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— Sono due ore che ti cerco per mare e per terra — disse il Botola — vieni, tuo padre sta male a morire.

— Il padrone sono io... — declamò tragicamente l’ubbriaco, tirando un filo delle sue scompigliate reminiscenze.

— Fossi almeno padrone delle tue gambe. È una disgrazia che tu non intenda la ragione in questo momento. Tuo padre è agonizzante, muore, hai capito? vieni a casa.

Il vecchio cercò con forti scrolli di fargli entrare quest’idea, che come un lume attraverso le fessure d’una porta chiusa, mentre metteva l’ubbriaco in sospetto e in pensiero di qualche cosa di strano al di fuori, non bastava a dargli l’idea della cosa e la forza d’aprire.

— Il padrone sono...

— Sì, sì, domani sarai padrone di tutto. Adesso vieni a casa.

E cercò di sollevarlo e di condurlo via. Lorenzo non fece resistenza, e continuando a ripetere la gran ragione che il padrone era lui, si lasciò tirare fino a una vettura e trasportare a casa. Ai piedi delle scale parve al Botola di scorgere negli occhi molli dello schiamazzone un barlume di malinconia, quasi una tristezza paurosa e scontrosa e colse il momento per dirgli di nuovo che suo padre era in punto di morte. E vide allora da quegli occhi annebbiati sgorgare lentamente e scorrere sulla pelle infocata due piccole lagrime, anch’esse del colore del cognac.

Dal pianerottolo per un breve ballatoio aperto si passava alle scale di servizio. Il Botola condusse al buio Lorenzo per di lì, lo attaccò colle mani alla inferriata e gli disse: