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foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera, che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsele con sè come una reliquia.
Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il suo ritratto d’altri tempi, e si ritrova diverso, pur riconoscendo sè stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse più morto.
Sul rovescio d’una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze:
«Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei bassi egoismi.
Vi è qualche cosa di più triste che l’esser soli: è il non poterlo essere, quando lo si sospira.
Morir soli è triste. Ma più triste è dar spettacolo della propria agonia in una fiera.
Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa.»
Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio, entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia.
Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch’egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui e fuori di lui.