Arabella/Parte terza/2
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II.
Arabella rompe la sua catena.
Dopo il vivo colloquio con suo suocero, Arabella si trovò nel fitto d’una battaglia, prima ancora che avesse risoluto di gettarvisi. Già quella stessa notte i gridi dell’Angiolina sotto la finestra, risuonando nel silenzio dell’ora, ebbero la forza di farla trasalire di spavento, come se ridestassero nelle sue viscere il terrore dell’altra volta. Anche dopo molti giorni, anche a dispetto della ragione, i suoi nervi non ragionavano più su questa impressione. Il grido d’un rivenditore, uno strepito improvviso, lo sbattere improvviso d’una porta, il cadere d’una sedia bastavano a farle battere i polsi del capo, e a riempirle il cuore d’un subito spavento; impallidiva, sudava freddo, afferravasi all’Augusta, tremando come una colomba scossa dal rimbombo d’un fucile...
La mattina seguente, quando preparavasi a uscire coll’intenzione di parlare a don Felice in favore del povero Berretta, s’incontrò sulle scale nella Colomba, più morta che viva, che veniva a implorare misericordia. L’avevano arrestato e menato via quel povero uomo come un cane rabbioso. Avevano disonorata una famiglia, maltrattato, quasi ammazzato un giovine onesto. Ferruccio, ferito da un tremendo colpo alla testa, dopo aver perduto un catino di sangue, era in letto con una febbre da cavallo, in delirio, più di là che di qua.
Arabella allibì. Chiese di veder suo suocero, ma la portinaia disse ch’era già uscito la mattina; e non fu possibile trovarlo per tutto il giorno.
Andarono insieme dal prevosto, che ascoltò il racconto con un senso di sincera pietà, crollando la testa, e ripetendo:
— Quel benedetto don Giosuè colla sua furia...
Il buon vecchio era del parere che colle dolci si sarebbe potuto evitare molti dispiaceri. Consolò la Colomba, fece animo alla signora Arabella e promise di parlar lui al signor Tognino.
Trovandosi sulla via quasi smarrita, un cattivo pensiero la persuase a fare una visita alla zia Sidonia e vi andò collo spirito conturbato di chi corre a cercare aiuto e protezione non tanto a un amico sincero, quanto a un fiero nemico del suo nemico.
Ritornò a casa convinta, risoluta a cogliere la prima occasione o il primo pretesto per rompere la sua catena.
— Dove deve essere andata con questo tempo? — domandò di nuovo il signor Tognino, volgendosi in tono di rimprovero all’Augusta.
— Giusto! e non la g’à manco l’ombrela.
— Chi c’è in casa?
— C’è la Gioconda.
— S’eran bisticciati a tavola?
— Chi?
— Chi, chi...? i siori.
— Mi non so. Mi non stago a scoltar...
— A scoltar col naso — rimbeccò il padrone, parlando anche lui in veneto per far dispetto alla pettegola. — È forse possibile che una donna di servizio non stia a sentir ciò che dicono i padroni?
— Io non ho visto che si siano bisticciati.
— Avranno combinato d’andare insieme a teatro.
— Senza dir nulla?
— C’è forse bisogno di dir tutto alle illustrissime?
Entrarono in casa. Egli buttò il cappello su una sedia, passò nel salotto, rischiarato dalla lucerna posta sopra la tavola, chiamò:
— Gioconda, Gioconda!
La cuoca, che sonnecchiava in cucina, venne fuori. Confermò anche lei che la signora, cinque minuti dopo che il signore era uscito, fattasi portare il mantello, era uscita anche lei dicendo: — Torno subito.
— A che ora torna a casa di solito il signore, la sera?
Le due donne si guardarono in viso, come se l’una aspettasse che parlasse l’altra.
— Non ha ora precisa... — disse la Gioconda.
— Portate un lume.
E senza aspettare che l’Augusta tornasse colla candela, spinse i battenti, traversò il corridoio, cacciò la testa nella camera da letto perfettamente buia.
— Arabella — chiamò con voce sommessa, che morì in un tremito pauroso.
Non c’era nessuno. Quando venne l’Augusta col lume, entrarono, dettero un’occhiata intorno. Vista una lettera aperta, quasi buttata là sulla tavoletta, egli la ghermì, vi gettò sopra l’occhio, riconobbe la scrittura. Era firmata S. Intascò la lettera e tornò nel salotto da pranzo. E poichè le donne stavan lì, in piedi, incantate, colle mani in mano, perdette la pazienza, e le mandò via:
— Andate a vedere e mandatemi Giuseppe.
Le donne non erano ancora uscite che fattosi sotto la lampada, scorse le due righe del biglietto. Questo diceva:
«L’indirizzo è quello che ti ho indicato. Stasera c’è ballo nuovo al Dal Verme. So che ci andranno. — S.»
— La vipera, la vipera! e strinse il profumato biglietto nel pugno come se spremesse una spugna.
Perdette un momento la vista sotto il furore della rabbia. — La vipera! — Col pugno stretto, coi denti irritati da una fiera convulsione, girò due volte intorno alla tavola, come un leone in preda alla febbre della fame. Vedeva l’intrigo. La buona zietta, per vendicarsi, dopo aver fatto il bel mestiere della spia, tirava a sè Arabella, l’invitava a casa sua, per condurla in teatro ad assistere allo spettacolo d’un tradimento. Non potendo ferir lui, lui capace di mordere, i Borrola allungavano la mano a colpire la povera figliuola.
— Vipere, vipere!
Una carrozza si fermò davanti alla porta.
Il signor Tognino aprì, andò sul balcone a vedere, se mai fosse lei di ritorno.
Ai goccioloni era successo l’acquazzone solito con l’accompagnamento di un tuono grave e noioso, che andava rotolando nella vôlta oscura del cielo; e ora cadeva una pioggia minuta e spessa, balestrata a capriccio dal vento.
L’ampia strada per tutto il tratto che si stende dalla rotonda di S. Sebastiano fino alla piazza del Duomo luccicava di pozze livide e nere, in cui specchiavansi i lumi dei lampioni.
La carrozza che s’era fermata davanti alla casa dirimpetto, partì subito a corsa, mandando dalla vernice bagnata smorti bagliori. Non un’anima viva sotto quel maledetto tempo.
Tornò a chiudere con impeto, tornò a leggere le poche righe in cui Sidonia aveva stillato il suo veleno: stette a sentir delle ore sonare. Eran le dieci e mezzo.
«Perchè uscir sola? Eran d’accordo di sorprendere Lorenzo in teatro in compagnia di Olimpia? — La vipera! — Non gli usciva altra parola dall’ugola soffocata da una emozione e da una rabbia, che gli mordeva il cuore: e in questa parola concentrava riassumendo, quasi tutto il costrutto e il veleno dei discorsi e delle supposizioni, che la sua mente andava facendo senza ascoltarsi.
Che si fosse rifugiata presso i suoi alle Cascine?» ― Cercò nel cassetto un orario e riscontrò le corse del tram di Lodi, che passa rasentando le Cascine. L’ultima corsa era alle sette. Si alzò, toccò il bottone d’un campanello, tenendovi sopra il dito, finchè ricomparve l’Augusta, col lume in mano, che entrò tutta rossa e affannata per una corsa fatta sulle scale. ― (Birboni d’omeni, el ghe pareva el dì del giudissio). ―
— A che ora è uscita la siora?
— Hanno pranzato alle sei, e ho portato il caffè alle sette. Il sior è andato a far toeletta, ha acceso il sigaro e ha detto alla siora che doveva andare alla Camera dei deputati.
― Alla Camera di commercio...
— Che m’intendo io? già son tutte bugie lo stesso.
— E poi?
— La siora è rimasta cinque o sei minuti col giornale in mano; poi ha sonato, s’è fatta portare le robe e la xe scapada fora come una luserta.
