Arabella/Parte terza/3
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III.
Un’altra battaglia
Un fruscìo di vesti annunciò la comparsa della bella Olimpia, che avvolta in una candida sciarpa di seta, che le faceva come un cappuccio, si fermò sull’ultimo scalino ad allacciare i bottoni dei lunghissimi guanti di Svezia. Battendo i piedi per la stizza, cantarellò a mezza voce:
— Che stupidi tutti e due!
Arabella fece un passo avanti. Stando sempre dietro la torbida impannata di vetro, ebbe la comodità di contemplare la famosa cantante in tutto lo splendore della sua viva e scenica bellezza.
Era veramente una bella creatura, una bella femmina. La guardò con occhio freddo, quasi come si guarda una straniera, cercando nelle esagerazioni dell’orgoglio tutte le ragioni che potevano sottrarla a dei paragoni umilianti.
La cantante aveva occhi grandi, resi più profondi da qualche breve pennellatura. Il viso aveva tondo d’una bianchezza molle, delicata, incipriata. La sua persona larga e maestosa pareva sfidare nella tranquillità delle mosse e nella sicura imperturbabilità del temperamento gaio e superbo, le burrasche e le cattive stagioni di questa povera vita.
La bella creatura, agli occhi freddi e giusti di Arabella, parve riassumere quasi una massima, che ha le sue basi nella vanità delle cose e che si formola di solito in una domanda semplice e terribile: — Che cosa è la vita senza il piacere?
Arabella, dal suo posto, si saziò nei due o tre minuti che la carrozza tardò a venire, nell’esame spassionato di una donna così diversa da lei, contro la quale non sentiva quasi di nutrir odio, perchè costei nulla aveva rubato che fosse più caro a lei che ad altri, perchè in fondo la donna onesta sentiva che qualche cosa di comune la legava a quella leggiadra civetta nel disprezzo di uno scempio.
Olimpia, quando ebbe allacciato l’ultimo bottone, scese dallo scalino e, sempre canticchiando di stizza, venne verso la portineria, alzò gli occhi, che arrestò con curiosità su questi altri due occhi freddi che la guardavano. E quasi ammaliate l’una dall’altra, stettero poche battute a guardarsi così, a interrogarsi coi sopraccigli, finchè parve a Olimpia di scorgere in quell’occhio fisso una forza irritante che la turbò: dubitò un istante che la bella signora magra l’avesse con lei.
In quel mentre una carrozza si fermò davanti alla porta.
Arabella, suo malgrado, aprì l’uscio forse per andarsene, venne fuori, e si trovò in mezzo tra suo marito e la donna.
Lorenzo trasalì. Fu la scena muta di un minuto secondo, durante il quale Arabella ebbe agio di riconoscere la sua bella fornitura di corallo al collo della preferita. Non aprì bocca, alzò la mano e la lasciò cadere di peso in uno schiaffo nervoso e sonoro sulla gota molle e incipriata di Olimpia.
Il grido che questa gettò, arretrandosi, scosse Arabella dalla fascinazione in cui l’avevano condotta gli occhi grandi e immobili della civetta.
Si svegliò di soprassalto, spaventandosi di ciò che faceva, cercò un’uscita, scivolò, fuggì tra la porta e la carrozza, traversò il Carrobio, infilò una strada semi-oscura, che la menò lontano dal luogo dello scandalo, sostenuta dalla violenza convulsa dei nervi, l’anima fiammante d’una emozione nuova, non mai immaginata, e nemmeno lontanamente sospettata prima, un’emozione di forza, di orgoglio, che non dava dispiacere al cuore, anzi rinvigoriva il coraggio, aizzava al combattere. Perchè l’aveva percossa? chi l’aveva trascinata? non era forse un sogno?
Non era venuta per far scene e per avvilirsi in una ignobile avventura di palcoscenico. Doveva dunque credere che un’altra donna avesse a un certo punto schiamazzato e operato in lei. Come non provava alcun rimorso di ciò che aveva fatto? Sentivasi anzi più bene, più libera, più sollevata, quasi più appagata nel suo diritto e nella sua vanità. Aveva battuto; aveva schiaffeggiato; la bandiera della insurrezione era sollevata; nessuno, nè la legge, nè gli uomini, nè le donne, tranne forse le buone monache, potevano darle torto. Ma che sanno le buone monache di tutte queste meschine faccende?
