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Già mi rimembra cbe da cima un’elice
La sinistra cornice, oimè, predisselo;
Che ’l petto mi si fe’ quasi una selice.
Lasso, che la temenza al mio cor fisselo,
Pensando al mal che avvenne; e non è dubbio
Che la Sibilla nelle foglie scrisselo.
Un’orsa, un tigre han fatto il fier connubbio:
Deh perche non troncate, o Parche rigide,
Mia tela breve al dispietato subbio?
Pastor, la noce che con l’ombre frigide
Noce alle biade, or ch’è ben tempo, trunchesi
Pria che per anni il sangue si rinfrigide.
Non aspettate che la terra ingiunchesi
Di male piante, e non tardate a svellere,
Fin che ogni ferro poi per forza adunchesi.
Tagliate tosto le radici all’ellere:
Che se col tempo e col poder s’aggravano,
Non lasceranno i pini in alto eccellere.
Così cantava; e i boschi rintonavano
Con note, quai non so s’un tempo in Menalo,
In Parnaso o in Eurota s’ascoltavano.
E, se non fosse che ’l suo gregge affrenalo,
E tienlo a forza nell’ingrata patria,
Che a morte desiar spesso rimenalo;
Verrebbe a noi, lasciando l’idolatria,
E gli ombrati costumi al guasto secolo,
Fuor già d’ogni natia carità patria.
Ed è sol di virtù sì chiaro specolo,
Che adorna il mondo col suo dritto vivere;
Degno assai più, ch’io col mio dir non recolo.
Beata terra che ’l produsse a scrivere,
E i boschi, ai quai sì spesso è dato intendere
Rime, a chi ’l ciel non pote il fin prescrivere!