Arcadia (Sannazaro)/Prosa XII
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ARGOMENTO
Con un sogno par che accenni le sue passioni amorose, e ’l dolor, che prendeva del suo esilio. Intanto gli pare da una Ninfa esser condotto sotto terra, dove finge d’aver veduto alcuni fiumi de’ più famosi, ed alcune maraviglie, che son nel Regno di Napoli: dalle quali prende occasione d’esser ricondotto col favor divino da paesi d’Arcadia alla diletta patria, e di dar fine a quest’opera.
prosa duodecima.
La nova armonia, i soavi accenti, le pietose parole, ed in ultimo la bella ed animosa premessa di Ergasto, tenevano già, tacendo lui, ammirati e sospesi gli animi degli ascoltanti; quando tra le sommità de’ monti il sole bassando i rubicondi raggi verso l’occidente, ne fe’ conoscere l’ora esser tarda, e da dovere avvicinarne verso le lasciate mandre. Per la qual cosa Opico, nostro capo, in piè levatosi, e verso Ergasto con piacevole volto giratosi, gli disse: Assai per oggi onorata hai la tua Massilia: ingegneraiti per lo avvenire, quel che nel fine del tuo cantare con affettuosa volontà le prometti, con ferina e studiosa perseveranza adempirle. E così detto, baciando la sepoltura, ed invitando noi a fare il simile, si pose in via, appresso al quale l’un dopo l’altro prendendo congedo, si indrizzò ciascuno verso la sua capanna, beata riputando Massilia sovra ogni altra, per avere di se alle selve lasciato un sì bel pegno. Ma venuta la oscura notte pietosa delle mondane fatiche a dar riposo agli animali, le quiete selve tacevano: non si sentivano più voci di cani, nè di fiere, nè di uccelli: le foglie sovra gli alberi non si moveano: non spirava vento alcuno: solamente nel cielo in quel silenzio si potea vedere alcuna stella o scintillare, o cadere: quando io, non so se per le cose vedute il giorno, o che che se ne fosse cagione, dopo molti pensieri, sovrappreso da grave sonno, varie passioni e dolori sentiva nell’animo: perocchè mi pareva, scacciato da’ boschi e da’ pastori, trovarmi in una solitudine da me mai più non veduta, tra deserte sepolture, senza vedere uomo, che io conoscessi; onde io volendo per paura gridare, la voce mi veniva meno, nè per molto che io mi sferzassi di fuggire, possea estendere i passi; ma debole, e vinto mi rimaneva in mezzo di quelle. Poi pareva che stando ad ascoltare una Sirena, la quale sovra uno scoglio amaramente piangeva, una onda grande del mare mi attuffasse, e mi porgesse tanta fatica nel respirare, che di poco mancava ch’io non morissi. Ultimamente un albero bellissimo di arancio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco dalle radici, con le frondi, e i fiori, e i frutti sparsi per terra; e dimandando io, chi ciò fatto avesse, da alcune Ninfe, che quivi piangevano, mi era risposto: Le inique Parche con le violente scure averlo tagliato. Della qual cosa dolendomi io forte, e dicendo sovra lo amato troncone: Ove dunque mi riposerò io? sotto qual’ombra omai canterò i miei versi? mi era dall’un de’ canti mostrato un nero e funebre cipresso, senza altra risposta avere alle mie parole. In questo tanta noja ed angoscia mi soprabbondava, che non possendo il sonno soffrirla, fu forza che si rompesse. Onde, come che molto mi piacesse non eser così la cosa, come sognato avea; pur nondimeno la paura, e ’l sospetto del veduto sogno mi rimase nel cuore, per forma che tutto bagnato di lacrime, non possendo più dormire, fui costretto per minor mia pena a levarmi, e benchè ancora notte fosse, uscire per le fosche campagne. Così di passo in passo, non sapendo io stesso ove andare mi dovessi, guidandomi la Fortuna, pervenni finalmente alla falda di un monte, onde un gran fiume si movea con un ruggito, e mormorio mirabile, massimamente in quella ora, che altro romore non si sentiva: e stando qui per buouo spazio, l’Aurora già incominciava a rosseggiare nel cielo, risvegliando universalmente i mortali alle opre loro; la quale per me umilmente adorata, e pregata volesse prosperare i miei sogni, parve che poco ascoltasse, e men curasse le parole mie; ma dal vicino fiume, senza avvedermi io come, in un punto mi si offerse avanti una giovane donzella nell’aspetto bellissima, e nei gesti e nell’andare veramente divina; la cui veste era di un drappo sottilissimo e sì rilucente, che, se non che morbido il vedea, avrei per certo detto, che di cristallo fosse; con una nova ravvolgitura di capelli, sovra i quali una verde ghirlanda portava, ed in mano un vasel di marmo bianchissimo. Costei venendo ver me, e dicendomi: Seguita i passi miei, ch’io son Ninfa di questo luogo; tanto di venerazione, e di paura mi porse insieme, cbe attonito senza risponderle, e non sapendo io stesso discernere, s’io pur vegghiessi, o veramente ancora dormissi, mi posi a seguitarla: e giunto con lei sopra al fiume, vidi subitamente le arque dall’un lato e dall’altro ristringersi, e darle luogo per mezzo: cosa veramente strana a vedere, orrenda a pensare, mostrosa, e forse incredibile ad udire. Dubitava io andarle appresso, e già mi era per pura fermato in su la riva; ma ella piacevohrente dandomi animo, mi prese per mano, e con somma amorevolezza guidandomi, mi condusse dentro al fiume; ove senza bagnarmi piede seguendola, mi vedeva tutto circondato dalle acque, non altrimenti che se andando per una stretta valle, mi vedessi soprastare due erti argini, o due basse montagnette. Venimmo finalmente in la grotta, onde quella acqua tutta usciva; e da quella poi in un’altra, le cui volte, siccome mi parve di comprendere, eran tutte fatte di scabrose pomici; tra le quali in molti luoghi si vedevano pendere stille di congelato cristallo, e d’intorno alle mura per ornamento poste alcune marine conchiglie; e ’l suolo per terra tutto coverto di una minuta e spessa verdura, con bellissimi seggi da ogni parte, e colonne di translucido vetro, cbe sostenevano il non alto tetto; e quivi dentro sovra verdi tappeti trovammo alcune Ninfe sorelle di lei, che con bianchi e sottilissimi cribri cernivano oro, separandolo dalle minute arene; altre filando il riducevano in mollissimo stame, e quello con sete di diversi colori intessevauo in una tela di maraviglioso artificio; ma a me, per lo argomento, che in se conteneva, augurio infelicissimo di future lacrime. Conciossiacosachè nel mio intrare trovai per sorte, che tra li molti ricami tenevano allora in mano i miserabili casi della deplorata Euridice: siccome nel bianco piede punta dal velenoso aspide fu costretta di esalare la bella anima: e come poi per ricovrarla discese all’inferno, e ricovrata la perdè la seconda volta lo smemorato marito. Ahi lasso, e quali percosse, vedendo io questo, mi senti’ nell’animo, ricordandomi de’ passati sogni; e non so qual cosa il cuore mi presagiva: che, benchè io non volessi, mi trovava gli occhi bagnati di lacrime, e quanto vedeva, interpretava in sinistro senso. Ma la Ninfa, che mi guidava, forse pietosa di me, togliendomi quindi, mi fe’ passare più oltre in un luogo più ampio, e più spazioso, ove molti laghi si vedevano, molte scaturigini, molle speluncbe, che rifondevano acque, dalle quali i fiumi, che sovra la terra corrono, prendono le loro origini. O mirabile artificio del grande Iddio! La terra, che io pensava che fosse soda, richiude nel suo ventre tante concavità! Allora incominciai io a non maravigliarmi de’ fiumi, come avessero tanta abbondanza, e come con indeficiente liquore serbassero eterni i corsi loro. Così passando avanti tutto stupefatto e stordito dal gran rumore delle acque, andava mirandomi intorno, e non senza qualche paura, considerando la qualità del luogo, ove io mi trovava. Di che la mia Ninfa accorgendosi: Lascia, mi disse, cotesti pensieri, ed ogni timore da te discaccia; che non senza volontà del Cielo fai ora questo cammino. I fiumi, che tante fiate uditi hai nominare, voglio che ora veda da che principio nascano. Quello, che corre sì lontano di qui, è il freddo Tanai; quell’altro è il gran Danubio; questo è il famoso Meandro; questo altro è il vecchio Peneo: vedi Caistro: vedi Acheloo: vedi il beato Eurota, a cui tante volle fu lecito ascoltare il cantante Apollo. E perchè so che tu desideri vedere i tuoi, i quali per avventura ti son più vicini, che tu non avvisi; sappi che quello, a cui tutti gli altri fanno tanto onore, è il trionfale Tevere, il quale non come gli altri è coronato di salci, o di canne, ma di verdissimi lauri, per le continue vittorie de’ suoi figliuoli: gli altri duo, che più propinqui gli stanno, sono Liri, e Vulturno, i quali per li fertili Regni de’ tuoi antichi avoli felicemente discorrono. Queste parole nell’animo mio destaro un sì fatto desiderio, che non possendo più tenere il silenzio, così dissi: O fidata mia scorta, o bellissima Ninfa, se fra tanti e sì gran fiumi il mio picciolo Sebeto può avere nome alcuno, io ti prego che tu mel mostri. Ben lo vedrai tu, disse ella, quando gli sarai più vicino: che adesso per la sua bassezza non potresti; e volendo non so che altra cosa dire, si tacque. Per tutto ciò i passi nostri non si allentarono, ma continuando il