Arcadia (Sannazaro)/Egloga XII
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EGLOGA DUODECIMA.
barcinio, summonzio, e meliseo.
Barcinio.
Qui cantò Meliseo, qui proprio assisimi
Quaud’ei scrisse in quel faggio: vidi io misero,
Vidi Filli morire, e non uccisimi.
Summonzio.
O pietà grande! E quali Dii permisero
A Meliseo venir fato tant’aspero?
Perchè di vita pria non lo divisero?
Barcinio.
Quest’è sol la cagione ond’io mi esaspero
Incontra ’l cielo; anzi m’indrago e invipero,
E via più dentro al cor m’induro e inaspero;
Pensando a quel che scrisse in un giunipero:
Filli, nel tuo morir morendo lassimi:
O dolor sommo a cui null’altro equipero!
Summonzio.
Questa pianta vorrei che tu mostrassimi,
Per poter a mia posta in quella piangere:
Forse a dir le mie pene oggi incitassimi.
Barcinio.
Mille ne son che qui vedere e tangere
A tua posta potrai: cerca in quel nespilo:
Ma destro nel toccar, guarda nol frangere.
Summonzio.
Quel biondo crine, o Filli, or non increspilo
Con le tue man, nè di ghirlande infiorilo;
Ma del mio lacrimar lo inerbi e incespilo.
Barcinio.
Volgi in qua gli occhi, e mira in su quel corilo:
Filli, deh non fuggir, ch’io seguo: aspettami;
Portane il cor, che qui lasciando accorilo.
Summonzio.
Dir non potrei quanto l’udir dilettami,
Ma cerca ben, se v’è pur altro arbuscolo;
Quantunque il mio bisogno altrove affrettami.
Barcinio.
Una tabella pose per munuscolo
In su quel pin: se vuoi vederla, or alzati;
Ch’io ti terrò su l’uno e l’altro muscolo.
Ma per miglior salirvi, prima scalzati,
E depon qui la pera il manto e ’l bacolo;
E con un salto poi ti apprendi, e sbalzati.
Summonzio.
Quinci si vede ben senz’altro ostacolo:
Filli, quest’alto pino io ti sacrifico:
Qui Diana ti lascia l’arco e ’l jacolo.
Questo è Fallar che in tua memoria edifico:
Quest’è ’l tempio onorato, e questo è il tumulo
In ch’io piangendo il tuo bel nome amplifico.
Qui sempre ti farò di fiori un cumulo;
Ma tu, se ’l più bel luogo il ciel destinati,
Non disprezzar ciò ch’in tua gloria accumulo.
Ver noi più spesso ornai lieta avvicinati;
E vedrai scritto un verso in su lo stipite:
Arbor di Filli io son; pastore, inclinati.
Barcinio.
Or che dirai, quand’ei gittò precipite
Quella sampogna sua dolce ed amabile,
E per ferirsi prese il ferro ancipite?
Non gìan con un suon tristo e miserabile,
Filli, Filli, gridando tutti i calami?
Che pur parve ad udir cosa mirabile.
Summonzio.
Or non si mosse da’ superni talami
Filli a tal suon? ch’io già tutto commovomi;
Tanta pietà il tuo dir nel petto esalami.
Barcinio.
Taci, mentre fra me ripenso, e provomi
Se quell’altre sue rime or mi ricordano,
Delle quali il principio sol ritrovomi.
Summonzio.
Tanto i miei sensi al tuo parlar s’ingordano,
Che temprar non li so: comincia, ajutati:
Che ai primi versi poi gli altri s’accordano.
Barcinio.
Che farai, Meliseo? morte refutati,
Poi che Filli t’ha posto in doglia e lacrime,
Nè più come solea lieta salutati.
Dunque, amici pastor, ciascun consacrime
Versi sol di dolor, lamenti e ritimi;
E chi altro non può, meco collacrime.
A pianger col suo pianto ognuno incitimi,
Ognun la pena sua meco comuniche;
Benchè ’l mio duol da se dì e notte invitimi.
Scrissi i miei versi in su le poma puniche,
E ratto diventar sorba e corbezzoli;
Sì son le sorti mie mostrose ed uniche.
E se per innestar li incido o spezzoli,
Mandan sugo di fuor sì tinto e livido,
Che mostran ben che nel mio amaro avvezzoli.
Le rose non han più quel color vivido,
Poi che ’l mio sol nascose i raggi lucidi,
Dai quai per tanto spazio oggi mi divido.
Mostransi l’erbe e i fior languidi e mucidi;
I pesci per li fiumi infermi e sontici;
E gli animai nei boschi incolti e sucidi.
Vegna Vesevo, e i suoi dolor raccontici:
Vedrem se le sue viti si lambruscano.
E se son li suoi frutti amari e pontici.
Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano
Le spalle sue con l’uno e l’altro vertice:
Forse pur novi incendj in lui coruscano.
Ma chi verrà che de’ tuoi danni accertice,
Mergillina gentil, che sì t’inceneri,
E i lauri tuoi son secche e nude pertice?
Antiniana, e tu perchè degeneri?
Perchè ruschi pungenti in te diventano
Quei mirti che fur già sì molli e teneri?
Dimmi, Nisida mia; così non sentano
Le rive tue già mai crucciata Dorida,
Nè Pausilippo in te venir consentano;
Non ti vid’io poc’anzi erbosa e florida,
Abitata da lepri, e da cuniculi?
Non ti veggi’ or più ch’altra incolta ed orida?
Non veggio i tuoi recessi e i di verticilli
Tutti cangiati; e freddi quelli scopuli,
Dove temprava amor suo’ ardenti spiculi?
Quanti pastor, Sebeto, e quanti populi
Morir vedrai di quei ch’in te s’annidano,
Pria che la riva tua s’inolmi o impopuli?
Lasso, già ti onorava il grande Eridano;
E ’l Tebro al nome tuo lieto inchinavasi:
Or le tue ninfe a pena in te si fidano.
Morta è colei ch’al tuo bel fonte ornavasi,
E preponea il tuo fondo a tutti i specoli;
Onde tua fama al ciel volando alzavasi.
Or vedrai ben passar stagioni e secoli,
E cangiar rastri stive aratri e capoli,
Pria che mai sì bel volto in te si specoli.
Dunque, miser, perchè non rompi e scapoli
Tutte l’onde in un punto, ed inabissiti;
Poi che Napoli tua non è più Napoli?
Questo dolore, oimè, pur non predissiti
Quel giorno, o patria mia, ch’allegro ed ilare
Tante lode cantando in carta scrissiti.
Or vo’ che ’l senta pur Vulturno e Silare,
Ch’oggi sarà fornita la mia fabula,
Nè cosa verrà mai, che ’l cor mi esilare;
Nè vedrò mai per boschi sasso o tabula,
Ch’io non vi scriva Filli; acciocchè piangane
Qualunque altro pastor vi pasce o stabula.
E se avverrà ch’alcun che zappe o mangane,
Da qualche fratta, ov’io languisca, ascoltemi,
Dolente e stupefatto al fin rimangane.
Ma pur convien che a voi spesso rivoltemi,
Luoghi, un tempo al mio cor soavi e lepidi,
Poi che non trovo ove piangendo occollemi.
O Cuma, o Baja, o fonti ameni e tepidi,
Or non fia mai che alcun vi lodi o nomini,
Che ’l mio cor di dolor non sudi e trepidi.
E poi che morte vuol che vita abbomini,
Quasi vacca che piange la sua vitula
Andrò nojando il ciel la terra e gli uomini.
Non vedrò mai Lucrino, Averno, e Tritula,
Che con sospir non corra a quell’ascondita
Valle, che dal mio sogno ancor s’intitula.
Forse qualche bell’orma ivi recondita
Lasciar quei santi piè, quando fermarosi
Al suon della mia voce aspra ed incondita.
