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— Basta il patimento, Ferruccio. Basta, per amore della tua mamma. E tu, figliuola, vieni con me. Non sta bene. È una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l’aiuto di Dio.

Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di menarla fuori, nell’altra stanza, dove, carezzandola e persuadendola: — Andiamo — le disse — non si faccia vedere così: non sta bene. — Chiuse l’uscio dietro di sè, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi.

Non sta bene neanche per l’anima. Offra al Signore quest’altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per il bene che gli vuole, ma vada via, vada via.

E bel bello la spinse fin sull’uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con un moto sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell’uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall’altra stanza, fece l’atto di gettarsi ancora verso la porta: ma la Colomba le si avviticchiò alla persona: — No, lascialo stare, lascialo piangere...

Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.