cammino, andavamo per quel gran vacuo: il quale alcuna volta si ristringea in angustissime vie; alcuna altra si diffondea in aperte e targhe pianure: e dove monti, e dove valli trovavamo, non altrimenti che qui sovra la terra essere vedemo. Maraviglierestiti tu, disse la Ninfa, se io ti dicessi, che sovra la testa tua ora sta il mare? e che per qui lo innamorato Alfeo, senza mescolarsi con quello, per occulta via ne va a trovare i soavi abbracciamenti della Siciliana Aretusa? Così dicendo cominciammo da lunge a scoprire un gran foco, ed a sentire un puzzo di solfo. Di che vedendo ella che io stava maravigliato, mi disse: Le pene de’ fulminati Giganti, che vollero assalire il cielo, son di questo cagione; i quali oppressi da gravissime montagne spirano ancora il celeste foco, con che furono consumati: onde avviene, che siccome in altre parti le caverne abbondano di liquide acque, in queste ardono sempre di vive fiamme; e se non che io temo che forse troppo spavento prenderesti, io ti farei vedere il superbo Encelado, disteso sotto la gran Trinacria, eruttar foco per le rotture di Mongibello; e similmente l’ardente fucina di Vulcano, ove gl’ignudi Ciclopi sovra le sonanti ancudini battono i tuoni a Giove; ed appresso poi sotto la famosa Enaria, la quale voi mortali chiamate Ischia, ti mostrerei il furioso Tifeo, dal quale le estuanti acque di Baja, e i vostri monti del solfo prendono il lor calore: così ancora sotto il gran Vesevo ti farei sentire li spaventevoli muggiti del gigante Alcioneo; benchè questi, credo, li sentirai quando ne avvicineremo al tuo Sebeto. Tempo ben fu, che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme, e con cenere coperse i circonstanti paesi, siccome ancora i sassi liquefatti ed arsi testificano chiaramente a chi il vede; sotto ai quali chi sarà mai, che creda che e popoli, e ville, e citta nobilissime siano sepolte? come veramente vi sono non solo quelle, che dalle arse pomici, e dalla ruina del monte furon coperte, ma questa, che d’innanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo nei tuoi paesi chiamata Pompei, ed irrigata dalle onde del freddissimo Sarno, fu per subito terremoto inghiottita dalla ferra, mancandole, credo, sotto ai piedi il firmamento, ove fondata era. Strana per certo, ed orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto torre dal numero de’ vivi! se non che finalmente sempre si arriva ad un termino, nè più in là, che alla morte, si puote andare. E già in queste parole eramo ben presso alla città, ch’ella dicea, della quale e le torri, e le case, e i teatri, e i templi si poteano quasi integri discernere. Maravigliami io del nostro veloce andare, che in sì breve spazio di tempo potessimo da Arcadia insino qui essere arrivati; ma si potea chiaramente conoscere, che da potenzia maggiore che umana eravamo sospinti: così appoco appoco cominciammo a vedere le picciole onde di Sebeto; di che vedendo la Ninfa che io mi allegrava, mandò fuore un gran sospiro, e tutta pietosa ver me volgendosi, mi disse: Omai per te puoi andare; e così detto, disparve, nè più si mostrò agli occhi miei. Rimasi io in quella solitudine tutto pauroso e tristo, e vedendomi senza la mia scorta, appena arei avuto animo di movere un passo, se non che dinanzi agli occhi mi vedea lo amato fiumicello. A! quale dopo breve spazio appressatomi, andava desideroso con gli occhi cercando, se veder potessi il principio, onde quell’acqua si movea; perchè di passo in passo il suo corso pareva che venisse crescendo, ed acquistando tuttavia maggior forza. Così per occulto canale indrizzatomi, tanto in qua ed in là andai, che finalmente arrivato ad una grotta cavata nell’aspro tufo, trovai in terra sedere il venerando Iddio, col sinistro fianco appoggiato sovra un vaso di pietra, che versava acqua: la quale egli in assai gran copia facea maggiore con quella, che dal volto, da’ capelli, e da’ peli della umida barba piovendogli continuamente vi aggiungeva. I suoi vestimenti a vedere parevano di un verde limo: in la destra mano teneva una tenera canna, ed in testa una corona intessuta di giunchi, e di altre erbe provenute dalle medesime acque: e d’intorno a lui con disusato mormorio le sue Ninfe stavano tutte piangendo, e senza ordine, o dignità alcuna gittate per terra, non alzavano i mesti volti. Miserando spettacolo, vedendo io questo, si offerse agli occhi miei; e già fra me cominciai a conoscere per qual cagione innanzi tempo la mia guida abbandonato mi avea: ma trovandomi ivi condotto, nè confidandomi di tornare più