Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/193

Anno 193

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Anno di Cristo CXCIII. Indizione I.
VITTORE papa 8.
ELVIO PERTINACE imperad. 1.
DIDIO GIULIANO imperad. 1.
SETTIMIO SEVERO imperad. 1.
Consoli

QUINTO SOSIO FALCONE e CAJO GIULIO ERUCIO CLARO.

Nella notte precedente al dì primo di gennaio, siccome dissi, accadde la morte di Commodo. Prima nondimeno che si divulgasse il fatto, Leto ed Eletto1530 furono a trovar Publio Elvio Pertinace, che tuttavia era console1531. Egli dormiva, e sentendo che veniva a lui il prefetto del pretorio, s’immaginò quella essere l’ultima sua ora, perchè se lo aspettava, dicendosi che gli era stata predetta in quest’anno. Intrepidamente accolse i due ministri, e rimase ben sorpreso all’intendere che in vece della morte gli esibivano l’impero. La credette1532 a tutta prima una furberia; ma giurando essi, che Commodo non era più vivo, se ne volle chiarire, con inviar uno de’ suoi più confidenti a mirar coi suoi occhi il cadavere dall’estinto principe. Allora egli cedette alle lor persuasioni, e con essi andò al quartiere dei pretoriani. Era molto inoltrata la notte, e fuorchè le sentinelle, tutti riposavano. Leto, esposta la morte di Commodo, presentò loro Pertinace, che dal canto suo promise il consueto regalo; e però tutti, almeno in apparenza, consentirono; ma restarono amareggiati, perchè egli, nell’arringa che fece loro, si lasciò scappar di bocca, che v’erano molti abusi, i quali sperava di levar via collo aiuto di essi. Sospettarono coloro, che volesse spogliarli di quanto avea loro prodigamente donato il morto imperadore. Oltre di che, avvezzi colla briglia sul collo sotto un principe giovinastro cattivo, che lor permetteva di far quanto cadeva loro in capriccio, non potevano mirar di buon occhio Pertinace, cioè un vecchio1533, di costumi tanto diversi dal precedente Augusto. Imperocchè è da sapere che Elvio Pertinace, nato da povero padre nella villa di Marte del territorio d’Alba Pompea, città oggidì del Monferrato, insegnò grammatica da giovane; ma perchè gli fruttava poco il mestiere, si rivolse alla milizia, e salendo di grado in grado con riputazione, sostenne de’ riguardevoli impieghi nella Mesia e nella Dacia. Per calunnie perdè la grazia di Marco Aurelio Augusto, ma per opera di Claudio Pompejano, genero d’esso imperadore, scoperta la falsità delle accuse, fu Pertinace promosso all’ordine senatorio, ed anche al consolato. Ebbe poscia il governo di varie provincie, e massimamente di Soria, dove attese ad empiere la borsa. Sotto Commodo, abbassato dal prepotente Perenne, si ritirò alla sua patria, dove comperò di molti stabili. [p. 633 modifica]Dopo la morte di Perenne, siccome accennai di sopra, fu spedito da Commodo in Bretagna, e di là passò al governo dell’Africa. Finalmente tornato a Roma, vi esercitò, dopo Fusciano, uomo severo, la carica di prefetto della città, con tale umanità e piacevolezza, che piacque maggiormente a Commodo, e meritò di procedere di nuovo console con esso lui1534. Passava Pertinace in questi tempi l’età di anni sessantasei, perchè nato nell’anno 126 della nostra Era; ma era in concetto d’uomo di onore, di molta saviezza ed amorevolezza, e sperimentato nelle cose della guerra. Per attestato di Erodiano1535, la sua gravità ed anche la povertà il salvarono sotto Commodo, perchè fra gli altri pregi si contava ancor questo, d’esser egli il più povero dei senatori, ancorchè avesse esercitato molti riguardevoli uffizii. Ma, secondo Capitolino1536, si diceva aver egli sempre atteso a raccogliere molto e spendere poco. Un uomo di tal probità, ma insieme poco inclinato alla liberalità, non potea piacere ai soldati, troppo male avvezzati sotto Commodo. Durava tuttavia la notte, quando si fece sparger voce per la città, che Commodo era morto, ed eletto imperador Pertinace. Saltò fuori tutto il popolo con incredibil festa ed incessanti grida, caricando di maladizioni e villanie il defunto Augusto, cantando i suoi