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di ferro e fuoco, che sta per passare. Così cadeste, mentre i vostri fratelli uomini, duri rubesti indomabili e infaticabili come voi, figli della stessa terra che voi, si disperdevano pel mondo, a legioni armate di scure e di zappa, a far le nuove strade per gli altri. Cadeste, e nemmeno i vostri piccoli furono salvi. I possessori vostri, che hanno sì breve età, non amano se non ciò che l’ha anche più breve. I viventi d’oggi abborriscono chi non muore, a lor servigio, prima di loro.

Ma voi siete qui, e di qui vi propagherete ancora ai monti nativi. Siete qui, coi vostri compagni dell’antica selva: con le picee, coi pini, coi cedri, con gli abeti; coi lecci specialmente e con gli olmi1. E là sur un’altura stanno grandi e neri, come in veletta, i ferali cipressi2, ai quali somigliavano sul lido etneo i ciclopi attoniti avanti il mare immenso e la piccola nera nave che lo solcava allontanandosi. È questo il recesso degli usignoli, che si fanno il nido con le foglie morte delle quercie, e cantano prima timidi e interrotti, e poi a distesa, la risurrezione del tutto. Eppure sembra a molti, e sembrò anche a Virgilio, che l’usignolo piangesse, e imaginò che non per l’antica sventura, di quando era donna, piangesse, ma d’un dolore proprio suo; che piangesse i suoi piccini tolti dal

  1. La picea o abezzo in Aen. VI 180, IX 87; il pino, Buc. IV 38, VII 24, 65, Georg. I 256, II 389, 443, IV 112, 141; l’abete, Buc. VII 66, Georg. II 68, Aen. VIII 599, e altrove; l’olmo, Buc. II 70, V 3, Georg. I 170, II 18, 72, 221, 446, IV 144 e altrove.
  2. I cipressi, Georg. I 20, II 84, 443, Aen. II 714, III 64, 680, VI 216.