Camminò per fuggire presto per vie che s’infilano l’una nell’altra senza scegliere la sua strada, senza guardare ai nomi e alla meta, purchè andasse lontano da quell’antro maledetto. Temeva che Olimpia chiamasse gente e la facesse inseguire. Perchè l’aveva battuta? Oh se avesse potuto risvegliarsi da questo brutto sogno!
Per le vie di San Sisto, dei Morigi, di Brisa, vecchie strade che si contorcono sulla pianta del vecchio Milano, si trovò in un piazzaletto più largo, confluente di cinque o sei strade maggiori, tra più spesse botteghe, in un luogo ignoto, dove la vista di un orologio elettrico la richiamò al senso del tempo e delle cose di quaggiù.
Ove andava? per di là la strada menava nelle vasta oscurità di piazza Castello.
Da cinque minuti ad alcuni goccioloni di preavviso seguitavano i primi scrosci di un temporale che pesava da un’ora come una cappa di piombo sui tetti di Milano. A man dritta, verso il centro della città, guizzava il lampo in una nuvola nera senza contorni.
Ove andare? a casa no, no, per il suo diritto, per la sua dignità, per la sua liberazione!
Al primo scroscio traversò correndo il largo del crocicchio e corse a raggiungere la casa dall’altra parte, cercando rifugio sotto la gronda, dove l’acqua batteva meno sviata dal vento, rasentò un gran caffè pieno di ufficiali; e qui la colse un senso di raccapriccio, di scoraggiamento, di una paura grande, che somigliava ai terrori della morte. Che cosa aveva fatto? dove andare?
Dio volle che dalla piazza Castello venisse a gran corsa una vettura. Alzò il braccio, agitò il guanto che stringeva ancora come l’impugnatura d’una spada e la carrozza (mandata dal suo angelo custode) venne ad arrestarsi davanti. Pronunciò il nome di una via con un numero e vi si rifugiò. Il cavallo spronato dall’acqua e dalla frusta corse a saltelloni davanti a case e in mezzo a viuzze interminabili, trascinando il legno, facendolo trabalzare agli svolti e sopra le rotaie di ferro. Arrivò finalmente dopo un quarto d’ora, trafelato, irritato anche lui, in un piazzaletto deserto presso una chiesa e si fermò davanti a una porticina.
Il fermarsi improvviso che fece la carrozza scosse Arabella da quello stato di assopimento in cui s’era abbandonata nell’appoggiare la testa alla parete del legno, nel chiudere gli occhi, nel lasciarsi cullare e stordire dal rumoreggiare delle ruote.
Saltò in terra, mise nelle mani del cocchiere il prezzo della corsa, e, senza dire una parola, sparve nell’andito oscuro della porticina, e al buio, cercando a tastoni una scaluccia, giunse sopra un ballatoio che dava verso il cortile.
Un sogno non avrebbe potuto essere più sogno di questa lugubre realtà di trovarsi a nove ore di sera sopra il ballatoio di una povera casa, in luogo sconosciuto, esposta al vento e alla pioggia, che strepitava in un cieco cortile, dove certe piantone nere si agitavano e stormivano nell’ombra.
La casa pareva deserta. Solamente un quadretto di luce, sfuggendo da una finestra, andava a sbattere sul fondo verdone di un castagno amaro, che riempiva de’ suoi rami l’angolo del cortile.
Arabella, camminando rasente il muro, lungo il ballatoio per non essere battuta dalla pioggia, picchiò leggermente nella finestra illuminata.
La Colomba, col capo ravvolto in un fazzoletto di cotone, dall’orlo del quale uscivano alcuni pizzi di capelli bianchi, cogli occhiali sul viso, aprì la finestra, e sollevando la lampadina a petrolio che impallidì al soffio dell’aria, domandò:
— Chi è?
— Sono io, Colomba.
— Chi? — chiese un’altra volta la donna, mettendo fuori il capo.
— Sono l’Arabella.
— O santa Maria Maddalena!
— Aprite l’uscio.
— Passi di là. Vengo subito. O santa Madonna del Rosario!
E corse ad aprire la finestra ad uscio, che dava direttamente sul ballatoio.
— Lei? ma è proprio lei? con questo tempo? cari angeli, ci porta qualche buona notizia?
— Lasciatemi sedere.
— Cara vita mia, è tutta un’acqua. Da dove viene? Aspetti che ora faccio un po’ di fuoco. Si sente male?
— No, abbiate pazienza. Lasciatemi tranquilla un momento. Ora vi dirò tutto.
— Qualche altra disgrazia? si segga, riposi: già, non mi aspetto più nulla di bene.
— Ferruccio?
— Hanno voluto quasi ammazzarlo. L’hanno buttato in terra, percosso alla testa, peggio degli assassini di strada. Poi dette fuori la febbre, il delirio, la congestione che ha tenuto sospeso il dottore fino a stamattina. Oggi s’è un poco risvegliato; ma pareva diventato matto quando la febbre me lo bruciava vivo. Se non divento matta anch’io, è perchè il Signore vuole che io rimanga a soffrire per me e per gli altri, per i vivi e per i morti. Si asciughi i piedi. Da dove viene con questo tempo?
— Son venuta a cercarvi una carità. Lasciatemi qui fino a domattina.
— Io usare una carità a lei?
— Vengo qui dopo aver schiaffeggiata una donna. Sentite, tremo tutta.
— O santa pazienza, che cosa mi dite?
— Non vi ha mai detto Ferruccio che mio marito manteneva un’amante?
— O poverina, capisco che abbia a tremare. Come l’ha saputo? e ha avuto il coraggio? oh quanti mali ci sono nel mondo, vero, pover’anima? Adesso si calmi; taccia, riposi. Le farò scaldare una goccia di caffè. L’ha presa a schiaffi? capisco, ci son certe cose... Non parli adesso. Lasci quietare il cuore. Vado un momento a veder quel figliuolo... Intanto prenda. Questa è una corona benedetta al santuario di Caravaggio. Se anche non si sente di pregare, se la tenga nelle mani. In certi momenti le nostre forze non bastano e bisogna attaccarsi a qualche cosa di più forte. Del resto, viva la sua faccia! se l’ha presa a schiaffi...
In queste parole la Colomba gironzava per la cucina, mettendo le mani sulle cose senza concluder nulla. Finalmente si ricordò d’aver promessa una goccia di caffè e accostò un bricco nero e affumicato al fuoco. Poi andò nello stanzino a vedere Ferruccio, che giaceva assopito colla testa avvolta in pezze ghiacciate. La zia Nunziadina, seduta ai piedi del letto nell’ombra oscura del paralume, faceva la calza.
Dopo la benedizione che la povera nanina aveva fatta dare a sue spese a San Barnaba, Ferruccio cominciò subito a migliorare: perciò il cuore della zia aveva qualche ragione d’essere più contento e di sperare.
— Chi è venuto? — chiese sottovoce alla Colomba.
— È la sora Arabella, ma non disturbarla: va in letto a riposare, che resto io.
— Ha aperto due volte gli occhi.
— Ha cercato da bere?
— Gli ho dato due cucchiai di acqua e zucchero.
Il vento e l’acqua infuriavano sui tetti.
— Par la fine del mondo — mormorò la zia Colomba.
Arabella, cogli occhi fissi alla lingua di fuoco che serpeggiava nel vano nero del caminetto, si abbandonò col pensiero e si lasciò assorbire nella sua stanchezza dai bagliori della fiamma.
Si dimenticò, pesando col corpo sulla povera scranna di paglia, come chi sta per addormentarsi dopo un lungo e faticoso cammino. Anima e corpo sospiravano un minuto di riposo, dopo la gran corsa attraverso alle strade e alle persecuzioni umane.
Il volto, fatto più acceso dall’affanno e dai riverberi del fuoco, splendeva d’una bellezza più asciutta e più vigorosa, in cui gli occhi neri, forti e risoluti, mandavano dei lampi insoliti. Il piccolo berretto o tocco di astrakan, che le copriva a stento la cornice dei capelli, dava alla fuggitiva un carattere ardito di viaggiatrice, un’aria straniera al suo carattere, un non so che di avventuroso, che sarebbe molto dispiaciuto alle buone madri canossiane.