vituperii, e dandogli i nomi di tiranno, di gladiatore, di ernioso, perchè egli patì di una ernia, ch’era visibile agli occhi del pubblico. Anche i senatori, balzati dal letto, corsero, non sapendo dove stare per la gioia, alla curia: e quivi si presentò loro Pertinace, ma senza insegna alcuna d’imperadore e coll’animo assai agitato, perchè sapendo la bassa sua condizione in confronto di tanti altri senatori delle prime e nobili casate di Roma, sembrava a lui un’indecenza, ed anche un passo pericoloso, il prendere un posto più ragionevolmente dovuto ad altri. Però assiso in senato nella solita sua sedia, disse che egli veramente era stato riconosciuto imperadore dai soldati, ma che vecchio inabile ed immeritevole, rinunziava a quell’onore, e che eleggessero chi loro piacesse, essendovi tanti nobili degni più di lui del trono. Secondo Erodiano, prese anche pel braccio Aulo Glabrione, creduto il più nobile de’ Romani, e l’esortò a voler egli assumere la dignità imperiale. Capitolino aggiunge, che fece lo stesso con Claudio Pompejano, genero già di Marco Aurelio, e cognato di Commodo; ma che anch’egli si scusò. E qui dee aver luogo ciò che racconta Dione1537, cioè che Pompejano, siccome persona di gran prudenza, osservato ch’ebbe qual mala bestia fosse Commodo suo cognato, di buon’ora si ritirò in villa, nè si lasciava se non rade volte vedere in città, adducendo per iscusa varie sue indisposizioni, e specialmente la vista sua troppo indebolita. Nè volle già egli venire agli ultimi spettacoli di Commodo, per non essere spettator del disonore della maestà imperatoria, essendosi solamente contentato che v’intervenissero i suoi figliuoli. Creato poi Pertinace imperadore, gli tornò la vista, svanirono i suoi malori; e Pertinace a lui e a Glabrione fece sempre un distinto onore, nè risoluzione imprendeva senza il loro consiglio. Lo stesso Pompejano poi, da che fu morto Pertinace, e si videro imbrogliati forte gli affari, tornò ad ammalarsi, a vedervi poco, e a battere la ritirata. Da ciò si raccoglie essere adulterato il testo di Dione presso Zonara1538 e Sifilino, là dove è detto, che Claudio Pompejano, genero di Marco Aurelio fu quegli che presentò a Commodo il pugnale per ammazzarlo. Ora i senatori, veduta la umiltà e l’onorato procedere di Pertinace, quasi tutti di buon cuore il confermarono imperadore, e convenne anche [p. 635 modifica]fargli forza perchè accettasse l’imperio1539, se non che Falcone, il quale dovea la mattina seguente entrar console, gli si mostrò ora, e peggio poi nel progresso, assai contrario, con dirgli di non sapere come avesse da riuscire il di lui governo, da che il mirava sì favorevole a Marzia e a Leto, stati ministri delle iniquità di Commodo. Al che rispose quietamente Pertinace: Voi siete console giovane, nè sapete che cosa sia la necessità di ubbidire. Costoro hanno ubbidito fin qui loro malgrado a Commodo. Subito che han potuto, han dato a conoscere la lor buona volontà. Quindi proruppe il senato in acclamazioni festose verso il novello regnante, in detestazioni di Commodo, che si leggono a parola per parola presso Lampridio1540, prese dalla storia perduta di Mario Massimo. Soprattutto dimandavano i senatori, che si facesse al cadavero di Commodo il trattamento conveniente a chi era stato nemico degli dii, boia del senato, parricida, nemico della patria, cioè che fosse strascinato coll’uncino per la città, e gittato nel Tevere, siccome si usava co’ malfattori più esecrandi. Ma quel corpo, di permissione di Pertinace, era già stato segretamente seppellito in qualche sepolcro, e di là fra qualche tempo Pertinace lo fece trasportare nel mausoleo d’Adriano, perchè non gli piaceva d’irritare i pretoriani, troppo innamorati dell’estinto regnante. Fatta fu anche istanza dal senato, che si rompessero tutte le statue di Commodo, e si abolissero tutte le sue memorie. Non perdè tempo il popolo ad eseguirne il decreto. A Pertinace furono nello stesso tempo accordati tutti i titoli consueti degl’imperadori. Scrive