Arabella/Parte quarta/5
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V.
Preparativi per la partenza
Arabella promise alla Colomba che si sarebbe lasciata vedere più tardi e andò a fare una visita allo zio Borrola per chiedergli un consiglio.
Gli zii l’accolsero colla gioia con cui avrebbero ricevuta la regina Margherita. Sidonia l’abbracciò un gran pezzo e se la scaldò sul seno, mentre lo zio Mauro faceva mettere una posata di più in tavola. La zia, dopo averla carezzata come un micio, si congratulò di trovarla bene in salute, le parlò del povero Lorenzo che faceva pietà, si rallegrò con lei che tutto fosse finito colla pace di tutti. Arabella aveva fatto un gran bene, ma poteva farne dell’altro. — I buoni zii erano disposti a transigere, e a contentarsi di poco; ma Arabella avrebbe dovuto persuadere Lorenzo a tener conto che la zia Sidonia non aveva ancor ricevuto l’ultimo residuo della sua dote, causa di vecchi rancori tra lei e suo fratello Tognino, il quale era morto senza aver regolata la posizione. Poichè da tutte le parti si parlava di conciliazione e di amichevoli accomodamenti, la zia sarebbe stata contenta di aggiustare anche questo arretrato (un’inezia di dieci o dodici mila lire) una cosa subito fatta, quando Arabella suggerisse una parolina all’avvocato.
Essa rispose tre volte di sì senza afferrare una sola parola di tutto questo grande discorso. Lo zio Mauro si offrì di presentarla all’arcivescovo, un venerando prelato che... ma Arabella gli troncò le parole in bocca per raccontargli il caso di Ferruccio. Bisognava fare in modo che quel povero ragazzo potesse lasciare il paese. Era un dovere di tutti i parenti di proteggere un giovine onesto, che scontava le conseguenze di colpe non sue. Ai mezzi avrebbe provveduto essa stessa, ma bisognava indirizzarlo...
— È il caso nostro — esclamò lo zio Borrola — Vado subito a parlarne all’amico Vicentelli, che sta per inviare in America tutto il materiale della Forza del destino. Se siamo ancora in tempo, non saprei trovare una più bella occasione per un giovine che vuol cambiar aria e tentare la sua fortuna.
Anche la zia Sidonia prese vivo interesse a questo caso doloroso, in cui vedeva coll’anima dell’artista un non so che di drammatico e di avventuroso. La ribellione all’autorità, costituita già nell’indole sua, era cresciuta il giorno che a Parigi alcuni gardiens de la paix avevano battuto e maltrattato un caro suo cagnolino terrier, mentre l’imperatrice Eugenia passava in carrozza sulla piazza Vendôme.
Arabella uscì collo zio Mauro, e non si dette riposo, finchè non ebbe parlato col signor Vicentelli. C’era ancora l’occasione, ma non bisognava perder tempo. Il piroscafo doveva lasciar Genova ai quindici del mese e bisognava trovarsi sul posto qualche giorno prima. Il giovine avrebbe viaggiato col direttore della compagnia, uomo pratico, che aveva fatto più volte la traversata dell’Oceano. Una volta a Buenos-Ayres, avrebbe giudicato lui stesso della convenienza o di restare colla compagnia in qualità di contabile, o di cercarsi un altro posto. Chi ha qualche soldo in tasca è sempre padrone del mondo.
Arabella verso sera tornò a veder Ferruccio e la Colomba in via S. Barnaba. Sedettero nell’apertura della finestra, dopo aver socchiuso l’uscio della stanza per non farsi sentire dalla Nunziadina malata.
— Ciò che importa maggiormente adesso è che lei salvi il suo onore — cominciò a dire la signora, volgendosi al giovine, e parlandogli col tono rispettoso, che aveva sempre usato con lui, come se passato il pericolo, ciascuno ricuperasse il suo posto. — Per quante giustificazioni noi potremo dare a noi stessi e alla gente, è inutile, non potremo impedire che il suo nome resti su quei registri e che la giustizia umana faccia di lei un brutto arnese. Non è così, Colomba?
— Meglio morire che andar là dentro — soggiunse la vecchia.
— Ferruccio non deve nemmeno morire. Egli è giovane, è buono, è onesto, vero Ferruccio? sa meglio di noi che nell’onore è il coraggio, è la vita: sa che noi gli vogliamo bene.
Essa gli prese la mano e lo guardò negli occhi.
— Che cosa devo fare? — sillabò il giovane a testa bassa.
— Partire. C’è una buona occasione. Guardi. — Essa presentò una lettera con un piccolo manifesto stampato. — Mio zio assicura che Vicentelli è un galantuomo e che il direttore è persona prudente. Ella non avrà che d’aiutarlo a tenere i conti della compagnia, e intanto si vedrà quel che si potrà fare. Ma bisogna partir subito sabato...
— Dopodomani? — chiese la Colomba, sbarrando gli occhi e alzando le due mani in aria. — Ed è molto lontana questa città... come si dice?
— È un poco lontana, ma noi gli procureremo delle raccomandazioni. Le mie monache vi devono avere una casa. Gli daremo del denaro abbastanza perchè non abbia a soffrire. Ferruccio ha del coraggio e saprà fare laggiù quella fortuna che non gli lasciano fare a casa sua. Non c’è più nulla di buono da raccogliere in questo vecchio paese. Il signor delegato ha promesso di aiutarci e farà avere stasera un buon attestato. Niente lo lega al suo paese. Vorrei esser libera come lui! veder del mondo, veder della gente nuova...
E poichè Colomba chinava la testa avvilita, Arabella si chinò verso di lei e le disse piano:
— Non aspetterete che ve lo maltrattino, come avete visto fare a quel ragazzaccio...
E a Ferruccio, che la contemplava con occhio fisso e brillante, disse:
— Lei non si lascierà mettere le mani addosso.
Il giovine scattò dalla sedia e mosse alcuni passi sul ballatoio, colla testa bassa, colla mano dentro i capelli. Quando tornò nel vano della finestra, esclamò:
— Va bene, son pronto.
— Tu, tu non lo dirai a quella povera donna — singhiozzò la zia Colomba, indicando l’uscio della malata. — Basterebbe a farmela morire, allora resterei qui sola come un cane. A lei e a tuo padre diremo che hai accettato il posto che ti ha offerto il padre Barca, che parti per qualche tempo per Genova.
La povera donna, portatosi il grembiule agli occhi, cercò di soffocarvi dentro il gran pianto e la passione che rompevale lo stomaco. Ferruccio le circondò la testa col braccio e vi posò le labbra un pezzo, senza piangere.
Toccava all’Arabella di far cuore a tutti e due. In quanto alle spese non vi dovevano pensare: essa lasciò subito del denaro per i primi bisogni. Non occorrevano grandi preparativi. Bastava una valigia colle cose più necessarie; perchè Buenos Ayres è paese civile e ci si trova tutto. Per non dar sospetto alla zia Nunziadina era bene che Ferruccio preparasse le sue quattro robe nell’ammezzato, dove all’indomani essa avrebbe portato il denaro del viaggio. In quanto alle donne e a suo padre, Ferruccio non doveva aver pensieri. Casa Maccagno era in obbligo di dare una riparazione, e non per nulla essa aveva perdonato il male che le avevano fatto.
In questi discorsi venne la sera. Prima che fosse buio del tutto, Arabella si alzò, e accompagnata dal giovine, andò a cercare ospitalità in casa dell’Arundelli, che per farle posto dovette mandare il marito a casa della nonna.
Le due compagne di Cremenno passarono tutta la notte a discorrere di questi grandi avvenimenti, che tenevano la Pianelli in uno stato di febbrile orgasmo. Si vedeva dalla sua inquietudine e dalle sue parole eccitate e nervose che aveva nel cuore una grande ribellione, qualche cosa che non vi doveva essere. La buona e pia Arabella non solo parlava male della giustizia umana, ma parlava troppo di quel benedetto giovine. Temeva che il delegato non avesse a mantenere la promessa: che lo avessero ad arrestare a tradimento: che avesse a commettere un atto di disperazione. E in queste spine si voltò cento volte nel letto, sospirando, rompendo il sonno della compagna, ritornando cento volte su delle questioni che finirono coll’impensierire l’Arundelli.
Appena giorno fu subito in piedi.
Si vestì, uscì con un pretesto, promettendo di tornare, corse a S. Barnaba per accertarsi che non lo avevano arrestato. Lasciò detto alla Colomba che verso mezzodì li avrebbe raggiunti in via Torino, nello studio, e appena le parve un’ora conveniente, si recò in piazza di S. Ambrogio in cerca dell’avvocato. Questi l’accolse cortesemente e non esitò a consegnarle tremila lire, di cui essa lasciò una ricevuta; e stava per andarsene, quando il Mornigani venne ad annunciare il signor Lorenzo.
— Bravo, non avrebbe potuto arrivare più a tempo — esclamò l’avvocato — e poichè domani dobbiamo trovarci tutti insieme alle Cascine a benedire col vino bianco questa bella conciliazione, permetta cara signora, che io ne pregusti le primizie. Brava, eccolo qua...
Lorenzo, nel rivedere sua moglie, abbassò la testa e si fermò sulla soglia, come un ragazzo timido e pentito, che aspetta il perdono della mamma.
— Avanti, e stringiamoci la mano, cari figliuoli — declamò l’avvocato con un tono paterno e religioso. — Così, bravi! e non si parli più di quel che è stato.
