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— Non muoverti.

E lo lasciò a meditare al fresco, al lume delle stelle. Quando gli parve il momento, lo menò nella stanza del moribondo. Era quasi mezzanotte. Una piccola lucerna nascosta da un paravento rompeva a mala pena le tenebre. Nella stretta, accoccolata sul tappeto, stava Arabella. L’infermo respirava affannosamente con frequenti urti di rantoli.

Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l’aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e dell’indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi torbidi contorni di un sogno greve e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando Arabella, che s’era abbandonata un istante a un lento torpore.

Da tre giorni anch’essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d’uomini e di cose, un sentimento nuovo, vago, indefinito, l’assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d’un dolore o di una paura positiva, ma che produceva anche in lei l’effetto di una ubbriacchezza strana.

Suo suocero nelle poche righe scritte coll’agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll’avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi e dei morti.

Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di