altro, si possono affidare le proprie vendette ad armi come queste. Eccoti una delle lettere, che oggi sono state scritte; è quella che fu mandata al conte Pompeo. Non ti par naturale di applicarle la massima romana: “is fecit cui prodest?„

Arrigo diede una scorsa alla lettera, e fremette; poi osservò attentamente la mano di scritto.

— Questo carattere non mi giunge nuovo; — diss’egli.

— Bada; è carattere di donna. [p. 260 modifica]

— Appunto per questo. Ho già ricevuto lettere, da questa mano, molto tempo fa. E dopo che non ne ho più ricevute io, ne avrà ricevute un altro. Ah, ecco! — esclamò Arrigo, che aveva finalmente trovata la via. — Ma in verità, sarebbe una cosa orribile. Lui?

— Chi? — disse il Gonzaga. — In nome di Dio, chi sospetti che sia?

— Orazio; — mormorò il Valenti. — Ma la ragione di far ciò? Io non la vedo. Un amico!...

— Al quale hai ricusato ieri cinquemila lire, in un momento difficile.

— Non gliele hai imprestate tu, zio? e senza ricevuta?

— Non è la stessa cosa, — disse il Gonzaga. — Ad ogni modo, se il tiro viene da lui, il signor Ceprani è un tristo soggetto.

— Io non l’ho mai avuto per uno stinco di santo; — ripigliò Arrigo Valenti. — L’ho sempre speso per quel che valeva, e niente di più. Ma lasciamo stare il Ceprani. Tu restituirai ora la tua stima a quel povero Guidi?

— Non vedo la necessità di correr tanto; quantunque veda quella di ritornare di là, in [p. 261 modifica]mezzo alla gente. Guardalo laggiù, sempre appiccicato alla spalliera del sofà dove siede Gabriella. Dio, quante smancerie! E tu seguiti a far l’astratto, mentre egli ti voga sul remo.

— Eh, caro mio, — disse il giovane, mentre seguiva lo zio nella sala grande, da cui si erano allontanati, — non trovo da fare di meglio, in questo momento, e penso di riposare tra due guanciali, fidandomi in te. Lo sai, il proverbio? Fortuna e dormi. E si può dormire, quando la fortuna sei tu.

— Arrigo, Arrigo! Se tu seguiti a prender le cose con tanta fiacchezza, ti do la mia parola d’onore, che piglio il primo treno di domani, e me ne ritorno alle Carpinete, donde non mi caveranno più neanche gli scongiuri.

— Come? Ti darebbe l’animo di abbandonarmi? Proprio ora?

— Senti; che serve rimanere? Intanto, ella non vuol saperne di matrimonio.

— Non vuole? Lo ha detto a te? — chiese Arrigo, turbato.

— Lo ha detto a suo padre, e mi pare che basti. — [p. 262 modifica]

Il giovane non fece parola; ma il suo aspetto disse chiaramente allo zio che egli era stato profondamente colpito.

Cesare Gonzaga, chiamato a dire la sua opinione in una disputa amichevole tra il senatore Manfredi e parecchi colleghi, si allontanò dal nipote, che rimase solo, taciturno e smarrito nel salotto, come un povero forastiero in un paese di cui non sappia la lingua e dove non conosca un’anima.

Quanto rimase là solo? Un bel pezzo, di certo, e senza avere il coraggio di accostarsi al crocchio delle signore. Da principio lo tenevano lontano le guardate feroci di Giovanna; allora, poi, sentiva vergogna di presentarsi a Gabriella Manfredi, alla fanciulla che lo avea rifiutato lì per lì, senza dubitare un istante. Povero amor proprio! In esso ci tocca di soffrire, quando non vive in noi altro sentimento più degno. Arrigo Valenti avrebbe voluto essere mille miglia lontano; ma non c’era verso di muoversi da quella sala, dove tutti erano seduti a crocchi, e dove il timore che la sua partenza fosse troppo notata, lo teneva [p. 263 modifica]inchiodato. E tutti, vicini e lontani, parevano aver gli occhi su lui. Si accostò allora ad una tavola, prese un giornale illustrato, e fece le viste di leggere. Aveva finalmente trovato un atteggiamento; non faceva più la figura dell’uomo impacciato, abbandonato, sfuggito da tutti, che è tanto ridicola in mezzo alla gente, a quella gente tutta composta di prossimo nostro, e perciò così pronta ad avvedersi delle nostre angustie e a farne argomento di beffe. Là ritto alla sponda della tavola, col suo giornale tra mani, un giornale su cui teneva gli occhi e non vedeva una sillaba, udiva dietro di sè le voci dei cavalieri e le risa della contessa di Castelbianco, risa frequenti ed alte, ma troppo asciutte, e certamente poco sincere. Comunque fossero, beata lei, che poteva ridere ancora! Quella ilarità continuata, che a volte tradiva lo sforzo, era sempre una gran cosa, al confronto di quella confusione che teneva lui in disparte, solitario, con un giornale in mano, come un uomo che fosse andato in società non per altro che per vedersi lasciato in un angolo. [p. 264 modifica]

La contessa chiacchierava e rideva, ma nel fatto soffriva moltissimo. Ad un certo punto non resse più, e parlò improvvisamente di andarsene. Erano le dieci, e la sua carrozza doveva essere davanti al portone in attesa. Quante volte, e con la pioggia fitta, la carrozza non era rimasta là sotto, ad aspettare la signora, che non avrebbe mai detto di muoversi! Ma quella volta non voleva farla aspettare neanche un minuto. Il conte Guidi, che l’aveva accompagnata all’arrivo, si offerse gentilmente per accompagnarla alla partenza.

— No, grazie, conte, rimanete; non voglio che nessuno si scomodi per me. Fate chiedere piuttosto se la carrozza è giunta. Il mio domestico sarà già in anticamera. —

Il conte Guidi andò a prendere informazioni, e tornò subito dopo, annunziando che la carrozza era giunta. Frattanto il circolo delle dame si era disfatto, e la contessa di Castelbianco, andando verso il senatore Manfredi, che stava in conversazione col suo sinedrio di gravi personaggi, passò accanto ad Arrigo, che si tirò indietro, salutando. Essa gli diede [p. 265 modifica]un’occhiata sdegnosa, rise e gli gittò sul volto una frase, che sibilò come un colpo di frusta:

— Siete un vile!

— Signora!... — disse Arrigo, sbalordito.

— Siete un vile! — riprese ella, incalzando. — Volete che vi schiaffeggi qui, alla presenza di tutti? —

Arrigo si ritrasse ancora, chinando la testa, e si allontanò prontamente da lei.

Cesare Gonzaga aveva veduto l’incontro e indovinato facilmente uno scambio di parole aspre fra i due. Avvicinatosi al nipote, mentre la contessa stringeva la mano al senatore Manfredi, gli disse:

— Che è stato? Che cosa ti ha detto la contessa?

— Nulla, zio, nulla; parole amare, sciocchezze da non farne caso. —

E fremeva, parlando così, e guardava sempre intorno a sè, come cercando qualche cosa. La contessa, frattanto, era partita, e poco stante, fatti i suoi saluti alla signorina Manfredi, anche il Guidi si mosse per uscire. Arrigo lo seguì in anticamera, indossò il pastrano [p. 266 modifica]anche lui, e si avviò per le scale sui passi del conte. Quell’altro se lo era veduto benissimo alle calcagna; ma a tutta prima non ne avea fatto caso, credendo che si trattasse di una combinazione fortuita. Ma dovette ricredersi nell’atto di escire sulla via, quando Arrigo Valenti, affrettando il passo per raggiungerlo, gli disse:

— Signor conte, avrei qualche cosa da chiederle.

— Parli, sono a’ suoi ordini; — rispose egli, assumendo tosto un’aria di cerimonia.

— Poc’anzi, — riprese Arrigo, — una donna ch’ella ha accompagnata in casa Manfredi....

— Una signora, non una donna; — interruppe il conte Guidi; — la prego di correggere.

— È giusto; — rispose Arrigo, dopo un istante di pausa. — Non era mia intenzione di venir meno al rispetto che a quella dama è dovuto. La signora, adunque, passandomi daccanto, non so per qual cagione di sdegno contro di me, mi ha detto: vile. —

Il conte Guidi, che si era fermato a guardare il suo interlocutore, ascoltando [p. 267 modifica]pazientemente il suo piccolo racconto, si strinse nelle spalle, con aria di dirgli: che c’entro io?

— Le signore, — continuava frattanto il Valenti, — hanno parole che colpiscono peggio dei ceffoni. A noi uomini restano le mani, per restituire ai cavalieri quello che abbiamo ricevuto da esse. —

Così dicendo, levò la mano e percosse.

Il conte Guidi si aspettava un alterco, e fors’anche un’offesa; ma non aveva preveduto tanta prontezza di mano. Cacciò un urlo e si scagliò sul Valenti, che era preparato a riceverlo. Ci fu il solito pugilato, il solito accorrere dei viandanti, e la solita separazione dei combattenti, senza che nessuno degli accorsi riconoscesse quei due inferociti cavalieri e sapesse perchè si fossero accapigliati. Allontanatosi primo dalla calca, Arrigo vide passare una vettura da nolo, fortunatamente vuota; vi saltò dentro e disse:

— Allo Sport, in via Condotti, e alla svelta! —

Anche il conte Guidi, liberatosi dalla ressa degli importuni, andò di buon passo allo Sport. Giunto colà, prese in disparte i due primi [p. 268 modifica]gentiluomini che gli si pararono dinanzi, e chiese loro di volerlo servire in una quistione d’onore.

— Con chi l’hai? — gli domandarono.

— Col cavaliere Valenti. Vi prego di andar subito a casa sua, per portargli la sfida.

— Non occorre andar tanto lontano; — risposero quelli. — Il Valenti è entrato poc’anzi, ed è nella sala d’armi a colloquio con due altri, forse per la stessa ragione.

— Tanto meglio! — disse il Guidi. — Andate dunque di là. Voglio un combattimento ad oltranza. Stamane, per un riguardo a certe persone, mi son mostrato corrivo a far pace con lo zio. Ora il nipote ha da pagare per due. —

Mentre queste cose accadevano di fuori, Cesare Gonzaga, rimasto nel salotto dei Manfredi, girava inutilmente gli occhi di qua e di là, cercando il nipote. Certo, conoscendo l’indole di Arrigo, l’ultimo pensiero che gli potesse venire, anzi l’unico che non gli dovesse venire affatto alla mente, era quello di un suo alterco col Guidi. Egli sospettò invece che il suo caro nipote, sconcertato dal rifiuto di Gabriella, avesse fatta la insigne sciocchezza di [p. 269 modifica]andarsene insalutato hospite, contro l’usanza della casa, che non ammetteva questi esotici modi. Turbato dal pensiero di quella ragazzata, che poteva guastare per sempre il giovinotto coi Manfredi, lo zio Cesare stette ancora un pezzo a discorrere con gli ultimi rimasti, che si erano raccolti intorno alla signorina Gabriella. Finalmente, approfittando dell’arrivo del conte Pompeo, che veniva molto in ritardo a cercare sua moglie, Cesare Gonzaga si accomiatò, promettendo a Gabriella una visita per il giorno seguente.

— Che uomo, quel Gonzaga! — disse il conte di Castelbianco. — Par sempre un giovinotto.

— Ed ha anche giovane il cuore; — aggiunse il Manfredi.

— Ah, quello poi ha vent’anni. Figuratevi ch’egli ha domattina un duello.

— Un duello! — esclamò Gabriella. — Con chi?

— Col conte Guidi.

— E quando lo avete saputo? — domandò il Manfredi. [p. 270 modifica]

— Oggi stesso. A tutta prima aveva creduto che si trattasse di suo nipote; ma invece è lui, proprio lui.

— Anche il Guidi, poc’anzi, era qui, e non ci siamo avveduti che ci fosse nulla tra loro.

— Eh, capirete; i cavalieri perfetti sanno fare le cose con la debita discrezione.

— Ma la ragione? Arrivato da due giorni appena, come può aver già avuto da dire con qualcheduno?

— Che posso dirvi io? La ragione non la so. Del resto, le quistioni personali non si maturano sempre lentamente; nascono qualche volta da un nulla, come i funghi, e scoppiano lì per lì, come le bombe. —

Con questi bei paragoni conchiuse la sua imprudentissima chiacchierata il conte Pompeo di Castelbianco, lasciando i Manfredi nella più dolorosa ansietà.