Arabella/Parte quarta/6
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VI.
La morte è buona.
Uscì sospinta da una forza maggiore della sua volontà, nella fiducia che l’aria aperta avrebbe dissipata la fiamma, che divoravale la testa.
Il tempo, che per chi soffre è il miglior elemento della vita, senza ch’ella se ne avvedesse, era volato durante quella giornata piovigginosa nelle varie corse attraverso alla città; talchè, quando scese le scale, eran quasi le quattro.
Passò di nuovo in mezzo alla gente col passo rotto di chi non sa dove va, col cuore in tempesta, colla mente intorbidita da una violenta emozione, cacciata avanti dal pensiero che qualcuno l’aspettava alla stazione del tram di Lodi, e che alle Cascine, da dove era partita così improvvisamente, dovevano essere inquieti di non vederla ritornare. La mamma aveva preparata una dolce congiura, e domani, anzi stasera, essa doveva essere là al suo posto, ad una festa di perdono e di conciliazione. Il suo dovere era là: tutto il resto non era che passione inutile.
Questa idea a poco a poco divenne così netta e precisa, in mezzo alle mille altre che l’assalivano, che come una fiamma accesa in fondo a una landa oscura, aiutò a guidarla in mezzo alle varie strade della città e a condurla verso Porta Romana.
Giunta sul piazzale, fuori di porta, dov’era una brutta stazione di legno, chiese ad alcuni uomini l’ora della prima partenza. Sentì che mancava una buona mezz’ora. Indecisa, se tornare indietro o se rifugiarsi nella baracca, parendole che il tempo fosse sicuro e che gli uomini la guardassero con sfacciata insistenza, spinta forse anche dal bisogno di rompere con una forte fatica e di domare un cattivo spirito che l’aizzava, prese a camminare avanti, verso le ultime case del sobborgo dove il tram fa di solito una breve sosta prima d’infilare la stradale. La tratta non è lunga, l’aria umida e fresca faceva bene, e più bene ancora il piacere di essere sola.
Passati gli ultimi casolari, che si distaccano dal corpo massiccio della città come rari e sparsi scogli alla punta di un promontorio, si trovò presto nella campagna aperta, senza un’anima viva intorno, perchè le frequenti pioggerelle del giorno avevano spopolato i campi.
Credette di sentirsi meglio, quando fu sola e che le parve d’essere abbandonata. Se avesse ceduto alla tentazione del cuore, avrebbe lasciata anche la strada maestra per mettersi attraverso i campi e perdersi nei prati che affondano nel guazzo e nella nebbia.
«A che prò Dio le aveva fatto conoscere questo affetto, se anche questo doveva diventare nel suo cuore uno strumento di tortura? non era più sicura nella sua ignoranza? Ora comprendeva, e troppo tardi, che cosa sia per una donna amare. Ora solamente e inutilmente entrava nello spirito delle parole grandi e divine che amore ha ispirato in tutti i tempi. Se fino a ieri, per non dire fino a poche ore fa, essa non aveva amato che come una sorella, come una madre, come un’anima buona e pietosa, un poco per dovere, un poco per naturale compassione, un poco per incapacità ad amare diversamente; ora sentiva d’essere non più una collegiale, ma una donna. Il suo cuore ardeva... A che pro? chi l’aveva trascinata in questo fuoco? Perchè invece di rifugiarsi alle Cascine, non tornava indietro a dividere con quel povero giovine i pericoli dell’esilio? Vivere, lavorare, patire insieme a lui, in una remota parte del mondo, amarsi sopra uno scoglio, morire con lui...»
Ah! non era lei che pensava queste cose. Era la febbre, era la gran sete che la faceva delirare.
Le gore che stagnavano all’orlo della strada, l’attiravano con malsani luccicamenti a gettarsi nell’acqua nerastra e livida, tanta era l’arsura.
«Perchè doveva nutrire della sua vita fatta a brani il pacifico egoismo di tutti gli altri? perchè vietare a sè stessa un’ora di follìa? che cosa poteva fare per avere un’ora di felicità? che cosa aveva commesso nella sua vita, perchè non potesse essere contenta mai, mai, mai?»
