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La luce viva d’un lampo riempì la stanza, e poco dopo s’intese il rumore lontano del tuono, accompagnato da nuovi scrosci d’acqua.
Eran già le undici.
L’Augusta tardava a tornare. Gli sembrò d’essere abbandonato da tutti, e che il tuono, il lampo, la pioggia congiurassero con tutti gli uomini per fargli la guerra.
Riprendendo il filo delle supposizioni, provò di nuovo a immaginare che Arabella avesse veramente sorpresi gli amanti o in un caffè, o in un teatro, o per via, che fosse nata una scena, che Lorenzo l’avesse maltrattata, cacciata via, che le fosse venuto male — era così debole ancora! — che la gente si fosse impadronita di lei, per buttarla domani in bocca alla cronaca delle gazzette.
— Ah se l’ha maltrattata! guai se l’ha toccata! — e tutto contorto nei muscoli, coi pugni stretti, fino a conficcar l’unghie nelle carni, colse sè stesso in un atteggiamento quasi feroce, in atto di scagliarsi contro qualcuno.... Contro suo figlio!
Il rumore d’una carrozza, che risalendo dal Carrobbio venne per tutta la via Torino ad arrestarsi sotto la casa, lo strappò all’aspra battaglia ch’egli combatteva colle ombre e con sè stesso.
Forse era lei: o forse l’Augusta tornava con qualche notizia.
Andò incontro alla donna fino sulla scala.
L’Augusta e il portinaio venivan su cicalando, ed egli cercò d’indovinare dal tono delle loro voci se portavano qualche buona notizia. A un certo punto provò un tal senso di paura, che si nascose nel vestibolo dell’uscio.