— È un tempo indiavolato! — disse la Colomba, rientrando e mettendosi in ginocchio davanti al fuoco. Le due donne rimasero così un po’ di tempo in silenzio, mentre il bricco cominciava a fremere nella brace e a mandar bollicine dal becchetto. Ravviato il fuoco, la Colomba tolse dalla dispensa una bella chicchera dall’orlo rosso e servì il caffè.
— Si scaldi lo stomaco, poveretta: il caffè rianima. Io non vorrò niente altro in punto di morte. Possiamo farci compagnia, mentre quel povero ragazzo è quieto. Lei dunque ha saputo, e ha dato un paio di schiaffi a quella... E ora non vuol tornare a casa?
— No.
— Andrà a casa, dalla sua mamma?
— Non so.
— Non sa, cara pazienza? Se io avessi un palazzo a mia disposizione, sarei così contenta di offrirglielo.
— Povera Colomba...
— Povera, sì, povera, in tutti i sensi, il mio bene. Eran più di vent’anni che vivevo tranquilla, come se il Signore mi avesse perduta di vista. Non si fa male a nessuno, veramente: e quel poco di bene che si può fare non ci rincresce. Bastò una parola per renderci i più disgraziati del mondo: l’uno è in prigione, l’altro in punto di morte, Nunziadina è convulsa per lo spavento, e io non so se sono di questo o di quell’altro mondo. Vede dunque che tutti abbiamo le nostre tribolazioni e forse le più grosse non sono ancora quelle che si possono contare.
La pioggia verso mezzanotte cominciò a calare, e prese più fiato il vento che scendeva a mugolare nella canna del camino. Le due donne rimasero un pezzo in segreti discorsi nella luce del fuoco. Arabella contò le sue passioni, colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo.
— Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio.
— Sulla scrivania di Ferruccio c’è carta e penna. Venga con me.
Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi; e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla mano dell’infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi. Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d’una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura e modesta.
— Ho sete — balbettò sbarrando gli occhi.
Non ben desto, gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell’acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d’una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch’eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi.
— È meno arso di stamattina — disse sottovoce la donna.
— L’occhio lo trovo limpido.
— Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei.
― Povero giovine!
— Vuol scrivere? sul tavolino c’è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo, che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto.
La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso.
Arabella, segregata tra la finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch’erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d’impeto:
«Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell’aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all’ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perchè non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de’ miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio...
Io mi domando se non ho insultato anch’io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose, che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto.
Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perchè io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l’acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest’oggi dolermi con nessuno e invocare l’aiuto di nessuno, perchè ho sempre creduto che avrei vinta da sola l’iniquità della mia sorte; perchè non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perchè speravo ancora nell’aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull’altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l’inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest’oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull’orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev’essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa...»
La mano fu arrestata nella ricerca d’un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua?
La Colomba, rotta dalla fatica, s’era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l’unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d’un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de’ suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all’orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l’oblio. E poichè tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino.
Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un’altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finchè sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino...
Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno.
— Ho sete... — ripetè ancora la voce di poco prima,
La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s’era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere sè stesso.
Arabella versò dell’acqua nella tazza e l’accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo.
— Come si sente?
Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile:
— È proprio lei? — balbettò.
— Vuol bere ancora?
— No, no... — disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione.
— Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?
— No, no... E allungò la mano per prendere quella del suo fantasma.
Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell’infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime.
— Perchè è qui? — interrogò sommessamente.
— Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia.
Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno.
Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l’avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finchè una pennellata di carmino venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l’armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sè la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana saltava in piedi tutta agitata.
— Hai dormito?
— Sì.
— Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch’io un pezzo.
Ferruccio si persuase ch’egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell’impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente:
— O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me...
A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l’aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più.
Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d’ogni destino, assorgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d’amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d’amare e d’essere amata, come il fiore ha bisogno d’aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null’altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate...
Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte.
— Non così, non così la mia creatura... — prese a dirle all’orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. — Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d’oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perchè gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C’è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire...
La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell’altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po’ di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l’Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...