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EGLOGA DECIMA.

selvaggio, e fronimo.


Selvaggio.

Non son, Fronimo mio, del tutto mutole,
Com’uom crede, le selve; anzi risonano,
Tal che quasi all’antiche egual reputole.

Fronimo.

Selvaggio, oggi i pastor più non ragionano
Dell’alme muse, e i più non pregian naccari,
Perchè per ben cantar non si coronano.
E sì del fango ognun s’asconde i zaccari,
Che tal più pute, ch’ebuli ed abrotano,
E par che odore più che ambrosia e baccari.
Ond’io temo gli Dii non si riscotano
Dal sonno, e con vendetta ai buoni insegnino,
Sì come i falli de’ malvagi notano.
E s’una volta avvien che si disdegnino,
Non fia mai poi balen nè tempo pluvio,
Che di tornar al ben pur non s’ingegnino.

Selvaggio.

Amico, io fui tra Baje, e ’l gran Vesuvio
Nel lieto piano, ove col mar congiungesi
Il bel Sebeto accolto in picciol fluvio.
Amor che mai dal cor mio non disgiungesi,
Mi fe’ cercare un tempo strane fiumora,
Ove l’alma pensando ancor compungesi.
E s’io passai per pruni ortiche e dumora,
Le gambe il sanno; e se timor mi pusero
Crudi orsi, dure genti, aspre costumora.
Al fin le dubbie sorti mi rispusero:
Cerca l’alta Cittade ove i Calcidici
Sopra il vecchio sepolcro si confusero.