— 380 —

— Don Giosuè — riprese l’impresario — coll’autorità morale del ministro di Dio veda di raccogliere qualche preziosa confessione o dichiarazione o assentimento a proposito dell’eredità Ratta.

— Io non sono della parrocchia e non posso ingerirmi. Si potrebbe avvertire subito don Felice, il prevosto, o l’avvocato.

— Allora non perdiamo tempo — disse l’impresario: — lei vada a parlar coll’avvocato; io corro a chiamare il confessore.

Sulla porta era raccolto un mucchietto di gente, che tempestavano di domande la portinaia. Vedendo uscir don Giosuè, gli furono intorno come mosconi.



«Una trappola, una trappola» — seguitò un pezzo a ripetere in cuor suo il canonico, camminando tutto ricurvo, nel suo vecchio mantello, senza veder la gente che gli veniva incontro. — «Colla morte non si scherza, figliuoli. È la gran ragioniera che accomoda i conti con un bel colpo di falce, zac, trac, che non guarda in faccia a nessuno, nè al grasso nè al magro, nè al povero, nè al ricco, nè al lupo, nè alla pecora, nè al cristiano, nè all’ebreo. È la grande liquidazione, il gran ribasso, e per molti il fallimento con bancarotta. Non si capisce come ci sia della gente attaccata alla roba, alla vanità, alla carne, quando dietro l’uscio c’è sempre la gran Secca che aspetta col falcetto in mano. Ma siam tutti così: l’orgoglio ci inasinisce tutti a una maniera. Statue di fango su piedestalli di superbia!...»