Le sue idee a un tratto si rischiararono. Si ricordò che aveva consacrata la sua esistenza a Dio in espiazione dell’anima di suo padre suicida. Dio l’aveva accettata: ma aveva scelto lui l’altare e la forma del sacrificio.
Non era lei che parlava, ma parlava la febbre che le abbruciava gli occhi, che le faceva veder rossa la strada e color del sangue le pozze d’acqua dentro le carreggiate.
Per quanto le repugnasse di tornare nelle braccia d’un uomo che non amava: per quanto il mentire fosse contrario alla sua natura, con tutto questo non poteva dire a’ suoi parenti: — Pensate quel che volete voi, ma ogni conciliazione è impossibile. Io non resto più. Vado via, vado a morire in un paese lontano, tra altri barbari meno feroci di voi. — Come dire queste orribili cose a sua madre, a suo marito, al suo benefattore? Son gridi che una esaltazione febbrile può strappare dal cuore: ma fin che resta in mezzo al male un filo di coscienza e di ragione, c’è sempre qualcuno dentro di noi che si ostina a ripetere: — Impossibile, impossibile! — Essa stessa andava avvertendo nel suo modo di ragionare un non so che di spezzato, d’intermittente, come se in lei dialogassero due persone, come se tutto il suo essere si sdoppiasse, come se due donne corressero di pari lungo i regoli del binario alla luce d’una vampa. La febbre suscitava in lei una nervosa energia di pensiero. La sete, il caldo, mandavano al cervello grosse e deformi le ombre fantastiche, congiuravano a rendere gigantesco e spaventoso il suo patimento, a sconvolgere il senso delle cose.
Quando dal cuore i mali salgono al capo, quando da ventiquattro ore ti pesa una brace sul petto, quando la sete ti divora le viscere, la vita diventa un sogno, i sogni ridiventano la vita: il vero e l’ombra si mescolano: non sai fin dove vaneggi e fin dove soffri davvero. Forse ti pare di correre sopra uno stradale lungo, interminabile, melmoso, in una bigia, interminabile giornata: e tutto ciò non è che lo sforzo impotente che tu fai nel tuo letto per rompere un vaneggiamento febbrile, per uscire da un fastidioso delirio.
A un certo punto lo schioccare d’una frusta la richiamò al senso della realtà. Essa aveva già oltrepassato il palo che segna la fermata. Le parve che un uomo dietro di lei le gridasse qualche cosa di seccante, di inafferrabile, e affrettò il passo, persuasa che il suo dovere fosse di correre sempre avanti per arrivare più presto alle Cascine, per salvarsi da una tentazione, per gettarsi a’ piedi de’ suoi a chiedere perdono.
Più camminava però e più sentiva le gambe farsi pesanti e le vesti intralciarsi al passo e avviticchiarsi come drappi umidi: e il piede sprofondare in un pantano di materialità ributtante e grossolana, in cui spiccicavano delle idee non meno ributtanti e grossolane.
Il rimorso, ritrovandola così debole e sconvolta, tornava a riprendere d’assalto la debole coscienza della monachella e diceva: — Vergognati! hai lasciata la tua casa, hai abbracciato e baciato vergognosamente un povero giovinetto, hai sgomentato la sua vergine coscienza, torna a casa, espia, espia...
Non era meglio morire? non incalzava dietro di lei qualche cosa di fatale e di tremendo? Se invece di correre troppo presto verso la sua condanna, avesse rallentato il passo, si fosse sdraiata in terra...? Anche il povero papà era passato per queste spine, per questa strada melmosa, in cui l’anima affoga nel fango. E se non era lui vivo, era il suo fantasma inquieto, che camminava dall’altra parte, lungo il regolo del binario, e che le diceva: — A che giova il tuo sacrificio? tu non lo compi con rassegnazione, e il bene che si fa con rancore non giova nè ai vivi nè ai morti. Tu mordi la tua catena e imprechi contro di me: così siamo due anime perdute. Va a casa, Arabella, abbraccia la tua povera mamma e domanda perdono, perdona tu per la prima... corri, corri: non vedi che piove? corri, vien la macchina...
