Arabella/Parte terza/8
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VIII.
La vita è una trappola
Don Giosuè stava cenando tutto solo in canonica con un boccone di merluzzo e un’unghia di formaggio, quando entrarono a dirgli che il signor Tognino era in punto di morte e desiderava parlargli.
— Parlare a me? in punto di morte? il sor Tognino?
Non volle credere, finchè non gli fu mostrato un biglietto d’Arabella, figlia di parenti che egli non aveva mai voluto riconoscere, ma della quale il prevosto gli diceva un mondo di bene.
Lasciò il merluzzo, prese cappa e cappello e uscì dietro all’uomo del biglietto, mentre già incominciava a imbrunire.
Strada facendo, sentì che trattavasi di un mezzo colpo apoplettico.
«Anche lui! ma non aveva fatto un patto col diavolo?»
— La vita è una trappola — finì col conchiudere, riassumendo in un’immagine chiara e succinta tutta l’essenza antropologica della poca filosofia imparata in Seminario. — Dio non paga il sabato, ma il sor Tognino non aveva visto nemmeno il lunedì, se questo avviso non era uno scherzo. La roba rubata gli era rimasta lì, al pomo di Adamo. E se si doveva credere che aveva desiderato di vedere un prete, e tra i preti proprio lui, don Giosuè, anche questo poteva essere un segno di resipiscenza, effetto del dito di Dio, di quel tal dito lungo che arriva dappertutto...
Giunto in via Torino, fu accompagnato di sopra, dove si trovò in mezzo ai parenti raccolti in una stanza semibuia, in un sommesso complotto. C’erano i Borrola, c’era il notaio Baltresca, c’erano delle signore, molta gente nell’ombra, su per le scale, in anticamera.
Il malato era stato per il momento collocato nel letto degli sposi, perchè il caso grave non permetteva di trasportarlo nelle sue stanze. A nome dei parenti l’impresario cav. Borrola tirò in disparte il prete e gli fece capire che bisognava far fare al moribondo qualche dichiarazione: e per questo i parenti desideravano che il malato fosse assistito da un sacerdote di confidenza che sapesse le cose: e stava per dire il mestiere. Ma il momento era troppo solenne perchè il libero pensatore cav. Mauro Borrola osasse fare dell’intransigenza. Quando è in giuoco quasi un mezzo milione, c’è posto per la bottega di tutti.
Il povero signor Tognino giaceva nel letto degli sposi (chi gliel’avrebbe detto?) col capo fasciato di ghiaccio, colla testa rossa e congestionata, colla pelle del viso tesa e lucida, l’occhio spento, il respiro corto e pesante, il muso sporgente in una espressione di dispetto.
Il canonico, abituato a strologare sui malati, capì subito che il brav’uomo aveva bell’e goduta la sua eredità. La farina del diavolo... — Ma si affrettò a suscitare contro le insidiose suggestioni dell’orgoglio e dell’interesse mondano un senso cristiano di carità e di mansuetudine, che non mancava nell’animo del vecchio prete burbero e arruffato, ma ci stava come un vecchio orologio guasto, che da quarant’anni non segnava le ore.
Si accostò al letto, provò a prendere e a stringere la mano dell’infermo: si chinò sul cuscino, e ammorbidendo la voce a un tono di tenerezza, a un belato di vecchia pecora, che a lui stesso parve una canzonatura, provò a chiamare:
— Sor Tognino...
Il malato aprì stentatamente gli occhi, li tenne fissi un pezzo col barlume confuso del moribondo nella faccia rugosa e intrigata del canonico, diè segno di ravvisare e di capire: e li richiuse con una languida espressione di dolore e d’impotenza. La lingua ingrossata non potè articolare sillaba.
Anche il prete nel mezzo minuto che stette a guardare negli occhi il suo dannato avversario, sentì qualche cosa d’insolito muoversi di dentro, sotto il peso dei giudizi fatti: e il malinconico paragone della trappola tornò a balenargli nella fantasia. Il vecchio orologio guasto mandò dei rantoli.
— Il caso è grave, senza dubbio... — disse nell’uscire ai parenti che lo circondarono.
— È necessario ch’egli metta in ordine i suoi interessi — tornò a insistere il cav. Borrola.
— Sicuro, tutti più o meno ci siamo implicati — entrò a dire il Botola, che proprio quella mattina, facendo uso della carta bianca concessagli dal Maccagno, aveva anticipato dei denari a Olimpia.