Arabella prese la mano che Lorenzo, commosso fino alle lagrime, le stese, e parlando a monosillabi, accettò, acconsentì a tutto quello che l’avvocato credette utile d’aggiungere, come se in fondo non si trattasse di lei. E le parve di intendere che Lorenzo si sarebbe recato alle Cascine quel giorno stesso, col tram delle quattro, per accondiscendere all’invito della mamma, che aveva preparata una dolce congiura. Avrebbero potuto tornare insieme e fare ai parenti una bella improvvisata.
Mentre un’Arabella rassegnata e indulgente diceva di sì e rimettevasi alla volontà degli altri, un’Arabella più nervosa, meno buona, quasi straniera alla prima, usciva da lei a combattere una battaglia in cui aveva bisogno di restar vinta.
Lasciò suo marito ai grandi affari e se ne venne via col desiderio di trovarsi ancora collo zio Borrola, che aveva delle conoscenze in America e poteva dare delle buone lettere di presentazione per Ferruccio.
Passando dalla chiesa di S. Giuseppe, un bisogno del cuore la condusse a pregare un istante ai piedi di un altare. S’inginocchiò, fissò gli occhi sopra un quadro in cui era dipinto il Transito del santo in mezzo a due schiere d’angeli, e pregò un pezzo cogli occhi, come se non avesse più la forza di formulare col pensiero un’aspirazione.
La chiesa raccolta, gelida, immersa in una luce squallida, le mise indosso dei brividi di freddo. Si scosse, venne via, traversò la piazza della Scala e le strade popolate, pensando a nulla, cedendo, più che obbedendo, alla necessità che la riconduceva a rivedere la sua casa. Non pioveva ancora, ma c’erano in aria dei brutti segni. Era una giornata bigia, malinconica, svogliata, col cielo chiuso.
Domandò alla portinaia la chiave degli ammezzati e per la scala di servizio entrò nello studio di suo suocero, ancora ingombro di carte e di mobili, che si rimpiattavano nell’uggia e nell’oscurità di quella giornata semipiovosa.
Passò nella seconda stanza e vi trovò della roba sparsa sulle sedie. C’eran dei libri, della biancheria. Ferruccio non aveva perduto tempo e stava preparando gli effetti di viaggio fuori dagli occhi della zia Nunziadina.
Una valigia nuova era aperta sul canapè. Il giovane era uscito per presentarsi al signor Vicentelli; ma aveva detto alla portinaia che sarebbe stato subito di ritorno.
Arabella raccolse alcune cosuccie e cominciò a collocarle nella valigia, come aveva fatto molte volte pe’ suoi fratelli alla vigilia del loro entrare in collegio.
I rumori della città viva e grande che agitavasi intorno venivano dalla viuzza a urtare contro la polverosa finestra di quell’antro offuscato, in cui l’odor di chiuso s’inaspriva nell’acredine del vecchio inchiostro. Un cappello molle di campagna, dimenticato sull’attaccapanni, richiamò la memoria di un uomo, che aveva finito di combattere le sue battaglie. Dio può perdonare al peccatore, ma i frutti del male devono di necessità rigermogliare sulla terra.
Isolata nel suo dolore essa non viveva che di questo, come se ogni altro sentimento l’avesse abbandonata; e nel suo sentimento cercò d’immergersi, sperando di trovarvi l’attutimento dei sensi. Piangeva in silenzio, d’un pianto interno, su chi partiva e su chi restava, mentre le mani rimestavano macchinalmente nella sacca.
Tra le carte sparse sulla scrivania riconobbe dei foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera, che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsele con sè come una reliquia.
Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il suo ritratto d’altri tempi, e si ritrova diverso, pur riconoscendo sè stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse più morto.
Sul rovescio d’una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze:
«Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei bassi egoismi.
Vi è qualche cosa di più triste che l’esser soli: è il non poterlo essere, quando lo si sospira.
Morir soli è triste. Ma più triste è dar spettacolo della propria agonia in una fiera.
Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa.»
Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio, entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia.
Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch’egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui e fuori di lui.
Quando essa si accorse ch’egli era presente, gli disse senza turbarsi: — Leggerà, è un mio ricordo. Le ho portato il denaro per il viaggio. Son tremila lire che potrà far cambiare in oro a Genova. Questo denaro è mio, e intendo che lei lo abbia a ricevere come un’indennità ai danni morali e materiali che abbiamo recato a lei e a suo padre.
— Lei?... — balbettò il giovine, quasi protestando.
— Sì, noi tutti... via! non stia a distinguere. Spero che il signor Galimberti avrà mandato l’attestato promesso. Vada con coraggio: suo padre riavrà il suo posto e non mancherà di nulla. Queste son due lettere per un’Agenzia teatrale di Montevideo: e se si ferma qualche giorno ancora a Genova, avrò tempo di farle pervenire qualche altra commendatizia per i padri Cappuccini di laggiù. Sono raccomandazioni che litigano un poco tra loro — soggiunse ridendo, per rompere la malinconia di quel discorso — ma in un paese lontano si può aver bisogno di tutti. Lei saprà distinguere, del resto. Ha parlato con Vicentelli?
