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noi fuggiamo la patria. A tuo grand’agio, nell’ombra,
Titiro, tu fai dire — Amarillide bella! — alle selve.

E i faggi si stendono in lungo ordine, e fanno grandi viali, e l’ombra delle lor cime tremola da per tutto rendendo imagine di lucertole che guizzino, d’uccelli che frullino, di libellule che ballino. C’erano anche lungo il Mincio i faggi, che perseguitati e fatti a pezzi, d’ogni parte si rifugiarono sugli alti monti, dove speravano vivere in pace ascoltando il mormorio delle polle salubri e fresche. Sì! Anche lassù ascesero i loro nemici con la scure in pugno, e li hanno pressochè scentati.

Diceva un grande Romano: «Portar via, assassinare, rapire, chiamano impero; e dove hanno fatto il deserto...» Impero sì; e sì, il diritto sul quale i nemici delle selve si fondano, e che si dice proprietà, è, col consentimento delle leggi, una violazione cieca feroce tirannica dei diritti altrui, e può paragonarsi all’esercizio d’un impero barbarico.

Ma noi sempre più ci addentriamo nel bosco sacro e dopo i faggi, vediamo i castagni1, gl’italici alberi del pane, d’un pane migliore che di grano, gli alberi che rendono ognuno, e senza lavoro d’alcuno, più farina che una faticosa porca di frumento, e di più aiutano la casa, la stalla, la vigna; gli alberi della provvidenza, gli alberi di Dio! E anche questi, dopo i faggi, noi lasciamo abbattere e sradicare, in nome dell’iniquo privato impero, mentre i nostri legislatori decretano che si seminino e piantino

  1. Il castagno in Georg.. II 15, 71. Le castagne in Buc. I 81 (diricciate, molles), VII 53 (dentro il cardo, sull’albero, hirsutae, esse e perciò l’albero), II 52.