— Don Giosuè — riprese l’impresario — coll’autorità morale del ministro di Dio veda di raccogliere qualche preziosa confessione o dichiarazione o assentimento a proposito dell’eredità Ratta.
— Io non sono della parrocchia e non posso ingerirmi. Si potrebbe avvertire subito don Felice, il prevosto, o l’avvocato.
— Allora non perdiamo tempo — disse l’impresario: — lei vada a parlar coll’avvocato; io corro a chiamare il confessore.
Sulla porta era raccolto un mucchietto di gente, che tempestavano di domande la portinaia. Vedendo uscir don Giosuè, gli furono intorno come mosconi.
«Una trappola, una trappola» — seguitò un pezzo a ripetere in cuor suo il canonico, camminando tutto ricurvo, nel suo vecchio mantello, senza veder la gente che gli veniva incontro. — «Colla morte non si scherza, figliuoli. È la gran ragioniera che accomoda i conti con un bel colpo di falce, zac, trac, che non guarda in faccia a nessuno, nè al grasso nè al magro, nè al povero, nè al ricco, nè al lupo, nè alla pecora, nè al cristiano, nè all’ebreo. È la grande liquidazione, il gran ribasso, e per molti il fallimento con bancarotta. Non si capisce come ci sia della gente attaccata alla roba, alla vanità, alla carne, quando dietro l’uscio c’è sempre la gran Secca che aspetta col falcetto in mano. Ma siam tutti così: l’orgoglio ci inasinisce tutti a una maniera. Statue di fango su piedestalli di superbia!...»
E come se una misteriosa mano facesse scattare una sveglia, che da quarant’anni non suonava più nel vecchio orologio, don Giosuè Pianelli, coll’immagine del sor Tognino sotto gli occhi, stentò a dormire quella notte. — «Una trappola!»
Il Botola, preoccupato anche lui di piccoli affari mondani, non potendo far parlare il padre, andò in cerca del figlio.
Lorenzo, dopo la brutta scena con suo padre, avvilito, amareggiato, conturbato la prima volta in vita sua da un dispetto vero e profondo, sentendosi debole e incapace di continuare in una lotta disuguale contro un uomo più forte di lui, disgustato fortemente anche per compassione di Arabella, ch’egli giudicava strumento e vittima in mano di suo padre, non sapendo dove andare e che cosa fare della sua vita indebitata, senza babbo e senza moglie, si lasciò trascinare dall’abitudine al Piccione-Club, dove trovò Max, che lo condusse a far colazione al Cova. Mangiarono dell’orso, affogandolo nel medoc. Dal Cova, col di Brienne e con Max, fece una visita alle attrici del teatro Pezzana, un baraccone di legno, impeciato e spalmato di peccati mortali. Tornò al club, cacciò il capo nella sala di scherma, soffermandosi prima dal Campari a ingoiare un assenzio; per antipasto vinse una dozzina di lire a Max in una serie di piccole partite a scopa, finchè venne l’ora di andare a pranzo.
Noleggiata una vettura si fecero trascinare alla Cagnola, dove il falso barolo e il falso marsala finirono coll’affogare un’anatra che l’oste servì per selvatica.
Il Botola, dopo averlo cercato inutilmente al club, al caffè, da Olimpia, dal Campari e perfino in Borsa, fu abbastanza fortunato di trovarlo verso le dieci e mezzo, solo, davanti a un bicchierino di cognac, seduto a un tavolino del caffè Biffi, quasi nel mezzo della Galleria, raccolto come un filosofo pessimista a meditare sulla caducità delle cose umane.
Non fu troppo agevole per il vecchio pignoratario di fargli intendere la brutta notizia. Il médoc, il marsala, il cognac, l’orso e l’anatra della Cagnola combattevano una strana battaglia contro lo stomaco, mandando aliti e fumi e vertigini al povero cervello.
Pieno e indurito come una botte, della gran lotta della vita non gli restava che un senso o per dir meglio una reminiscenza dolorosa in fondo a quel resto di memoria che sornotava al vino e al cognac, simile al dolore d’un dente strappato male, che lascia in bocca l’impressione di un’immensa caverna.