Capitolino1541, che a Flavia Taziana di lui moglie fu dato il titolo di Augusta; ma sì egli, che Dione senatore, presente allora a tutti quegli affari, aggiungono averle bensì il senato decretato questo onore, siccome ancora al di lui figliuolo il titolo di Cesare; ma che Pertinace ricusò l’uno e l’altro, perchè non mirava per anche abbastanza assodato il suo imperio, conosceva l’umor petulante della moglie, nè gli pareva che il figliuolo di età anche tenera fosse capace di tanto onore. Diede egli principio al suo governo con ottime idee e rettissima volontà. Dovea pagarsi il regalo promesso ai pretoriani e agli altri soldati di Roma, e nell’erario non si trovò più di venticinquemila scudi. Mise perciò1542 in vendita le statue, l’armi gioiellate, i cavalli, le carrozze, gli schiavi, le concubine, e tutte le altre vane suppellettili di Commodo, tanto che ne ricavò danaro da pagare in parte il regalo pattuito coi soldati, e da fare un donativo al popolo di cento danari per testa. Emilio Leto nello stesso tempo spogliò d’ordine suo tanti buffoni, che Commodo avea smisuratamente arricchiti coi beni dei senatori uccisi. Trattava il buon Pertinace, uomo senza fasto, cortesemente con tutti, ed affabile era massimamente coi senatori, ciascun de’ quali potea liberamente dire il suo parere; e dicea anche egli il suo, ma con tranquillità e rispetto a quello degli altri. Or questi or quelli voleva alla sua tavola, tavola propria di un principe, ma frugale. Per questa frugalità v’erano de’ ricchi e magnifici che il mettevano in burla; ma da tutta la gente savia ne veniva egli ben commendato. Applicossi a riformar le spese superflue, a levare gli abusi introdotti, a pagare i debiti del pubblico. Ai pretoriani e alle altre milizie non fu più permesso di rubare nè il far insolenze ed ingiurie a chicchessia. Cessarono le spie e gli accusatori, furono cassate le ingiuste condanne; restituiti i beni indebitamente confiscati; richiamati i banditi; e si potè dar sepoltura convenevole a chi in addietro non la potè conseguire. Abolì per le provincie vari dazi imposti dai cattivi principi alle rive de’ fiumi, ai ponti, [p. 637 modifica]alle strade. Promosse l’agricoltura per tutta l’Italia, donando le terre abbandonate ed incolte, acciocchè si coltivassero. In somma, sotto sì moderato e buon principe1543 cominciava a rifiorir Roma, ed ogni saggia persona benediceva il tempo presente; ma questo tempo, che pareva così sereno, stette ben poco a rannuvolarsi. Malcontenti già erano, siccome dissi, del nuovo governo i soldati1544; e molto più se ne disgustarono, da che si videro imbrigliati e ritenuti dal far que’ mali che solevano. Aveano insino ne’ primi giorni tentato di esaltare al trono Triario Materno Lascivio senatore; ma egli scappò lor dalle mani, e andato a trovar Pertinace, si ritirò poi fuori di Roma. Mirarono ancor i pretoriani di mal occhio l’abbattimento delle statue di Commodo, e ne fremevano. Intanto aspettava Pertinace il giorno natalizio di Roma, per mutar la famiglia di corte, che dianzi serviva a Commodo, non l’avendo egli licenziata finora. Da tutti costoro ancora era egli odiato a morte, e specialmente dai liberti, a’ quali avea già tagliate le unghie sul vivo. Il saper poi quanto egli fosse guardingo nelle spese, e in concetto d’avaro, e che per ristorare l’erario fallito esigeva imposte messe da Commodo, contro le promesse fatte; e la voce corsa, che per far danaro si cominciassero a vendere le grazie e la giustizia; e che quei d’Alba Pompea corsi, credendo di toccare il cielo col dito sotto un Augusto lor compatriotto, s’erano trovati delusi: tutto ciò cagion fu che dalla maggior parte del popolazzo egli fosse poco amato, e che nella commedia sotto nome d’altre persone si sparlasse di lui, con dire fra le altre cose, ch’egli aveva bei detti, ma pochi fatti. Ai soldati e alla plebe non solevano piacere se non quegl’imperadori che largamente spendevano e più largamente donavano. Così la discorre Capitolino1545, il quale cento anni dipoi scrisse alla