— Sissignora, pare che fino a lunedì non si possa partire.
— Avrei piacere che potesse partire più presto. Per fortuna abbiamo un buon angelo nel delegato: possiamo stare coll’animo tranquillo. Ho qualche obbligazione anche verso la buona zia Colomba. Se potessi vederla prima di andar via...
— Verrà qui a momenti.
— Se non la vedo, la preghi di accettare questa spilla in memoria della carità che mi ha fatto... — Si tolse dal petto una spilla d’oro e la consegnò al giovine, che mormorò qualche parola di ringraziamento.
— Mi mandi qualche volta le sue notizie. Intanto io non tralascerò dal far le pratiche, perchè le sia levata anche questa piccola condanna. Farò parlare e andrò io stessa dall’arcivescovo, che dice di aver verso di me qualche obbligazione. Monsignore è in buoni rapporti colla Corte e so che in certe occasioni quando non si tratta di delitti comuni, si concedono amnistie speciali. Intanto non è male vedere dei paesi nuovi.
Ferruccio, appoggiato colle spalle allo stipite dell’uscio, trasse un sospiro coperto come se patisse in sogno. Cogli occhi bassi, pareva tutto occupato a decifrare i disegni di un fazzoletto, che teneva stretto e teso in uno sforzo nervoso colle due mani.
Arabella si mosse e toccò qualche libro di quelli che erano sparsi sul tavolo e sulle sedie.
— Questo è latino: bravo. Un Virgilio... Fa bene a tenersi in esercizio. Badi a non diventarmi un cappuccino anche lei...
E si volse a ridere ancora per invogliare il giovine a uscire da una tristezza, che li avviliva entrambi schiacciandoli. Vedendo ch’egli non osava alzare gli occhi dopo aver accomodate alcune cosuccie nella valigia, la signora si aggiustò un lembo del velo sul capo e sulle spalle, guardò a lungo l’orologio per fissare l’animo e la volontà in uno sforzo supremo sopra un oggetto che la sostenesse, e quasi correndo verso di lui gli tese la mano con piglio soldatesco, esclamando:
— Dunque, addio!
Ferruccio vacillò, appoggiò le braccia al muro, alle braccia appoggiò la testa per nascondere e per soffocare un pianto, che non era più capace di dominare.
Arabella si passò lievemente la sinistra sul volto per rimuoverne una nuvola oscura che l’avvolse, socchiuse gli occhi con un abbandono d’infinita stanchezza, si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle, vi si appoggiò, e parlandogli nell’orecchio, ebbe ancora la forza di aggiungere:
— Senti, anch’io ho bisogno di coraggio. Il tuo piangere mi avvilisce. Anch’io devo partire tra pochi minuti. Mi aspettano... Se è vero, Ferruccio, che tu mi vuoi un poco di bene, non devi farmi soffrire così.
Il figlio della povera Marietta a quella voce che spasimava si rivolse, si drizzò sulla persona, e premendo il fazzoletto sugli occhi, cercò anche lui di essere forte: ma non potè dire che queste due parole: Madonna, aiutatemi...
Era accecato dalle lagrime e dal dolore. Sarebbe forse stramazzato in terra, se le due braccia della signora non l’avessero stretto e sostenuto. Sentì il calore d’un viso ardente sul suo: sentì sulla fronte e sui capelli una furia di baci ardenti, sentì due mani gelide che gli serravano la testa: ma non osò, non potè aprire gli occhi. La sua vita precipitava in un abisso vuoto, oscuro, senza fondo.
La Colomba, che entrata non vista, assisteva da mezzo minuto a quella scena, cercò di separarli. — Certo che voi morirete e ci farete morire anche noi. O Madonna dell’afflizione, abbiate misericordia! — E strappando Ferruccio per un braccio, gli disse con accento sconvolto misto di pietà e di rimprovero: — Basta il patimento, Ferruccio. Basta, per amore della tua mamma. E tu, figliuola, vieni con me. Non sta bene. È una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l’aiuto di Dio.
Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di menarla fuori, nell’altra stanza, dove, carezzandola e persuadendola: — Andiamo — le disse — non si faccia vedere così: non sta bene. — Chiuse l’uscio dietro di sè, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi.
Non sta bene neanche per l’anima. Offra al Signore quest’altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per il bene che gli vuole, ma vada via, vada via.
E bel bello la spinse fin sull’uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con un moto sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell’uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall’altra stanza, fece l’atto di gettarsi ancora verso la porta: ma la Colomba le si avviticchiò alla persona: — No, lascialo stare, lascialo piangere...
Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.