Attraversando con rapide vertigini le scene della sera prima, della notte in casa del pignoratario, del suo incontro con papà, delle male parole dette e udite, uscivano come da un miscuglio oscuro di sensazioni le immagini più vive e chiare di Olimpia e di Arabella, le vedeva cozzar tra loro, alzava una mano per separarle, mormorando parole che arrestavano i passanti, finchè crollando il capo, rideva anche lui, facendo ridere la gente col ritornello dell’Ara bell’Ara discesa Cornara... — una fanfaluca fanciullesca, che gli tornava sulla bocca per un travaso di sensazioni lontane e recondite.
— Sono due ore che ti cerco per mare e per terra — disse il Botola — vieni, tuo padre sta male a morire.
— Il padrone sono io... — declamò tragicamente l’ubbriaco, tirando un filo delle sue scompigliate reminiscenze.
— Fossi almeno padrone delle tue gambe. È una disgrazia che tu non intenda la ragione in questo momento. Tuo padre è agonizzante, muore, hai capito? vieni a casa.
Il vecchio cercò con forti scrolli di fargli entrare quest’idea, che come un lume attraverso le fessure d’una porta chiusa, mentre metteva l’ubbriaco in sospetto e in pensiero di qualche cosa di strano al di fuori, non bastava a dargli l’idea della cosa e la forza d’aprire.
— Il padrone sono...
— Sì, sì, domani sarai padrone di tutto. Adesso vieni a casa.
E cercò di sollevarlo e di condurlo via. Lorenzo non fece resistenza, e continuando a ripetere la gran ragione che il padrone era lui, si lasciò tirare fino a una vettura e trasportare a casa. Ai piedi delle scale parve al Botola di scorgere negli occhi molli dello schiamazzone un barlume di malinconia, quasi una tristezza paurosa e scontrosa e colse il momento per dirgli di nuovo che suo padre era in punto di morte. E vide allora da quegli occhi annebbiati sgorgare lentamente e scorrere sulla pelle infocata due piccole lagrime, anch’esse del colore del cognac.
Dal pianerottolo per un breve ballatoio aperto si passava alle scale di servizio. Il Botola condusse al buio Lorenzo per di lì, lo attaccò colle mani alla inferriata e gli disse:
— Non muoverti.
E lo lasciò a meditare al fresco, al lume delle stelle. Quando gli parve il momento, lo menò nella stanza del moribondo. Era quasi mezzanotte. Una piccola lucerna nascosta da un paravento rompeva a mala pena le tenebre. Nella stretta, accoccolata sul tappeto, stava Arabella. L’infermo respirava affannosamente con frequenti urti di rantoli.
Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l’aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e dell’indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi torbidi contorni di un sogno greve e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando Arabella, che s’era abbandonata un istante a un lento torpore.
Da tre giorni anch’essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d’uomini e di cose, un sentimento nuovo, vago, indefinito, l’assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d’un dolore o di una paura positiva, ma che produceva anche in lei l’effetto di una ubbriacchezza strana.
Suo suocero nelle poche righe scritte coll’agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll’avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi e dei morti.
Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di carità, specialmente se chi muore ci lascia nelle mani il suo pentimento. Nulla fa tanto bene a chi va al di là come una buona speranza. E perciò Arabella spiava e aspettava il momento che il moribondo si risvegliasse dal suo torpore per dargli un affidamento che la pace sarebbe stata fatta. La raccomandazione, che il vecchio peccatore aveva scritto e affidato alla sua clemenza, se la sentiva quasi ardere nel cuore. In quest’attesa, in questo zelo pio e disinteressato di un bene supremo e urgente, ogni altra questione, ogni altro male più remoto diventava oscuro e secondario. Essa dimenticava sè stessa, il suo stato di donna avvilita e tradita, quel che era stato ieri, quel che avrebbe dovuto essere domani.
Sei giorni durò l’agonia, durante la quale la fibra forte e resistente contrastò a oncia a oncia il terreno alla morte.
L’infermo non risvegliavasi che a brevi e a rapidi intervalli di conoscenza: e allora l’occhio estinto girava lentamente intorno in cerca di qualche cosa, soffrendo di non trovarla; e solamente quando incontravasi nel volto pallido di Arabella, quell’occhio pareva rischiararsi di una luce più serena, approfondirsi in un pensiero, parlare, sorridere....