Il tram a vapore, lasciate le ultime case, veniva veramente per la strada grossa con una crescente velocità, sbuffando e rompendo la nebbia grigia coi due fanali d'un rosso sanguigno.
Arabella nel suo delirio ne aveva più che il presentimento, lo sentiva, lo temeva: ma non sapeva distinguere quanto di vero entrasse nel sogno, e, come chi sogna, non sapeva risolversi. Ma il desiderio della vita la prese. Incapace di uscire dalle due guide, ch'essa vedeva alte come due muri di ferro, cominciò a correre, quanto poteva permettere la strada molle, ingombrata dalle traversine.
Perchè non avrebbe lasciato venire la morte? Molti terrori s'illuminarono nel buio del suo pensiero delirante e vide dentro a un baratro di fuoco gli eterni spaventi del morire disperata. Perchè non usciva dunque dal binario?
La macchina già poco lontana fischiava, la campanella sonava a stormo. Essa fece il segno della croce per resistere alla tentazione di sdraiarsi sul terreno. Era affranta, resa ottusa da un sonno di piombo. La sua fede ripugnava con energica resistenza al suicidio. — Oh no Madonna, no, morire a questo modo.— Perchè dunque non andava fuori di un passo? non poteva. C'eran quei due muri di ferro. Una volta incespicò, cadde sopra un ginocchio, si rizzò subito, prese a correre, a strillare; Gesù, Maria, che sogno!
Dietro di lei molte voci gridavano, infuriavano. Pareva un popolo insorto che l’inseguisse per farla a brani. C’era in quella folla l’Angiolina ortolana. Ne sentiva la voce inviperita. E le parve ancora una volta che papà cercasse di strapparla dal pericolo, tirandola pel lembo del vestito, che si sfilacciava in mano al fantasma. Poi qualcuno nero e duro la prendeva alla vita, la sollevava, la buttava nel fango della strada.
La macchina col treno si fermò a due passi di distanza.
Da un pezzo il macchinista aveva notato la donna che si ostinava a camminare sul binario, e col fischio, colla campana, aveva dato tutti i segnali. Una volta gli parve che la maledetta donna avesse capito, perchè la vide uscire dalle guide, ma subito dopo tornò dentro col passo d’una ubbriaca. Dette il controvapore, strinse i freni. La gente, mettendo la testa dalle finestre, cominciò a urlare. Un giovine fochista balzò a terra, strabalzando, e presa la donna attraverso la vita, arrivò a tempo per un pelo a gettarla in disparte come un sacco di cenci. Molti discesero dai vagoni (c’era anche Lorenzo, che l’aveva cercata inutilmente alla stazione), circondarono la donna, la raccolsero. Venne a passare un carro delle Cascine, ve l’adagiarono, la portarono a casa più morta che viva.
Chiamato in fretta il dottore, giudicò un tifo, gravissimo, forse senza speranza.
Arabella per tre o quattro giorni non fece che delirare e chiamare con alti gridi Ferruccio, la Colomba, il suo papà morto, lo zio Demetrio, suor Maria Benedetta. La voce arrivava fino alla stanza di Angelica, oltre la Colorina. Nell’arsura infernale d’una febbre di quaranta gradi, balzava dal letto e guai se Lorenzo non era presto ad abbracciarla, a riporvela, a tenervela! Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo copriva di oltraggi volgari, finchè rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento.
Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino.
Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi.
Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d’essere invitato a battesimo.
Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finchè le rimase un’oncia di forza.
Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo dorè. Vide se stessa ancor fanciulletta in mezzo a’ suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente. Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata traboccare dall’orlo; e la malata rideva anche lei d’una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perchè Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che c’entrava lui colle ragazze? e perchè tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un’invidia amara, correva a strapparlo via, gridava: — È mio. — Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canerini, che cantavano a stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo...
E in questa felicità la poverina finiva di patire.
FINE