rifusa la di lui vita, nè dovea aver qui buone memorie. Imperocchè Dione1546 ed Erodiano1547, meglio informati di questi affari, ci lasciarono un diverso, cioè un bellissimo ritratto di Pertinace, dicendone amendue un gran bene, ed assicurandoci tale essere stata la clemenza, la saviezza, la modestia, l’illibatezza sua, tanta la sua premura pel pubblico bene, a cui principalmente tendevano le mire sue, che già Roma si potea dire tornata in un tranquillissimo e felicissimo stato. Lo stesso Capitolino attesta di poi anch’egli, che il popolo andò nelle smanie, udita la di lui morte, perchè tutti speravano di veder sotto di lui tornare ad un bel mezzogiorno l’imperio romano: segno dunque che l’amavano molto, e che non ha sussistenza quanto egli ha detto di sopra. Solamente confessa Dione, ch’egli fallò nello aver voluto con troppa fretta correggere tutti i disordini, parte de’ quali era inveterati; e molto più nell’aver dato ai soldati men regalo di quel che avessero ricevuto da Marco Aurelio e da Commodo; perchè sebben egli nel senato protestò di averlo fatto, la verità nondimeno era che que’ due Augusti aveano loro donati venti sesterzii per testa, laddove Pertinace non ne diede che dodici. Ma la rovina di questo recente imperadore si dee principalmente attribuire ad Emilio Leto prefetto del pretorio, che o per qualche riprensione a lui fatta da Pertinace1548, o perchè non potea conseguir quella padronanza che avea dianzi immaginato, si pentì d’averlo promosso all’imperio, e congiurò coi pretoriani contra di lui. Scoprissi intanto che Sosio Falcone console personaggio di gran credito per la sua nobiltà ed opulenza, trattava con essi pretoriani per occupare il trono cesareo, e ne fu portata l’accusa colle [p. 639 modifica]pruove al senato. Pretesero nondimeno alcuni ch’egli fosse innocente di questo fatto. Trovandosi allora Pertinace al mare, per provvedere all’abbondanza della annona, corse subito a Roma, e nel senato avendo inteso che già s’era in procinto di condannar Falcone1549: Non sia mai vero, gridò, che sotto il mio principato alcuno senatore anche per giusta cagione abbia da perdere la vita. Ma Emilio Leto1550, benchè niun ordine ne avesse da Pertinace, e solamente per renderlo odioso, prese di qua il pretesto di far ammazzare alcuni soldati quasi complici di Falcone, con ispargere anche il terrore sopra gli altri, quasi che tutti avessero da perire. Attizzati perciò dugento de’ più arditi pretoriani, colle spade sguainate a dirittura di mezzodì andarono al palazzo, e, senza che alcun si opponesse, furiosamente salirono le scale. Capitolino scrive ch’essi erano di guardia, e che parte degli stessi servitori di corte, che odiava Pertinace in suo cuore, li vide volentieri venire, e spalancò le porte. Essendo volata la moglie ad avvisar l’Augusto marito di questa novità, egli ordinò a Leto di correre a frenar la sedizione; ma Leto, uscito per altra via, se n’andò, lasciando agli ammutinati di eseguir quello che pensavano. Nulla dice Dione di questo; ma bensì, che avrebbe potuto Pertinace salvarsi, se avesse voluto, perchè v’era una squadra di cavalleria con altre guardie, e molta gente di corte, bastante a tagliar a pezzi coloro; ed almeno poteva nascondersi, e far serrare le porte. Signor no: gli cadde in pensiero d’affacciarsi egli stesso, figurandosi d’atterrirli col suo venerabil aspetto, e di placarli a forza di buone parole. In fatti loro parlò con tal gravità ed amore, che molti già deposte l’armi, colla testa bassa si ritirarono; quando un d’essi più temerario degli altri, Liegese di patria, per nome Tausio, se gli avventò col ferro dicendo: Questo tel mandano i soldati, e il ferì nel petto; gli altri il finirono. Eletto, mastro di camera, che gli stava al fianco, dopo aver ucciso due di quegli scellerati, e feriti molt’altri, con gran fedeltà lasciò anch’egli la vita fra le loro spade. Accadde questa tragedia nel dì 28 di marzo, essendo appena corsi ottantasette giorni da che Pertinace reggeva l’imperio. Il capo dell’infelice