Durante quei lunghi giorni e quell’eterne notti, Arabella non si tolse i vestiti d’addosso. Quando il corpo rotto e indolenzito dalle fatiche invocava il riposo, andava a buttarsi sul divanetto del salottino e subito il sonno la sottraeva alle pene della realtà. Era un sonno senza visioni, chiuso, dal quale usciva ristorata per dare il cambio all’Augusta, che con lei vegliava l’infermo.
Lorenzo si moveva intorno a lei, la rasentava, arrestavasi dietro di lei in un silenzio quasi supplichevole; ma essa sforzavasi di non vederlo; o non ascoltava le sue parole, se non come si ascolta uno sconosciuto mal vestito, che ci siede vicino durante un viaggio noioso.
Gente andava e veniva per la casa ad ogni ora, di giorno e di notte. Mamma Beatrice rimase colla figliuola. La zia Sidonia, messo in disparte il risentimento, trovò modo di collocarsi nello studio di Lorenzo, e rimase anche lei in attesa d’una catastrofe, che scompigliava le ire, le furie, i progetti, le speranze, i propositi nel cuore di molta gente interessata e già legata in un’azione comune. Un treno in moto e spinto a grande velocità non urta contro un muro senza dare una scossa a chi viaggia. Così avviene delle idee che urtano in una contraddizione.
L’avvocato, don Giosuè, i Borrola, i Ratta, e gli altri tutti, che avevano un interesse nella causa contro un uomo vivo, non sapevano rifare sopra un uomo morto una procedura e un’azione che contentasse tutti i gusti; al punto che, se molti risero e trionfarono di vedere un ladro e un birbone punito dalla mano di Dio, molti altri, e tra questi l’Angiolina, rimasero sulle prime scornati e dispiacenti, quasi che Tognino, col morire tutto a un tratto, avesse voluto giocare un ultimo tiro da furbo ai diseredati.
Le probabilità eran molte: o aveva fatto testamento o non aveva fatto testamento; o aveva nominato Lorenzo erede universale, o aveva lasciato delle disposizioni capricciose, chiamando a parte della sostanza Ratta qualche pia istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Nè don Giosuè, nè don Felice avevan potuto cavare da quella bocca chiusa, inchiodata dal male, una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice, aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti...
La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta.
Se questa circostanza d’una nuova carta aveva un valore, c’era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio, presso l’avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare di furbi che facevan gli ingenui, e di ingenui che si lusingavano d’essere più avveduti dei furbi.
Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro disprezzo a questa nuova contraddanza di interessi intorno a un letto di morte: e mentre veniva meno nel suo cuore la stima verso gli uomini, parevale che, in mezzo a tante maschere, il morente fosse il più semplice e il più naturale. La morte, se non altro, è sincera.
L’ultima notte l’infermo dormiva di quel sonno chiuso e pesante, che non è ancora la morte, ma già non è più il patimento, quando a un tratto parve ad Arabella, che vegliava sola accanto al letto, imbacuccata in un suo scialle, nell’ombra densa dei mobili, che il malato alzasse una mano e chiamasse.
Si mosse, si accostò, abbassò la testa e nominando Gesù e Maria, pronunciò qualche frase di consolazione. Egli mosse con un supremo sforzo la testa, e afferrata la mano della nuora, la strinse con un fuggevole vigore, mandando fuori delle parole sconnesse, che parevano gemiti.
Cercando d’interpretare i monosillabi di quel confuso discorso, essa suggerì delle questioni, a ciascuna delle quali l’infermo rispose con una leggiera stretta di mano. «Voleva che i parenti gli perdonassero? era pentito? era rassegnato alla volontà di Dio?» e altre di quelle frasi che si prestano volentieri ai morenti negli estremi dibattiti, quando la nostra ragione è chiamata a pensare per una ragione che fugge.
Il signor Tognino rispose sempre di sì; ma una parola più forte delle altre insisteva a ritornare e a sornotare in quel suo sconnesso monologo, che Arabella non sapeva ricomporre e interpretare. Una volta uscì il nome di Ferruccio.
— Me lo raccomanda? non lo abbandoneremo...
L’occhio dell’infermo rispose con un lungo raggio di benevolenza. Poi a un tratto la fronte si oscurò come sotto a un nuvolo di tristezza. Con un ultimo sforzo nominò la Marietta... ma Arabella non afferrò il senso di quelle ultime voci fioche e singhiozzanti. Era l’agonia.
Il signor Tognino Maccagno morì tranquillamente nelle prime ore d’una bella mattina d’aprile.