E forse i fior che lieti allor mostrarosi,
Faran gir i miei sensi enfiati e tumidi
Dell’alta vision ch’ivi sognarosi.
Ma come vedrò voi, ardenti e fumidi
Monti, dove Vulcan bollendo insolfasi,
Che gli occhi miei non sian bagnati ed umidi?
Perocchè, ove quell’acqua irata ingolfasi,
Ove più rutta al ciel la gran voragine,
E più grave l’odor ridonda ed olfasi;
Veder mi par la mia celeste immagine
Sedersi, e con diletto in quel gran fremito
Tener l’orecchie intente alle mie pagine.
O lasso, o dì miei volti in pianto e gemito!
Dove viva la amai, morta sospirola,
E per quell’orme ancor m’indrizzo e insemito.
Il giorno sol fra me contemplo, e mirola,
E la notte la chiamo a gridi altissimi;
Tal che sovente in fin qua giù ritirola.
Sovente il dardo ond’io stesso trafissimi.
Mi mostra in sogno entro i begli occhi, e dicemi:
Ecco il rimedio de’ tuoi pianti asprissimi.
E mentre star con lei piangendo licemi,
Avrei poter di far pietoso un aspide;
Sì cocenti sospir dal petto elicemi.
Nè grifo ebbe già mai terra Arimaspide
Sì crudo, oimè, ch’al dipartirsi subito
Non desiasse un cor di dura jaspide.
Ond’io rimango in sul sinistro cubito
Mirando, e parmi un sol che splenda e rutile;
E così verso lei gridar non dubito:
Qual tauro in selva con le corna mutile,
E quale arbusto senza vite o pampino,
Tal son io senza te, manco e disutile.
Summonzio.
Dunque esser può che dentro un cor si stampino
Sì fisse passion di cosa mobile,
E del foco già spento i sensi avvampino?
Qual fiera sì crudel, qual sasso immobile
Tremar non si sentisse entro le viscere
Al miserabil suon del canto nobile?
Barcinio.
E’ ti parrà che ’l ciel voglia dehiscere,
Se sentrai lamentar quella sua citara,
E che pietà ti roda, amor ti sviscere:
La qual, mentre pur Filli alterna ed itera,
E Filli i sassi, i pin Filli rispondono,
Ogni altra melodia dal cor mi oblitera.
Summonzio.
Or dimmi, a tanto umor che gli occhi fondono,
Non vide mover mai lo avaro carcere
Di quelle inique Dee che la nascondono?
Barcinio.
O Atropo crudel, potesti parcere
A Filli mia, gridava, o Cloto, o Lachesi,
Deh consentite omai ch’io mi discarcere.
Summonzio.
Moran gli armenti, e per le selve vachesi;
In arbor fronda, in terra erba non pulule;
Poi che è pur ver che ’l fiero ciel non plachesi.
Barcinio.
Vedresti intorno a lui star cigni ed ulule,
Quando avvien che talor con la sua lodola
Si lagne; e quella a lui risponda ed ulule.
Ovver quando in su l’alba esclama, e modola:
Ingrato sol, per cui ti affretti a nascere?
Tua luce a me che vai, s’io più non godola?
Ritorni tu, perch’io ritorne a pascere
Gli armenti in queste selve? o perchè struggami?
O perchè più ver te mi possa irascere?
Se ’l fai ch’al tuo venir la notte fuggami,
Sappi che gli occhi usati in pianto e tenebre
Non vo che ’l raggio tuo rischiare, o suggami.
Ovunque miro, par che ’l ciel si ottenebre:
Che quel mio sol che l’altro mondo allumina,
E or cagion ch’io mai non mi distenebre.
Qual bove all’ombra che si posa e rumina,
Mi stava un tempo, ed or lasso abbandonomi,
Qual vite che per pal non si statumiua.
Talor mentre fra me piango e ragionomi,
Sento la lira dir con voci querule:
Di lauro, o Meliseo, più non coronomi.
Talor veggio venir frisoni e merule
Ad un mio roscigniuol che stride e vocita:
Voi meco, o mirti, e voi piangete, o ferule.
Talor d’un’alta rupe il corbo crocita:
Absorbere a tal duolo il mar devrebbesi,
Ischia, Capri, Ateneo, Miseno, e Procita.
La tortorella ch’al tuo grembo crebbesi,
Poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano
Secco, ch’in verde già non poserebbesi;
E dice: ecco che i monti già s’incalvano:
O vacche, ecco le nevi e i tempi nubili:
Qual ombre o qua’ difese omai vi salvano?
Chi fia che udendo ciò mai rida o giubili?
E’ par che i tori a me muggendo dicano:
Tu sei, che con sospir quest’aria annubili.
Summonzio.
Con gran ragion le genti s’affaticano
Per veder Meliseo; poichè i suoi cantici
Son tai, che ancor nei sassi amor nutricano.
Barcinio.
Ben sai tu, faggio, che coi rami ammantici,
Quante fiate ai suoi sospir movendoti,
Ti parve di sentir soffioni o mantici.
O Meliseo, la notte e ’l giorno infendoti,
E si fissi mi stan gli accenti e i sibili
Nel petto, che tacendo ancor comprendoti.
Summonzio.
Deh se ti cal di me, Barcinio, scribili,
A tal che poi mirando in questi cortici,
L’un arbor per pietà con l’altro assibili.
Fa che del vento il mormorar confortici:
Fa che si spandan le parole e i numeri;
Tal che ne soni ancor Resina, e Portici.
Barcinio.
Un lauro gli vid’io portar su gli umeri,
E dir: col bel sepolcro, o lauro, abbracciati,
Mentr’io semino qui menta e cucumeri.
Il cielo, o diva mia, non vuol ch’io tacciati;
Anzi, perchè ognor più ti onori e celebre,
Dal fondo del mio cor mai non discacciati.
Onde con questo mio dir non incelebre,
S’io vivo, ancor farò tra questi rustici
La sepoltura tua famosa e celebre.
E da’ monti toscani, e da’ ligustici
Verran pastori a venerar quest’angulo,
Sol per cagion che alcuna volta fustici.
E leggeran nel bel sasso quadrangulo
Il titol che a tutt’ore il cor m’infrigida,
Per cui tanto dolor nel petto strangulo.
QUELLA CHE A MELISEO SÌ ALTERA E RIGIDA
SI MOSTRÒ SEMPRE, OR MANSUETA ED UMILE
SI STA SEPOLTA IN QUESTA PIETRA FRIGIDA.
Summonzio.
Se queste rime troppo dir presumile,
Barcinio mio, tra queste basse pergole;
Ben veggio che col fiato un giorno allumile.
Barcinio.
Summonzio, io per li tronchi scrivo e vergole;
E perchè la lor fama più dilatesi,
Per longinqui paesi ancor dispergole.
Tal che farò che ’l gran Tesino, ed Atesi,
Udendo Meliseo, per modo il cantino,
Che Filli il senta, ed a se stessa aggralesi.
E che i pastor di Mincio poi gli piantino
Un bel lauro in memoria del suo scrivere;
Ancorchè del gran Titiro si vantino.
Summonzio.
Degno fu Meliseo di sempre vivere
Con la sua Filli, e starsi in pace amandola;
Ma chi può le sue leggi al ciel prescrivere?
Barcinio.
Solea spesso per qui venir chiamandola;
Or davanti un altare in su quel culmine
Con incensi si sta sempre adorandola.
Summonzio.
Deh, socio mio, se ’l ciel già mai non fulmine
Ove tu pasca, e mai per vento o grandine
La capannuola tua non si disculmine;
Qui sopra l’erba fresca il manto spandine,
E poi corri a chiamarlo in su quel limite;
Forse impetri che ’l ciel la grazia mandine.
Barcinio.
Più tosto, se vorrai che ’l finga ed imite,
Potrò cantar; che farlo qui discendere
Leggier non è, come tu forse estimite.
Summonzio.
Io vorrei pur la viva voce intendere
Per notar de’ suoi gesti ogni particola;
Onde, s’io pecco in ciò, non mi riprendere.
Barcinio.
Poggiamo or su ver quella sacra edicola;
Che del bel colle, e del sorgente pastino
Ei solo è il sacerdote, ed ei l’agricola.
Ma prega tu che i venti non tel guastino;
Ch’io ti farò fermar dietro a quei frutici,
Pur che a salir fin su l’ore ne bastino.
Summonzio.
Voto fo io, se tu, fortuna, ajutici,
Un’agna dare a te delle mie pecore,
Una alla Tempesta, che ’l ciel non mutici.
Non consentir, o ciel, ch’io mora indecore;
Che sol pensando udir quel suo dolce organo,
Par che mi spolpe, snerve, e mi disjecore.
Barcinio.
Or via; che i fati a buon cammin ne scorgano;
Non senti or tu sonar la dolce fistula?
Fermati omai, che i can non se ne accorgano.
Meliseo.
I tuoi capelli, o Filli, in una cistula
Serbati tegno, e spesso quand’io volgoli,
Il cor mi passa una pungente aristula.
Spesso gli lego, e spesso, oimè, disciolgoli;
E lascio sopra lor questi occhi piovere;
Poi con sospir gli asciugo, e ’nsieme accolgoli.
Basse son queste rime, esili e povere;
Ma se ’l pianger in cielo ha qualche merito,
Dovrebbe tanta fe morte commovere.
Io piango, o Filli, il tuo spietato interito;
E ’l mondo del mio mal tutto rinverdesi;
Deh pensa, prego, al bel viver preterito,
Se nel passar di Lete amor non perdesi.
ANNOTAZIONI
all’Egloga Duodecima.
Qui cantò Meliseo ec. Quasi tutta quest’Egloga, ch’è giustamente stimata più che tutte le altre così scritte in versi sdruccioli, è tratta dall’Egloga di Giovanni Pontano, intitolata Meliseus, nella quale quell’egregio Poeta sotto cotal nome pastorale fa che due Pastori, Cicerisco e Faburnu, narrino il dolore di lui medesimo per la morte della moglie. Amando la brevità, ometto di spiegare i nomi de’ luoghi, e de’ fiumi, che in quest’Egloga son nominati, sì perchè per la maggior parte basta il dire che son luoghi o fiumi delle vicinanze di Napoli; come perchè de’ più importanti ho già parlato altrove. Solo parmi necessario lo spiegare quelle parole: Nè grifo ebbe già mai terra Arimaspide sì crudo ec. Il paese de’ popoli detti Arimaspi era parte della Sarmazia Europea in Moscovia, che oggi comprende l’Ingria e ’l Ducato di Nowogorod e di Pleskow. Della crudeltà del Grifo, o Grifone, animale favoloso ma che nondimeno s’imaginò che colà si trovasse, ascoltiamo Plinio: Esse Scytharum genera, così egli ne riferisce nel Cap. II. del Lib. 7 della sua Storia Naturale, et quidem plura, quae corporibus humanis vescerentur, indicavimus. Id ipsum incredibile fortasse, ni cogitemus in medio orbe terrarum, ac Sicilia et Italia fuisse gentes hujus monstri, Cyclopas et Laestrygonas, et nuperrime trans Alpis hominem immolari gentium earum more solitum; quod paulum a mandendo abest. Sed et iuxta eos, qui sunt ad septentrionem versi, haud procul ab ipso aquilonis exortu specuque eius dicto, quem locum Gesclitron appellant, produntur Arimaspi, quos diximus, uno oculo in fronte media insignes: quibus adsidue bellum esse circa metalla cum grypis, ferarum volucri genere, quale vulgo traditur, eruente ex cuniculis aurum, mira cupiditate, et feris custodientibus, et Arimaspis rapientibus, multi, sed maxime inlustres Herodotus et Aristeas Proconnesius scribunt.