Augusto, posto sopra una picca, fu portato al quartiere dai soldati, i quali tosto armarono i lor posti, cioè il castello pretorio, per paura del popolo. Sparsa infatti in Roma così funesta nuova, non potea il popolo darsi pace per la perdita di sì buon principe, che tante cose in sì poco tempo avea fatto in servigio del pubblico, e più si conosceva che avrebbe fatto, se più lungamente fosse vivuto. Ognun fremeva, tutti piangevano, e smaniando uscirono per le piazze, per le strade, cercando gli assassini, gridando vendetta. Ma i senatori veggendo in tanta confusion la città, chi si ritirò alle sue case, e chi anche in villa per timore di peggio. Se crediamo ad Erodiano1551, due dì passarono in questo ondeggiamento e turbolenza, senza che il popolo potesse vendicar la morte dell’infelice principe, e senza che i pretoriani movessero piede dalla loro fortezza. Dopo di che costoro, osservato che nulla si facea dal senato e dal popolo, misero in vendita il romano imperio. Merita nondimeno più fede Dione1552, da cui impariamo, che essendo stato mandato da Pertinace per placare i pretoriani Flavio o sia Flacco Sulpiciano, suocero suo, già da lui creato prefetto di Roma e personaggio assai degno di quell’impiego: questi appena intese la morte del genero Augusto, che si diede a far brighe per divenire successore di lui nel trono. Ma Didio Severo Giuliano, che intese messa all’incanto l’imperial dignità, corse anch’egli al mercato, e stando alle mura del quartiere de’ pretoriani, cominciò ad [p. 641 modifica]esibir danari più dell’altro1553. Era Giuliano, di nobil casa nativo di Milano. Dione1554 chiama quella città patria di lui, e vi fu relegato da Commodo per sospetto che fosse complice della pretesa congiura di Salvio Giuliano. Discendeva, per via di padre o pur di madre, dal celebre giurisconsulto Giuliano. Nato nell’anno 133 di Cristo, avea passati i suoi anni in vari impieghi civili e militari con riputazione, governate provincie, ottenuto il consolato in compagnia di Pertinace. Parlano indifferentemente dei di lui costumi gli scrittori1555, facendolo gli uni un avaro, altri un crapulone. Dione, ch’era forte in collera contra di lui, giugne fino a dire, che fu dedito alla magia. Convengono poi tutti in dire, ch’egli era sommamente denaroso, e che con tal fiducia si fece innanzi per comperar l’imperio da chi volea venderlo. Entro il quartiere de’ pretoriani si trovava anche Sulpiciano, siccome dissi, a questo traffico. Andavano innanzi indietro sensali per vedere chi più offeriva; ed era già a buon segno Sulpiciano, coll’aver promesso ventimila nummi per testa, che da alcuno son figurati quattrocento scudi romani, o filippi, ed a me paiono somma eccessiva. Ma restò superiore Giuliano con prometterne venticinquemila, dicendo anche di averli in cassa e con far conoscere ai pretoriani, che facevano un mal contratto accordandosi coll’altro, il quale, siccome suocero di Pertinace, avrebbe saputo ben vendicarlo. Viva dunque l’imperador Giuliano, gridarono allora i pretoriani, tanto più inclinati a costui, perchè prese il nome di Commodo, e si mostrò amico della di lui memoria. Dopo aver promesso, secondo le loro istanze, di non nuocere a Sulpiciano, creò prefetti del pretorio Flavio Geniale e Tullio Crispino. Verso la sera s’inviò Giuliano alla volta del senato1556, scortato più del solito da una copiosa masnada di pretoriani, tutti in armi, come se andassero a battaglia per timore del popolo. Allora i senatori, ancorchè in lor cuore detestassero questo mercatante della dignità imperiale, e fra gli altri Dione sapesse di non essere molto in grazia di lui, perchè caro già a Pertinace, e perchè in trattar varie cause avea aringato forte contra del medesimo Giuliano; pure ognun di essi, accomodandosi al tempo, andò frettolosamente alla curia. Comparso colà Giuliano, parlò senza giudizio, chiamando sè stesso degnissimo dell’imperio, dicendo di essere venuto solo, acciocchè il confermassero imperadore, quando seco avea tante schiere d’armi, e molti di