indietro, senza altro consiglio prendere, tutto doloroso e pien di sospetto mi inclinai a baciar prima la terra, e poi cominciai queste parole: O liquidissimo fiume, o Re del mio paese, o piacevole e grazioso Sebeto, che con le tue chiare e freddissime acque irrighi la mia bella patria, Dio ti esalti: Dio vi esalti, o Ninfe, generosa progenie del vostro padre: siate, prego, propizie al mio venire; e benigne ed umane tra le vostre selve mi ricevete: basti fin qui alla mia dura fortuna avermi per diversi casi menalo; ormai o riconciliata, o sazia delle mie fatiche, deponga le arme. Non avea ancora io fornito il mio dire, quando da quella mesta schiera due Ninfe si mossero, e con lacrimosi volti ver me veueudo, mi posero in mezzo tra loro. Delle quali una alquante più che l’altra col viso levato prendendomi per mano, mi menò verso la uscita, ove quelle picciola acqua in due parti si divide; l’una effondendosi per le campagne, l’altra per occulta via andandone a’ comodi, ed ornamenti della città. E quivi fermatasi, mi mostrò il cammino, significandomi, in mio arbitrio essere omai lo uscire. Poi per manifestarmi chi esse fossero, mi disse: Questa, la qual tu ora da nubilosa caligine oppresso pare che non riconoschi, è la bella Ninfa, che bagna lo amato nido della tua singolare Fenice, il cui liquore tante volle insino al colmo dalle tue lacrime fu aumentato; me, che ora ti parlo, troverai ben tosto sotto le pendici del monte, ove ella si posa. E ’l dire di queste parole, e ’l convertirsi in acqua, e l’avviarsi per la coverta via, fu una medesima cosa. Lettore, io ti giuro; se quella Deità, che infin qui di scriver questo mi ha prestato grazia, conceda, qualunque elli si siano, immortalità agli scritti miei; che io mi trovai in tal punto si desideroso di morire, che di qualsivoglia maniera di morte mi sarei contentato: ed essendo a me medesimo venuto in odio, maledissi l’ora, che d’Arcadia partito mi era, e qualche volta intrai in speranza, che quello, che io vedeva ed udiva, fosse pur sogno; massimamente non sapendo fra me stesso stimare, quanto stato fosse lo spazio, ch’io sotterra dimorato era. Così tra pensieri, dolore, e confusione tutto lasso e rotto, e già fuora di me, mi condussi alla designata fontana; la quale sì tosto come mi senti venire, cominciò forte a bollire, ed a gorgogliare più che il solito, quasi dir mi volesse: Io son colei, cui tu poco innanzi vedesti. Per la qual cosa girandomi io dalla destra mano, vidi e riconobbi il già detto colle, famoso molto per la bellezza dell’alto tugurio, che in esso si vede, denominato da quel gran bifolco Africano, rettore di tanti armenti, il quale a’ suoi tempi, quasi un altro Anfione, col suono della soave cornamusa edificò le eterne mura della divina cittade; e volendo io più oltre andare, trovai per sorte a piè della non alta salita Barcinio, e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissimi, i quali con le loro gregge al tepido sole, perocchè vento facea, si erano ritirati, e, per quanto dai gesti comprendere si potea, mostravano di voler cantare. Onde io, benchè con le orecchie piene venissi de’ canti di Arcadia, pur per udire quelli del mio paese, e vedere in quanto loro si avvicinassero, non mi parve disdicevole il fermarmi, ed a tanto altro tempo per me sì malamente dispeso, questo breve spazio, questa picciola dimoranza ancora aggiungere. Così non molto discosto da loro, sovra la verde erba mi posi a giacere: alla qual cosa mi porse ancor animo il vedere, che da essi conosciuto non era; tanto il cangiato abito, e ’l soverchio dolore mi aveano in non molto lungo tempo trasfigurato. Ma rivolgendomi ora per la memoria il loro cantare, e con quali accenti i casi del misero Meliseo deplorassero, mi piace sommamente con attenzione averli uditi; non già per conferirli con quelli, che di là ascoltai, nè per porre queste canzoni con quelle; ma per rallegrarmi del mio cielo, cue non del tutto vacue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ogni tempo nobilissimi pastori han da se produtti, e dagli altri paesi con amorevoli accoglienze, e materno amore a se tirati. Onde mi si fa leggiero il credere, che da vero in alcun tempo le Sirene vi abitassero, e con la dolcezza del cantare detinessero quegli, che per la lor via si andavano. Ma tornando omai ai nostri pastori, poi che Barcinio per buono spazio assai dolcemente sonata ebbe la sua sampogna, cominciò così a dire col viso rivolto verso il compagno, il quale similmente assiso in una pietra stava per rispondergli attentissimo.