— Alle sette e mezzo?
— Più tardi, sior: poco prima che cominciasse a tuonare.
— Hai trovato Giuseppe?
— Adesso ha detto che viene.
Dunque Arabella non poteva essere partita col tram. Nè era presumibile che avesse presa la strada ferrata fino a Rogoredo, perchè da questa stazione alle Cascine, corrono quasi due miglia in mezzo ai campi. Forse aveva cercato un rifugio dalla sua amica.
— Come si chiama quella signora, moglie d’un professore?
— La signora Arundelli.
— Sai dove sta di casa?
— Sior sì.
— Allora manda Giuseppe a prendere una carrozza e fatti accompagnare fino alla casa di questa signora. Se non la trovi, colla stessa carrozza vai nei Fiori Chiari, da mia sorella Sidonia. Non dire che t’ho mandato io. Parli in segretezza colla donna di servizio e procuri di sapere se la tua signora c’è stata oggi e se c’è ancora.
— Va bene, vado subito...
Egli andò dietro alla ragazza fin sull’uscio. Qui rimase in forse se uscire anche lui, se dare una capatina in teatro, se mandare un telegramma ai Botta. Ma riflettè che nel frattempo poteva tornare o lei o lui, e non conveniva spaventare senza una ragione plausibile i parenti delle Cascine, tirarsi in casa una mezza rivoluzione. Era evidente che Arabella, messa in sospetto e guidata da Sidonia, aveva spiato suo marito. Ma poi? perchè non tornava? Che sorpresa dal temporale si fosse ricoverata in un caffè? in un caffè, una donna sola, in ora così tarda, con un tempo simile? «Certo s’è rifugiata presso gli Arundelli che stanno anch’essi da quelle parti. L’Augusta mi porterà presto qualche notizia. In quanto a lui, a quell’animale aggiusterà i conti con me.»
«Il peggio sarebbe che avesse cercato asilo presso la signora Sidonia. Dio, dovessi portarla via col revolver in mano, ma in quella casa non deve rimanere. Le vipere! penseremo anche alle vipere. Penseremo anche alla sora Olimpia. Ma resta a vedersi se Arabella dopo questa scena vorrà tornare in casa. Mi si parlerà di separazione. Questi caratterini delicati messi al cimento son più forti degli altri. È buona e religiosa, ha paura degli scandali, ma se tutti pigliano a tormentarla, a irritarla, a pungerla, a spaventarla, prima l’Angiolina, poi la sora Sidonia, poi l’Olimpia poi questo... poi quello...» — e si ricordò d’averla maltrattata anche lui per causa di quel povero vecchio e di quel povero giovane.
Per fuggire alla persecuzione di questi pensieri, tirò innanzi carta, penna e calamaio e gli parve ch’egli potesse e dovesse scrivere a qualcheduno. Scrivere a chi? non a lei, non a Sidonia, non all’avvocato... Era tanto conturbato, che per quanto fissasse gli occhi sul bianco dell’orologio, non gli riuscì di decifrar l’ora.
La luce viva d’un lampo riempì la stanza, e poco dopo s’intese il rumore lontano del tuono, accompagnato da nuovi scrosci d’acqua.
Eran già le undici.
L’Augusta tardava a tornare. Gli sembrò d’essere abbandonato da tutti, e che il tuono, il lampo, la pioggia congiurassero con tutti gli uomini per fargli la guerra.
Riprendendo il filo delle supposizioni, provò di nuovo a immaginare che Arabella avesse veramente sorpresi gli amanti o in un caffè, o in un teatro, o per via, che fosse nata una scena, che Lorenzo l’avesse maltrattata, cacciata via, che le fosse venuto male — era così debole ancora! — che la gente si fosse impadronita di lei, per buttarla domani in bocca alla cronaca delle gazzette.
— Ah se l’ha maltrattata! guai se l’ha toccata! — e tutto contorto nei muscoli, coi pugni stretti, fino a conficcar l’unghie nelle carni, colse sè stesso in un atteggiamento quasi feroce, in atto di scagliarsi contro qualcuno.... Contro suo figlio!
Il rumore d’una carrozza, che risalendo dal Carrobbio venne per tutta la via Torino ad arrestarsi sotto la casa, lo strappò all’aspra battaglia ch’egli combatteva colle ombre e con sè stesso.
Forse era lei: o forse l’Augusta tornava con qualche notizia.
Andò incontro alla donna fino sulla scala.
L’Augusta e il portinaio venivan su cicalando, ed egli cercò d’indovinare dal tono delle loro voci se portavano qualche buona notizia. A un certo punto provò un tal senso di paura, che si nascose nel vestibolo dell’uscio.
— Dalla siora Arundelli non c’è — disse l’Augusta con voce rotta da una mesta compassione — e non c’è nemmeno dai siori Borrola.
— Con chi hai parlato?
— Ho parlato con la signora Sidonia che venne ad aprir la porta. Non l’ha vista nè oggi nè ieri. Rimase incantata anche lei a sentire che non la si trovava più. Non fidandomi del tutto, ho fatto chiamare in portineria la Carmela che non ha segreti per me. Siamo dello stesso paese. E anche la cameriera mi ha giurato che non s’è mai vista. In quanto alla signora Arundelli è cascata dalle nuvole. E intanto la vien che Dio la manda.
L’Augusta non seppe trattenere due piccole lagrime, che fece scomparire coll’angolo del grembialetto bianco. Essa voleva bene alla sua siora e vedeva troppo da vicino come la facevano soffrire. Ma non era più un mistero per lei che gli omeni sono tutti traditori, che non si contentano di una, ma le voglion tutte. In qualche altra maniera era passata anche lei attraverso a questi tradimenti, e non le mancava il cor de compatir e de maledir.
Il vecchio Maccagno si ritirò nelle sue stanze, vi si chiuse dentro, ma non si spogliò, non toccò il letto.
Una tremenda inquietudine, una convulsa irritazione di tutti i nervi, un dolore nuovo e acuto che gli forava il cuore, un avvilimento di tutte forze che lo trascinava verso la disperazione, non che permettergli di dormire, non gli lasciarono nemmeno la quiete e la facoltà di esaminare e di ragionare sugli avvenimenti.
Cento pensieri, cozzando tra loro, finiscono col rompere il filo del raziocinio.
Stanco e come fiaccato nella testa e nelle gambe, cadde sopra una sedia, e rimase tutta la notte, così appoggiato, coll’occhio aperto e fermo nel buio, in agguato se mai sentisse venir su un passo. Essa non tornò più. Non tornò nemmeno lui, nemmeno lui, l’assassino.
I tristi avevano avvelenata l’unica fonte non amara della sua vita. I tristi...
Arabella li aveva giudicati tutti...
E cogli occhi spalancati nel buio, quanto fu lunga quell’eterna notte, il vecchio affarista, mezzo febbricitante, percorse a galoppo la storia della sua vita, parlando affrettato con sè stesso, come chi vuole persuadere un ostinato o ingannare un diffidente, attonito, intimorito davanti a una coscienza nuova, che sorgeva a rimproverarlo e ch’egli cercava di spaventare come si caccia via un uccellaccio notturno.
E finalmente il giorno, colla sua luce chiara e, se si può dir così, ragionevole, venne a por fine a un tormento inutile.
Si mosse più risoluto, e, uscito sul pianerottolo, trovò l’uscio ancora aperto, l’appartamento vuoto, silenzioso, morto. La lampada del salotto mandava gli ultimi guizzi contro i raggi d’oro del sole, che battevano sulla finestra. Il temporale della notte lasciava dietro una giornata splendida.
Si mosse per le stanze deserte, spinse le portine della stanza da letto, vi entrò, come se sperasse di ritrovarla a una più diligente ricerca. Il letto nella sua fresca copertura di drappo era intatto. Egli vi posò una mano, e coll’altra si fregò fortemente gli occhi per rimoverne la nebbia della notte e ne portò via un umor pungente.
Non sapeva piangere e se ne sentiva un acre bisogno.
Si ricordò che fanciulletto di cinque o sei anni si era buttato sul cadavere d’una sorellina a piangere e a strillare, perchè non gliela portassero via.
Se avesse potuto far lo stesso!
Arabella nel correr dietro a suo marito non aveva che un’idea, raccogliere una prova di più, vedere, toccare con mano fin dove era tradita e avvilita, di questo documento farsene una forza per uscire con diritto, giustificata e compatita, da un’abbietta schiavitù legale; romperla insomma con una gente a cui l’ignoranza e l’egoismo incosciente de’ suoi l’avevano venduta e che faceva scontare al suo corpo e all’anima sua le conseguenze di colpe e d’abitudini irrimediabili.
Aveva bisogno di vedere e d’essere veduta per poter dire domani: basta! qui comincia la mia dignità...
S’illudeva della sua stessa forza come tutte le anime semplici, che non ne hanno che una, quella del dolore.
Riguardo a suo marito inutilmente essa aveva eccitate le più scapigliate furie che la gelosia manda fuori e mette nel cuore delle povere donne tradite e ingannate: il cuore non le diceva nulla contro di lui. Il cuore, anche lui, non cercava che un documento di più per la sua liberazione.
Gli avvenimenti si erano inseguiti e incalzati con tanta rapidità, che essa non ebbe quasi il tempo di riflettere sulle conseguenze del suo passo. Sentiva in un modo duro e violento che in qualunque maniera l’opera sua in quella casa era finita, che non avrebbe potuto più mangiarne il pane senza rimorso e senza nausea; che il bene non può in nessuna maniera derivare dal male, come la luce non può derivare dalle tenebre. A codesta gente essa aveva ormai sacrificato più di quel che avesse ricevuto o potuto ricevere. I denari si possono trovare e restituire, ma nessuno ti renderà mai la fede che t’ha rubata e messa sotto i piedi.
Dio solo onniveggente e misericordioso avrebbe potuto dire a qual prezzo essa aveva pagata la beneficenza fatta da questa gente alla sua famiglia; la coppa della pazienza era esaurita o non dava che fiele.
Uscì dunque non tanto per respirare l’oltraggio, quanto per sentire fin dove una donna può essere oltraggiata, come il malato desidera che gli portino uno specchio per la curiosità di vedersi livido e consumato dal suo male.
Era la prima volta che usciva sola di sera: e al primo trovarsi in mezzo alla gente, sotto le luci vive delle botteghe, si sentì come travolta da un vortice pauroso. Nell’esaltazione del suo sentimento essa non capiva se avesse ceduto all’impeto d’una passione o all’insidia di una tentazione.
Due volte una voce interna le comandò di tornare indietro e di provvedere in altro modo alla sua difesa; ma una folla di oscure smanie, di cieche furie, di non so quali forze maligne seguitava a incalzarla in una direzione, ed essa vi cedeva come a un istinto.
Voleva vedere, solamente vedere... Dopo sarebbe tornata a casa più convinta e più rassegnata: non osava dire più soddisfatta, ma il cuore sperava anche questo. Anche il cuore ha il suo egoismo. Per quanto ci possa recare dolore e disgusto sorprendere chi ci ruba, con la roba rubata in mano, l’orgoglio vuol la sua parte, e gode quando il ladro colto in flagrante è un nostro acerbo creditore, un nostro persecutore e nemico.
Ecco perchè voleva vedere. Oh! non avrebbe fatto scene... no, no: nè tragedie, nè commedie. Le bastava d’aver tanto in mano per poter dire a’ suoi padroni: il conto è pagato: me ne vado: non abbiamo più nulla in comune tra noi: datemi la mia libertà e io vi lascio la vostra responsabilità innanzi a Dio e innanzi agli uomini. I vostri peccati vi hanno tradito: i vostri peccati vi puniranno. Vi perdono il male e la nausea che mi avete fatto.
Camminando colla fretta di chi vuol sfuggire agli occhi dei curiosi, sotto la sferza di questi pensieri, raggiunse in pochi minuti Lorenzo, poco più in là di San Giorgio, mentre egli stava per entrare a comperar delle sigarette in una bottega.
Sempre cedendo a quella forza d’istinto che la guidava, essa traversò tutta la strada per non mettersi sopra i suoi passi e si fermò in attesa, davanti alla vetrina di un piccolo orefice, la quale servì di specchio. Dietro i gioielli e gli orologi disseminati nella bacheca, la via grande e popolosa coi lumi e colle botteghe aperte disegnavasi nello sfondo, come un’altra città, non mai vista, dove andava vagando una signora coperta d’un dolman bigio con in testa un tòcco d’astrakan, una signora pallida e smarrita... Quando Lorenzo uscì dalla bottega coll’elegante astuccio delle sigarette, la signora dal dolman bigio stette un poco a osservare i suoi passi. Egli traversò il crocicchio del Carrobbio e scomparve precisamente nella porta indicata. Il cuore di Arabella dette tre colpi duri e dolorosi. Aveva visto abbastanza. Poteva tornar indietro...
Era una casa maledetta, dove il suo povero papà aveva cercata la morte. C’è una mano cattiva che conduce e rimescola le cose. In quella casa, suo marito, dopo aver cicalato una mezz’ora in una poltrona, accanto a sua moglie, nell’obesità della digestione, veniva a distrarsi con un’altra donna.
Voltò per tornare indietro, con un velo di lagrime steso sugli occhi, nell’umiliazione; ma poi le parve che al suo interesse non bastasse il vedere, bisognava essere veduta, e carpire una prova di più contro i sofismi della bugia. Sciocca e indegna del nome di creatura umana, se non osava rivendicare i diritti della sua dignità di donna onesta! La natura, la legge, l’opinione pubblica, la religione erano dalla sua parte. Dove manca uno scopo al martirio, non può essere santo il prosternarsi nel fango e il permettere che altri ti passi coi piedi sul corpo...
Di questi concetti non rilevava che le ombre gettate rapidamente sul fondo dell’anima, come le immagini sfigurate d’una lanterna magica, in mano a un ragazzo inquieto, balzano sul muro.
I piedi obbedirono all’istinto e la portarono alla casa. Entrò, e, prima che avesse tempo di pentirsene, si trovò nel bugigattolo del portinaio.
Il Berretta non c’era. Il signor Tognino gli aveva trovato un altro posto.
Sul tavolo fumigava in mezzo ai frastagli, alle pezze e alle filaccie una meschina lampadina a petrolio, che riempiva del suo puzzo e della sua luce rossastra il piccolo covo disabitato.
La fiamma non bastava a rischiarare che una porzione del portico e i primi gradini della scala. Nel resto il buio fitto involgeva la corte e gli anditi segreti di quella vecchia casa, dove Lorenzo veniva a cercare un compenso all’ineffabile noia della sua casa fresca, pulita, illuminata e impregnata d’una soverchia quantità di virtù casalinghe.
Arabella, aspirando con fremito nervoso l’odore acuto del petrolio, non sentì paura di trovarsi sola, in quell’ora, in quel luogo, in quell’avventura, come se le tenebre e il triste silenzio della tana suscitassero in lei delle seduzioni meno buone, delle vertigini dall’alto in giù; ma la voce di Lorenzo e il suo passo pesante che tornava indietro l’invasero di un subito spavento. Non potendo fuggire, si ritirò dietro un pezzo di paravento logoro, che nascondeva la cucina del portinaio.
Lorenzo scese di corsa, soffiando. Chiamò due o tre volte:
— Carlino!
Ma non vedendo uscir nessuno, andò nella strada brontolando.
— C’è ’sta carrozza? — domandò dal mezzo della scala una bella voce di contralto, che fece scattare Arabella dallo sgabello su cui s’era accovacciata.