Arabella/Parte terza/9

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IX.


I fiori del bene.


Un modesto cartello sulla porta della chiesa raccomandò alla misericordia di Dio l’anima d’un uomo «morto beneficando nell’ancor verde età di anni 63.»

Al funerale accorsero quasi tutti i parenti e le persone che avevano avuto col defunto qualche rapporto di buona o cattiva amicizia. Don Felice e don Giosuè persuasero gli animi più irritati a deporre davanti a un cataletto i vecchi rancori e a sperare in un amichevole aggiustamento, del quale fu per desiderio della signora Arabella incaricato lo stesso avvocato Baruffa.

Prove positive che il defunto avesse carpito un testamento nessuno le possedeva. Il continuare in una causa senza fondamento pareva ai più una faccenda arrischiata. L’idea della conciliazione e di un aggiustamento persuase di più. Si diceva che a Lorenzo il vecchio padre sdegnato non avesse lasciata che la parte legittima della sostanza Maccagno; e che il resto, comprese le case e i fondi di provenienza Ratta, andasse tutto alla nuora.

Così il testatore, in alcune carte consegnate negli ultimi momenti al notaio Baltresca, aveva creduto di castigare un figlio ingrato ed irriverente e di dare [p. 392 modifica]un’ultima testimonianza d’affetto a una creatura, che avrebbe continuato a volergli bene.

Quando il feretro stava per uscire dalla casa, arrivò un gran paniere di fiori. Il giardiniere della villa di Tremezzo, obbedendo agli ordini, mandava le più belle rose di primavera. Questi fiori, che un morto offriva alla sua infermiera, Arabella fece spargere sulla cassa e sul carro.



Sfinita da una settimana di veglie e di commozioni, mentre portavano il pover’uomo a seppellire, raccolse alcune cosuccie e si preparò a partire per le Cascine. Papà Botta si offrì di accompagnarla. Essa non aveva la testa per intendere altri discorsi e si limitò a scrivere poche righe all’avvocato e al prevosto, pregandoli di avviare quelle pratiche, che potessero più facilmente affrettare una conciliazione.

Di Lorenzo non una parola.

Lasciò la casa in custodia delle donne e venne via col sentimento di commiserazione, che ci accompagna all’uscire dal teatro, dopo aver assistito a un dramma morale che ci ha fatto piangere, e che al calar della tela non lascia dietro di sè che il senso delle lagrime, e la verità di un insegnamento.

Forse non sarebbe più tornata ad abitare in quella casa funestata dalla morte; o se anche avesse dovuto riporvi il piede, non vi sarebbe tornata più giovine. L’esperienza, figlia del tempo, invecchia più presto di suo padre.

Ai piedi delle scale s’incontrò in Ferruccio. Da due o tre giorni il giovine cominciava a uscir dal letto, [p. 393 modifica]e ancor debole e abbattuto si era rannicchiato in portineria ad aspettare la signora. Suo padre era stato messo in libertà ed egli doveva ringraziarla dell’opera e della carità usata in questa circostanza. Voleva dimostrarle che sapeva perdonare anche lui a chi gli aveva fatto del male e che non gli mancava la buona volontà di cooperare a quel molto di bene che si poteva fare. Infine voleva rivederla, salutarla...

Vestita di nero, coi capelli che cascavano quasi stanchi anch’essi sul collo e sulle spalle, nel disordine che segue alle notti mal dormite, cogli occhi abbruciati dalla veglia, la signora gli parve ingrandita e rischiarata d’una bellezza più pura e ideale. L’apertura del vestito lasciava scoperto un poco il collo d’una candidezza d’avorio, come d’avorio in quel nero parevano le mani.

Rivedendo nella sua dolente realtà colei che gli era apparsa trasfigurata e raggiante nella poesia del delirio, sentì d’essere meno straniero verso la poverina. Avevano sofferto insieme.

La zia Colomba lo aveva messo a parte di tutti i particolari per cui la signora era venuta a chiedere l’ospitalità in casa sua. Sul tavolino erano rimasti molti fogli di una lettera, scritta da lei nel furore d’uno spasimo mortale, e da quei frammenti il giovane aveva imparato a conoscere a quali gridi si abbandoni un’anima, che insorge e che ricade accasciata sotto il peso delle cose.

La storia di questi dolori era scritta anche sul volto appassito, nella bellezza attenuata, nel disordine della persona, nello sguardo intimidito e assente: e parlava nella voce, una voce che avresti detto venire da una donna sopravissuta a una tremenda catastrofe.

[p. 394 modifica]— Ferruccio, come sta? meglio?

— Sissignora, sto bene.

— È pallidino ancora...

— Sono venuto a ringraziarla.

— Suo padre?

— Son venuto anche a nome suo...

— Dimentichiamo...

— Oh! ne abbiamo bisogno...

— Pensi a guarir bene e si lasci veder presto alle Cascine.

— Lei parte...

— È necessario: ho troppo bisogno di riposare. Venga e parleremo di questi interessi.

— Verrò, sissignora.

— Lei non ci abbandonerà... — disse, stendendogli lentamente la mano.

— Oh no!... se lei comanda...

— Dobbiamo far del bene insieme.

Egli non potè più cucire due sillabe.

— Saluti la buona zia Colomba: verrò presto a ringraziarla.

E serrando la mano del giovine nella sua, seguì papà Paolino, che aspettava presso una vettura.

Ferruccio stette appoggiato al muro, cogli occhi incantati sulla carrozza, che si allontanava e si impiccioliva in mezzo al via vai e al frastuono della città. Sognava ancora, a occhi aperti.