ANNOTAZIONI
alla Prosa Duodecima.
Ma venuta la oscura notte ec. Questa descrizione della notte è presa in gran parte da quella di Virgilio nel Lib. iv. dell’Eneida:
Nox erat, et placidunt carpebant fessa soporem
Corpora per terras, silvaeque et saeva quierant
Æquora: cum medio volvuntur sidera lapsu,
Cum tacet omnis ager; pecudes pictaeque volucres,
Quaeque lacus late liquidos, quaeque aspera dumis
Rura tenent, somno positae sub nocte silenti
Lenibant curas, et corda oblita laborum.
L’Aurora già incominciava a rosseggiare ec. Virgilio nel Cab. xi. dell’En.:
Aurora interra miseris mortalibus almam
Extulerat lucem, referens opera atque labores.
E giunto con lei sopra il fiume ec. Queste idee sono similmente prese da Virgilio nel Lib. iv. della Georg., quando Cirene conduce il figliuolo Aristeo sotto il fiume Peneo;
. . . . . . Simul alta jubet discedere late
Flumina, qua juvenis gressus inferret: at illum
Curvata in montis faciem circumstelit unda,
Accepitque sinu vasto, misitque sub amnem.
Jamque domum mirans genitricis, et humida regna,
Speluncisque Incus clausos, lucosque sonantes,
Ibat; et ingenti motu stupefactus aquarum,
Omnia sub magna labentia flumina terra
Spectabat diversa locis etc.
Tanai, fiume in Moscovia; Danubio, fiume in Germania; Meandro, fiume in Frigia, famoso per le moltissime sue tortuosità, cosicchè il suo nome figuratamente s’adopra per dire tortuosità, e giro obliquo. — Peneo, fiume in Tessaglia, che nasce dal monte Pindo. Egli è detto vecchio, perchè è figliuolo dell’Oceano, il quale si chiama padre di tutte le cose, come abbiamo sopra dimostrato in un’Annotazione alla Prosa Decima pag. 145. Caistro, fiume in Lidia. — Acheloo, fiume in Grecia. Eurota, fiume in Laconia. Beato vien egli detto, perchè udì il canto d’Apollo, mentre essendo egli innamorato di Jacinto, fanciullo Spartano, si stava lungo quelle ripe; il che è imitato da Virgilio nell Egloga vi.
Omnia quae, Phoebo quondam, meditante, beatus
Audiit Eurotas.
Ometto di parlare del Tevere, e del suo essere coronato di
lauri, per essere cose troppo note e chiare. — Liri, o Garigliano,
fiume che separa la Campagna di Roma dalla Terra
di Lavoro. — Vulturno, o Volturno, fiume in Terra di Lavoro.
— Sebeto; vedi il fine della prima Annotazione all’Egloga
Decima pag. 154.
Lo innamorato Alfeo ec. Il Dio del fiume Alfeo, che scorre per Arcadia, chiamato similmente Alfeo, avendo veduto Aretusa, figliuola di Nereo e di Doride, Ninfa di Diana che tornando da cacciare bagnavasi nell’acque di esso fiume, se ne invaghì, e corse per abbracciarla; ma ella sì frettolosamente fuggì, che forte sudando, si convertì in un fonte. Diana mossa a compassione di lei, le aperse la terra, dove entrò l’acqua, e sotto terra corse fino in Sicilia, senza punto mescolarsi col mare. Non restò per questo Alfeo di seguirla; ma ridottosi in fiume le tenne dietro fino in Sicilia.
Le pene de’ fulminati Giganti ec. Non parlo della favola de’ Giganti, nè della loro caduta, sì perchè ella è notissima, come perchè nel testo medesimo di questa Prosa è bastevolmente spiegata. Trinacria è la stessa isola che la Sicilia; cotal nome è un composto Greco che vale tre sommità, essendo di fatto in quell’isola tre promontori, il Peloro, il Pachino, il Lilibeo. Enaria, o Tschia, altrimenti detta anche Inarime, e Pitecusa, è un’isoletta nel seno di Napoli, così chiamata dalla stazione, che vi fecero le navi di Ènea. Pompei, città, che non era molto lontana dal monte Vesevo, le cui rovine che di mano in mano si discoprono, sono preziosissime agli Artisti, ed a tutti i saggi estimatori delle antichità. Al dir di Solino ella fu fondata da Ercole, ed ebbe il suo nome dalla pompa, con cui quell’Eroe aveva quivi di Spagna condotto i buoi. Venne dalla terra inghiottita a’ tempi di Nerone; su di che, se più brami, vedi il Lib. 15 delle Storie di Cornelio Tacito. Era le varie eruzioni del monte Vesevo è celebre anche quella, che intervenne, regnando Tito Vespasiano, coma scrive Svetonio nella vita di questo Imperatore. Per essa fece Marziale il seguente Epigramma xliv. del Lib. iv., nel quale il Poeta fa un’adombramentazione di Pompei.
De Vesvio Monte
Hic est pampineis viridis modo Vesvius umbris:
Presserat hic madidos nobilis uva lacus.
Haec juga, quam Nyssae colles, plus Bacchus amavit:
Hoc nuper Satyri monte dedere choros.
Haec Veneris sedes, Lacedaemone grattar illi:
Hic locus Herculeo nomine clarus erat.
Cuncta jacent flammis, et tristi mersa favilla;
Nec Superi vellenl hoc licuisse sibi.
Trovai in terra sedere il venerando Iddio ec. Per questo Iddio intendi null’altro, se non che il fiume Sebeto, rappresentato sotto la forma d’un Dio. Virgilio similmente nel Lib. viii. dell’En. rappresentò il Tevero:
Huic Deus ipse loci, fluvio Tyberinus amoeno,
Populeas inter senior se attollere frondes
Visus. Eum tenuis glauco velabat amictu
Carbasus, et crines umbrosa tegebat arando.
La bellezza dell’alto tugurio ec. Linterno, dove il gran bifolco Africano, cioè Scipione, si ritirò abbandonando Roma, come ingrata al suo valore, col quale era stato rettore di tanti armenti, cioè di tanti eserciti. Il Sansovino. Vedi l’Annotazione alla Prosa Settima pag. 79. — Anfione fu figliuolo di Giove, o secondo altri di Mercurio, dal quale avendo ricevuto la lira, sì soavemente la sonò, che trasse i sassi per edificare le mura della città di Tebe.
Barcinio, e Summonzio furono due letterati Napolitani, amicissimi del Sanazzaro. L’Anonimo che fa le Note alla vita dei Sanazzaro scritta dal Crispo, dice che Pietro Summonzio, o Summonte, eruditissimo stampatore, era dell’Accadema del Pontano, ed il Manuzio di Napoli. Di fatto il Summonzio pel grande amore verso gli amici stampò Opere stimatissime di varj insigni Letterati della detta Accademia. Laonde meritamente fu egli encomiato dai Sanazzaro col seguente Epigramma, ch’è il ix. del Lib. ii.
De Summontii pietate.
Excitat obstrictas tumulis Summontius umbras,
lmpleat ut sanctae munus amicitiae.
Utque prius vivos, sic et post fata sodales
Observat, Iristes et sedet ante rogos.
Nec tantum violas cineri, ac bene olentia ponit
Serta; sed et Incrirnis irrigat ossa piis.
Parva loquor: cultis reparat monumenta libellis,
Quum possint longam saxa timere diem.
At tu, vivaci quae fulcis nomina fama,
Poscenti gratas, Musa, repende vices:
Ut quoniam dulces optat sic vivere amicos;
Vivaiet in libris sit sacer ille meis.