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Ratta qualche pia istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Nè don Giosuè, nè don Felice avevan potuto cavare da quella bocca chiusa, inchiodata dal male, una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice, aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti...
La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta.
Se questa circostanza d’una nuova carta aveva un valore, c’era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio, presso l’avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare di furbi che facevan gli ingenui, e di ingenui che si lusingavano d’essere più avveduti dei furbi.
Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro