Arabella/Parte terza/1

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I.


Avvocato contro avvocato.


Gli affari, gli intrighi, il bisogno di preparare una difesa e forse, più d’ogni altro motivo, la vergogna di ricomparire innanzi a sua nuora senza una buona giustificazione, tennero il signor Tognino occupatissimo per cinque o sei giorni. Intanto la questura per conto suo arrestava il Berretta. Era un primo esempio e ne sarebbero venuti degli altri.

Più volte ebbe lunghe conferenze col notaio Baltresca. Costui, che da lontano spiava i passi del nemico e che forse era interessato anche per la parte sua a vincere, andava suggerendo al cliente di non lasciarsi cogliere alla sprovvista, ma di opporre avvocato ad avvocato, prima, per risparmio di seccature e di amarezze, e in secondo luogo, perchè tutte le più belle ragioni del mondo contano un bel nulla davanti a una sentenza che ti capita tra capo e collo.

Per guarire da un avvocato non c’è che un rimedio: pigliare un altro avvocato forte come lui, similia cum similibus.

Per il buon Baltresca non c’era che un uomo al mondo capace di far paura anche al Codice; e mise innanzi il nome d’un onorevole deputato della maggioranza parlamentare, suo vecchio camerata di collegio, [p. 266 modifica]nativo anche lui di Vigevano, un liberale di vecchia data, uomo di grande capacità, di grande influenza, che gli amici chiamano il Gambetta di Vigevano, non solamente per la naturale e focosa eloquenza, ma anche per una certa somiglianza fisica che il buon Peppino aveva col grande democratico francese, specialmente nella barba.

Il signor Tognino non ebbe fatica ad afferrare il valore prezioso di questo consiglio, ma tentennò un pezzo il capo, ripugnandogli di aver a che fare con avvocati. I suoi interessi li aveva sempre curati da sè, senza bisogno d’intermediari: e ora l’inaspriva l’idea di dover mettere nelle mani d’un leguleio i suoi pensieri, la sua coscienza, come si dà, per un paragone, il fazzoletto sporco alla lavandaia. Ma visto e considerato che se un avvocato ti pianta un chiodo in testa, non c’è che un altro della sua razza capace di tirartelo fuori; visto e considerato che tra due bestie feroci è meglio star dalla parte della più ringhiosa; persuaso anche lui che la giustizia di questo mondo è precisamente come la ragnatela descritta dal Porta in una canzonetta, dopo più matura riflessione, si lasciò persuadere a incontrarsi con questo signor avvocato.

Il caso volle che l’onorevole di Vigevano fosse chiamato a Como come arbitro legale in una intricatissima questione tra la Süd-Bahn e le nostre strade ferrate, una faccenduzza in cui era in giuoco qualche milione. Il nostro affarista colse quest’occasione per andare col Botola sul lago a veder la villa, sempre colla speranza che al primo raggio di bel tempo potesse persuadere Arabella a lasciare Milano.

Andò coll’amico fino a Tremezzo, vide la casa e [p. 267 modifica]il sito, gli piacquero, combinarono il prezzo e se ne tornò solo a Como, dove la mezza eccellenza democratica, a cui il Baltresca aveva scritto in prevenzione, gli aveva dato convegno al Grand Hôtel Volta, sulla piazza del lago.

Verso le quattro si presentò e si fece annunziare. Fu prima un gran correre di camerieri, un gran sonar di campanelli elettrici, un gran via vai di personaggi barbuti e grassi, di banchieri e di pezzi grossi dell’Amministrazione ferroviaria; e finalmente, quando piacque alla mezza eccellenza, venne chiamato anche lui.

Trovò un grassotto non troppo alto, con la barba alla Gambetta, che gli venne incontro in aria confidenziale, che gli prese la mano, che lo fece sedere in un gran seggiolone, e, mostrando d’avere i minuti contati, entrò subito in argomento, riassumendo quel che aveva scritto il vecchio amico Baltresca...

— A rigore non potrei assumere altri impegni, caro signore, perchè devo presto tornare a Roma per la importantissima discussione sulle Opere Pie, della quale Sua Eccellenza il Ministro di Grazia e Giustizia (tutte queste maiuscole si sentivano nel respiro pesante del grand’uomo, che colle mani sotto la giubba sforzavasi di sfibbiare il panciotto) s’è compiaciuto di affidarmi la relazione. Una bella briga! Adesso ho sulle spalle anche questa faccenda colla Süd-Bahn, e prevedo che non ne usciremo nè in un anno nè in due. Però... però... se il signor Maccagno, di cui l’amico Baltresca mi parla così bene, si trova nella necessità, noi avvocati siamo come i medici: non possiamo rifiutarci, e nel caso potrò fare una scappata a Milano, dove ho dei vecchi amici e dei commilitoni. [p. 268 modifica]È un pezzo che non vedo Milano, quel Milano birbone che vuol resistere a Crispi, come ha saputo resistere al Barbarossa... Ma vedrete, vedrete; romperemo la crosta! Forse il signor Maccagno è una colonna della Costituzionale, ma non fa nulla: noi saremo lo stesso buoni amici. Solamente io ho bisogno di saper bene le cose come stanno, anche se stanno male, perchè non si va in cerca d’un consulente specialista nè per un raffreddore, nè per un piccolo mal di denti... Mi spiego? Tra noi ci dobbiamo intendere subito come due amanti, non aver segreti l’un per l’altro, caro cavaliere...

E il bravo Gambetta di Vigevano battè dolcemente colla mano tre colpetti sul ginocchio del cliente. Poi, abbandonatosi nelle braccia della poltrona, portò l’occhialino al naso, e scorrendo la lettera del Baltresca, riepilogò:

— L’affare è grosso: quattrocentomila lire! il Baruffa è una vecchia volpe; preti e frati non badano a spendere e hanno ancora la mano lunga. Ci sono interessate delle pie istituzioni, lato debole e delicato! c’è un testamento del 78, che si può disprezzare, ma si può anche non disprezzare. Queste benedette cause di successione fanno degli scherzi improvvisi, sono capricciose e traditore come le belle donne. Non bisogna mai fidarsene. L’interesse ci soffia dentro da tutte le parti, e ciò che ieri pareva una vescica, domani può diventare una bomba. Se poi vi si mescola il fanatismo, il paolottismo, il beghinismo, la tonaca e la corona del rosario, si può avere gli occhi d’Argo e non si arriva mai a veder tutto. L’insidia è nell’indole dei nostri avversari, i [p. 269 modifica]quali non furono mai così potenti come in questi tempi così detti di liberalismo. Lo so io che ho tra le mani quella poca matassa delle Opere pie! — l’onorevole di Vigevano tornò a sfibbiare qualche altra cosa sotto la giubba. — Vedesse, caro signore, che pressioni! che ingerenze! che intimidazioni! e non da una parte sola: da tutte le parti, e specialmente dall’alto, sicuro, dall’alto, da molto in alto! e mi si viene a parlare di laicizzare le istituzioni! — L’avvocato rise di gran cuore, pigliandosi in mano un piede ben calzato in una scarpetta di panno a due file di bottoni d’osso. — Ma comunque sia, ne ho vinto delle più difficili, alla garibaldina, s’intende, pam, pam! e vinceremo anche questa. Spenderemo forse un po’ di denaro, ma vedo che c’è del margine, un bel margine, e faremo presto. Vedrà, sei mesi, un anno al più. Se non sarà in prima istanza andremo in appello, dove conto dei forti appoggi dappertutto, purchè i miei colleghi non mi facciano il tiro di mandarmi alla Consulta, nel qual caso passerei le carte a un alter ego, che farà ancor meglio di me.

La campana della table d’hôte interruppe a tempo un discorso che minacciava di non finir più. L’onorevole competenza si alzò, promise di scrivere per combinare una seconda seduta, strinse nelle sue la mano magra e dura del bravo signor Maccagno e lo accompagnò gentilmente all’uscio.

Il vecchio affarista, sangue dei Valsassina, non abituato alle circonlocuzioni parlamentari, uscì da quel colloquio col viso rosso, l’anima gonfia di bile, i denti stretti e con una voglia indosso di strozzar qualcheduno. Quando fu nel mezzo della piazza, [p. 270 modifica]presso la famosa fontana asciutta, quel malumore concentrato nel fegato scoppiò in una parola sonora, che riassumeva nella sua concisione tutto un trattato di filosofia politica:

— Buffoni!

Non gli riuscì di dir altro fino alla stazione, dove cercò di far passare il dispetto con un buon pranzo e con una bella bottiglia di vin di Valtellina. — Che buffoni!

La villa di Tremezzo gli aveva fatto una buona impressione. Non troppo alla riva, si appoggiava da una parte a un declivio molle e boscoso, dall’altra aprivasi con un terrazzo sul meraviglioso bacino di Bellagio, passando oltre colla vista sino a Varenna e più in su: un pezzo di cielo in terra. Era il luogo fatto apposta per sua nuora. Col lago di mezzo non c’era più pericolo che una masnada di mummie venissero a tormentarla. Quanti fiori in quella villa! Sua nuora era così innamorata dei fiori!... Si pentì di non averne portato via un mazzo; ma voleva scrivere al Botola che ne mandasse un cesto a Milano.

— Che razza di buffoni!

Scrisse una cartolina, la buttò egli stesso nella buca, e rinforzato da un buon pranzetto, dato un bell’addio alla mezza eccellenza, si rincantucciò nell’angolo del vagone. Cominciava a imbrunire. Il sole colorava ancor le cime più alte, ma verso occidente andavano spandendosi per il cielo delle lunghe nuvole cenericcie e stracciate, che il vento portava in su, gonfiandole come se ci soffiasse dentro.

Dopo qualche tempo la grossa nuvolaglia si raccolse in un nuvolone solo, livido e grosso, nel quale il lampo cominciò a dibattersi col moto nervoso di [p. 271 modifica]un sopraciglio irritato, mentre nella riga più bassa dell’orizzonte il crepuscolo ardeva come un immenso braciere.

Il nostro vecchietto, leggermente eccitato dal vino di Valtellina, fissò gli occhi su quel grande e magnifico spettacolo del cielo, che sfugge a chi vive da talpa nei muri d’una grande città; e, come se un pensiero tirasse l’altro, tornò a rivedere la bella casa di Tremezzo, posta in un boschetto di lauri e di magnolie, un angolo verde che valeva da sè tutto Milano col Duomo per giunta. Se egli avesse potuto dare un calcio a tutte le brighe e ritirarsi lassù, o almeno persuadere Arabella a partir subito la settimana prossima... Intorno alla causa e ai pettegolezzi e alla guerra dei parenti, una volta che Arabella fosse al sicuro, avrebbe forse potuto anche transigere... Chi sa?

Alle volte, a tirare troppo, la corda si rompe. In quanto a opporre avvocato contro avvocato, ne aveva già assaggiato abbastanza.

«Buffoni! e quel buon uomo di Baltresca crede che io possa credere a queste famose pancie democratiche, come i gonzi credono alle meravigliose virtù di Dulcamara! e io darò a mangiare il mio o mi lascerò dar del cavaliere da codesti nuovi frati della santa retorica, che spennano chi ci crede in nome dei grandi principii! Preferisco i preti, che almeno son più furbi! E come ha saputo toccare il tasto del liberalismo!... — Già, dovremo spendere un po’ di denari, ma abbiam del margine. Se non basterà la prima istanza, andremo in appello, se non basterò io, chiameremo in aiuto un’altra pancia: abbiamo degli appoggi... Siamo noi che facciamo la pioggia e il [p. 272 modifica]bel tempo; alla garibaldina, pam, pam. — Buffoni! non darò a rosicchiare a questi liberaloni il mio formaggio... Fossi bestia! Vedo, come in uno specchio, che se mi lasciassi pigliare, non me la caverei più in trent’anni. Di tribunale in tribunale, di rinvio in rinvio, dopo avermi fatto spendere un capitale in carta bollata e in ricorsi, avrei di grazia di salvarmi un paio di scarpe. Faccian pure la causa, se hanno gusto, gli altri; io non mi muovo. Io non ho nulla a dimostrare ai giudici. Son essi che devono dimostrare che il mio testamento non è un testamento. Intanto il Berretta è a posto.»

Il treno lo portava nella crescente oscurità della sera verso la pianura e verso quel gran cittadone, che gli diventava ogni giorno più antipatico. Nella penombra gli passavano davanti i casolari oscuri e raggruppati dei villaggi e dei cascinali, da cui usciva il fumo lento delle povere cene. Trasparivano i piccoli lumi delle stalle e i fuochi vivi dagli usci aperti. Qualche suono d’avemaria mescolavasi al rombo del treno, e nei pochi minuti di sosta alle stazioni vedeva dappertutto della gente felice, seduta in terra a fumar la pipa, o dei gruppi di ragazze che tornavano a casa dalla filanda, cantando come se avessero mangiato la felicità colla polenta. Quattro spanne di terra, quattro patate, quattro fagiuoli, una scodella di latte e questa gente è padrona del mondo. Più furba questa gente in fondo (se lo sapesse) di chi logora anima e scarpe dietro il quattrino o dietro la gloria, o a cavallo di un puntiglio, o in una continua e rabbiosa diffidenza, per non raccogliere in fine che odio e maledizioni.

Qualche cosa come una maledizione sentiva che [p. 273 modifica]gli pesava addosso da qualche giorno, per quanto egli si sforzasse di non pensarci e di dissiparsi in cento faccende. Egli aveva bisogno di essere perdonato... Era partito bruscamente senza rivederla, dopo averla maltrattata, insultata. Aveva ruvidamente respinta la sua preghiera, per non ascoltare che le voci del suo risentimento e della sua vendetta.

Per quanto la passione o quel misto di puntiglio, di rabbia e di paura, ch’egli chiamava un diritto di legittima difesa parlasse ancor forte in lui, tuttavia sentiva, non senza sgomento, l’animo avviluppato da un sentimento che un altro uomo avrebbe riconosciuto ed accettato come un rimorso, ma che nella sua quasi ignoranza del bene e del male ostinavasi a tener indietro come un primo sintomo di debolezza e di senilità.

«Che bisogno aveva egli d’esser perdonato da una monachina? quali soddisfazioni le doveva? tra loro due chi più in debito di gratitudine? Bastava che egli la mettesse al sicuro d’ogni altro oltraggio, questo sì: e a tal fine non aveva risparmiato passi e denari. Ma in quanto al resto non è stabilito che le donne non c’entrano negli affari degli uomini? Esse hanno la loro casa, la loro musica, le loro calze, i loro figliuoli; gli uomini hanno la banca, l’industria, il commercio, la politica, la guerra, le botte... Anche le botte, sì: la vita è una battaglia e vince chi pesta di più. Son come due amministrazioni con due libri mastri diversi che non hanno nulla a che fare l’un coll’altro; e di questo avrebbe dovuto capacitarsi quella benedetta ragazza.»

E mentre un pensiero sofistico andava persuadendolo di queste verità così vecchie, un sentimento non [p. 274 modifica]meno ragionevole e forte gli faceva capire che bisognava far la pace subito, ad ogni patto, con Arabella. Non poteva star in collera, e non poteva vivere nel dubbio di non essere amato e stimato da lei come prima. Poesia o no, questa benedetta figliuola, dal dì ch’era entrata in casa, e forse anche prima, aveva ringiovanita una vita sterile, senz’affetto, aveva rinnovate e rinfrescate delle sensazioni che parevano morte e sepolte; gli aveva fatto del bene….

Per quanto procurasse e si sforzasse di richiamare le furie più scapigliate della sua natura e di affilare spade e coltelli in una guerra di diritto, non poteva sottrarsi a quel dolore vivo che prendeva nel venire innanzi la mesta figura di lei. E questa pallida e dolente figura, come lo spettro d’un morto offeso, non si rassegnava a partire. Al contrario, se la sentiva presente anche nei momenti in cui l’ira strillava di più e la mente sbandavasi di più, come una coscienza nuova fuori di lei, che esaminasse, giudicasse… aspettasse qualche cosa.

Non avrebbe osato dirlo, ma cominciava ad accorgersi, istintivamente, che se Arabella non fosse mai venuta in casa, la sua strada sarebbe stata molto più facile e diritta, sempre quella che aveva battuta dal quarantotto in giù, la strada dei mezzi semplici e dei pronti risultati.

«Aveva voluto deviare, indugiare, fare della poesia, assaggiare prima di morire il sapore del bene e questo dolce ora facevagli male allo stomaco. Non si è mai abbastanza al riparo dalle tentazioni, e quelle che vengono dal bene non sono le meno pericolose. Che diavolo! colui che nelle cose del mondo aveva un piglio così lesto e sommario, che fin dall’adolescenza [p. 275 modifica]s’era abituato a stimar buono ciò che serve a qualche cosa, e ciarle inutili tutto il resto; colui che a preti, a frati, ad avvocati, a parenti, a deputati rideva tanto di gusto in viso, non era strano, inesplicabile, che dovesse sgomentarsi all’idea d’una monaca, a cui non doveva nulla, ma che s’era tirata in casa quasi per compassione? poesia, romanticismo! Ma non poteva cacciarla via. Una soddisfazione, una parolina di scusa doveva dirgliela. L’aveva offesa, dunque chi fa il male faccia la penitenza. Fra una mezz’ora sarebbe stato a Milano, l’avrebbe vista, le avrebbe parlato: forse avrebbe concesso oggi quel che non aveva osato promettere prima. Sì, sì, povero angiolo, bisognava che la vedesse prima di andare a dormire.»

E battendo le palpebre, cercò di reprimere una improvvisa commozione di pietà, che riempì e sconvolse tutta la vita. Qualche cosa di forte e di misterioso si mosse al disotto di un oscuro risentimento, che lo afferrava da tutte le parti, come un nemico tre volte più grande che lo disarmava. Sporgendo il capo dallo sportello nell’aria fredda, cercò un refrigerio, si sforzò di riprendere un coraggio che fuggiva, e ritrovò finalmente gli spiriti nell’energia di una parola che tornò a inframettersi alle sue malinconie, e ch’egli pronunciò colla faccia rivolta verso i monti:

— Buffoni!

In mezzo a questi contrasti arrivò a Monza ch’era già buio, e buio prima dell’ora per quel diavolo di temporale.

Il treno aveva viaggiato verso il cattivo tempo, e ora si trovava nel fitto della bufera.

Non pioveva ancora, ma il temporale secco scatenavasi in un turbine di vento polveroso, in lampi [p. 276 modifica]spessi e taglienti come lame, e in tuoni continui, ringhiosi, brontoloni.

La stazione e i vagoni non erano ancora rischiarati, perchè l’amministrazione non tien conto dei temporali. Ci si vedeva sì e no, più coll’aiuto dei lampi che, sto per dire, con quello degli occhi.

Mentre il nostro viaggiatore stava appoggiato allo sportello, intento a strologare la tettoia di vetro che mandava bagliori e fosforescenze a ogni guizzo, un reverendo sacerdote, per quanto si poteva vedere, entrò dall’altra parte nel vagone e si rincantucciò in un angolo.

— Che demonio di temporale! — esclamò il reverendo, che ansava ancora per la corsa fatta, mostrando la voglia d’avere un compagno in quel breve viaggio al buio.

— Eppure io credo che va a finire in nulla... Oggi è stata una giornata calda: son lampi di caldo...

Prima che il treno si rimettesse in moto, anche un giovane e svelto ufficiale di cavalleria saltò nel vagone e sedette in mezzo ai due viaggiatori, che occupavano i due angoli obliquamente opposti.

L’ufficiale chiese il permesso di fumare.

— Faccia pure — dissero insieme le due voci.

L’ufficiale accese uno zolfanello di cera e lo tenne vivo il tempo d’accendere un sigaro, rischiarando il vagone, mentre il convoglio, alquanto in ritardo, ripigliava la sua corsa.

Ciò permise al signor Tognino di riconoscere nel reverendo, seduto nell’angolo, la cara e simpatica persona di don Giosuè Pianelli, e a costui nel suo compagno di viaggio quel bel gioiello di sor Tognino.

Per fortuna di tutti e due il buio del vagone li [p. 277 modifica]coprì e li nascose di nuovo l’uno all’altro e la presenza del regio esercito impedì che si guastasse strada facendo, una conversazione che pareva così bene avviata. Ma i due vecchi bisbetici, dopo essersi fiutati come due cani in collera, continuarono a ringhiare e a guardarsi nell’oscurità.

Tutte le volte che l’ufficiale accendeva il sigaro (e un fumatore italiano può immaginarsi quante) quei quattro occhi, attratti da una forza che aveva nulla a che fare coll’«affinità affettiva» di cui parla il Goethe, s’incontravano nella linea diagonale sul fuoco del fumatore, che mandando globi di fumo in alto ritornava forse lieto da un lieto incontro. L’odio e l’amore son fatti per non conoscersi, ma spesso viaggiano insieme.

Quei due sguardi si guardavano fissi incrociandosi come due fioretti, i lineamenti delle faccie s’indurivano, le mani diventavano pugni, poi tutto ritornava nero come i loro pensieri. Nel buio continuavano i due cuori ad azzuffarsi.

Il prete odiava nell’affarista il traditore, il ladro empio e bugiardo, il sacrilego miscredente, che coll’aiuto del diavolo aveva rubato alla chiesa e ai poveri un’eredità di quattrocentomila lire.

L’affarista esecrava nel prete l’intrigante, il gesuita, l’impostore, la causa prima degli scandali, l’eccitatore interessato d’una masnada di straccioni.

Se le idee che passano negli animi degli uomini avessero la virtù d’accendersi secondo la forza elettrica che contengono, i due vecchi bisbetici avrebbero mandato fuori lampi più sinistri di quelli che andavano guizzando e irritandosi laggiù sopra Milano, dove il treno li portava a precipizio, [p. 278 modifica]rumoreggiando, fischiando sotto i primi goccioloni del temporale.

Ci volle tutta la carità, di cui è pieno il libro del breviario che gli faceva gonfia la veste sul petto, perchè don Giosuè si trattenesse dal gridare sul muso del vecchio affarista:

— Ladro maledetto, ti porterà via Belzebù! — «Ci vuol altro — pensava infuriando con sè stesso il canonico — ci vuol altro che predicare pace, conciliazione, misericordia, come seguita a ripetere quell’anima di polentina di don Felice. In questi tempi di affarismo, di ebraismo, di massonismo trionfante, bastoni di ferro bisogna! l’acqua santa non spegne più nemmeno la polvere delle strade. A furia di piagnistei e di fiducia nella Provvidenza ha visto il Papa quel che gli è toccato. Bastoni di ferro! trentamila cani còrsi ci vorrebbero.... a.... a.... Animali!»

Dall’altro cantuccio scoppiavano idee non meno velenose contro gl’intriganti, che speculano sui rintocchi delle agonie, sulle goccie di cera, pipistrelli dell’oscurantismo, mummie tenute su dall’ignoranza dei gonzi....

L’ufficialetto sognava, col sigaro morto in bocca.

Il treno entrò in stazione. Il giovinotto fu il primo a scappar via. Gli tenne dietro il signor Tognino che, colla mano attaccata allo sportello, s’indugiò un istante come se aspettasse il prete: e quando questi gli fu presso, l’affarista sputò sul predellino.

— C’è del marcio... — ringhiò don Giosuè.

La folla li travolse e li separò, mentre l’acquazzone rovesciavasi, crescendo, sulla volta di vetro.

Il sor Tognino prese una vettura e prima di andare a casa volle vedere il notaio, col quale rimase fin verso le nove.

[p. 279 modifica]Giunto a casa un po’ più tardi, trovò sulla porta l’Augusta in compagnia della portinaia e di qualche altra vicina, che a vederlo, gli vennero incontro, esclamando in coro:

— E la signora?

— Che signora?

— La siora Arabella... — ripetè l’Augusta con un tono smarrito.

— Che cosa la siora? — tornò a chiedere il padrone con impazienza.

— Non l’ha trovata? non è con lei? È uscita in principio di sera e non s’è più vista.

— Uscita? — dimandò, precedendo le donne fino in portineria. — Con chi uscita?

— È uscita sola.

— A fare? che cosa ha detto?

— Non ha detto nulla. È uscita di punto in bianco e non si è più vista. E c’è questo tempo in aria, povareta!

— Non capisco nulla... venite di sopra... — brontolò il padrone, continuando la sua strada verso le scale.