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Questo non intes’io; ma quei fatidici
Pastor mel fer poi chiaro, e mel mostrarono;
Tal ch’io gli vidi nel mio ben veridici.
Indi incantar la luna m’insegnarono,
E ciò che in arte maga al tempo nobile
Alfesibeo e Meri si vantarono.
Nè nasce erbetta sì silvestra e ignobile,
Che ’n quelle dotte selve non conoscasi,
E quale stella è fissa, e qual è mobile.
Quivi la sera, poi che ’l ciel rinfoscasi,
Certa l’arte Febea con la Palladia,
Che non ch’altri, ma Fauno a udir rimboscasi.
Ma a guisa d’un bel sol fra tutti radia
Caracciol, che ’n sonar sampogne o cetere
Non troverebbe il pari in tutta Arcadia.
Costui non imparò potare o mietere,
Ma curar greggi dalla infetta scabbia,
E passion sanar maligne e vetere.
Il qual un dì per isfogar la rabbia,
Così prese a cantar sotto un bel frassino,
lo fìscelle tessendo, egli una gabbia.
Provveda il ciel, che qui ver noi non passino
Malvagie lingue; e le benigne fatora
Fra questi armenti respirar mi lassino.
Itene, vaccarelle, in quelle pratora;
Acciocchè, quando i boschi e i monti imbrunano,
Ciascuna a casa ne ritorne satora.
Quanti greggi ed armenti, oimè, digiunano
Per non trovar pastura; e delle pampane
Si van nudrendo che per terra adunano!
Lasso, ch’appena di mill’una campane;
E ciascun vive in tanta estrema inopia,
Che ’l cor per doglia sospirando avvampane.
Ringrazie dunque il ciel qualunque ha copia
D’alcun suo bene in questa vil miseria,
Che ciascun caccia dalla mandra propia.