essi soldati nello stesso senato, che poteano dar polso a tali preghiere. Mostrò ancora di conoscere ch’essi l’odiavano. Ciò non ostante fu confermato e passò al palazzo. Prima di cena fece dar sepoltura al corpo di Pertinace. Non avea detto una parola di lui nel senato, e non ne disse mai più per non dispiacere ai pretoriani. Vuole Sparziano ch’egli cenasse con della malinconia. Dione, all’incontro, ch’egli si mostrò allegro, giocò ai dadi, e fece entrare in sua camera Pilade ballerino con altri buffoni. Furono la mattina seguente senatori e cavalieri ad inchinarlo e a rallegrarsi, ed egli con somma cortesia accolse ognuno. Una mascherata era quella, perchè gli uni da burla si congratulavano, ed egli fingeva di credere ciò che sapea non essere vero1557. Si portò egli dipoi al senato, ed allorchè era per fare un sagrifizio, il popolo cominciò con alte voci a gridare ch’egli era un parricida, un usurpatore dell’imperio. Giuliano, senza alterarsi, mostrò loro la borsa come promettendo loro un donativo, o pur colle dita accennò quante migliaia volea donar loro. Ed essi più che mai incolleriti gridavano: Non ne vogliamo; no, che non ne vogliamo, [p. 643 modifica]e gli gittarono de’ sassi. Perdè allora la pazienza Giuliano, ed ordinò ai soldati di guardia di ammazzare i più vicini. Il che fatto, il popolo più che mai andò caricando di villanie lui, ma più i soldati. Indi corse a pigliar l’armi, e si ridusse nel circo, dove si fermò tutta la notte senza prender cibo, e nè pure un sorso d’acqua, facendo intanto istanza, che si chiamasse a Roma Pescennio Negro, governator di Soria, colle sue legioni. Nel dì seguente deposte l’armi, se ne tornarono alle lor case, e cessò la tempesta. Ora se il senato, se il popolo romano non sapea sofferire un imperadore, per via sì ignominiosa portato al trono, aveano ben ragione. Questo funestissimo esempio insegnò a tanti altri indegni e tiranni di occupar da lì innanzi l’augusto soglio di Roma; aprì la porta ad infinite guerre civili, che andremo raccontando, e fu infine la rovina dell’imperio romano, col prevalere i Barbari, e soperchiare il corpo, che a poco a poco si andò disciogliendo, della romana repubblica. Nè si vergognò Giuliano di prendere tutti i titoli più onorevoli degli altri imperadori; fece anche dar quello di Augusta a Mallia Scantilla sua moglie e a Didia Clara sua figliuola, maritata con Cornelio Repentino, a cui conferì la prefettura di Roma. Per attestato di Erodiano1558 con tutto il votare de’ suoi scrigni, e col ricorrere allo smunto erario imperiale, non trovò tanto da pagare tutto il promesso regalo ai pretoriani, i quali perciò rimasero disgustati di lui: laddove Sparziano1559 slargando la bocca, scrive che avea promesso a cadauno venticinquemila nummi, e ne pagò trentamila. Non si sa ch’egli fosse crudele; le finezze e carezze che facea a tutti erano incredibili; ma specialmente le praticava coi senatori, che vi trovavano dell’affettazione. I conviti suoi furono frequenti; le tavole superbamente imbandite; ma il cuore de’ grandi e del popolo era sempre lo stesso. Tre principali eserciti si contavano allora nel romano imperio comandati da tre insigni generali. Quello dell’Illirico e della Pannonia ubbidiva a Lucio Settimio Severo: quello della Bretagna a Decimo Clodio Albino: e quello della Soria, il governo della qual provincia era in que’ tempi il più riguardevole di tutti, a Cajo Pescennio Negro. Perchè a Pescennio arrivò ben tosto l’avviso di essere chiamato in aiuto del popolo romano, altro non occorse, perchè egli si facesse proclamar Imperadore dal suo esercito, e dal numerosissimo popolo della città di Antiochia. Ma Settimio Severo, verisimilmente mosso con segrete lettere da qualche senatore, che lui considerava miglior testa, che gli altri due, oltre all’esser egli più vicino, e all’aver più forze al suo comando, nè pur egli tardò ad assumere il titolo d’Imperatore Augusto in Carnunto città della Pannonia. Per non aver poi da contendere con due avversarii nel medesimo tempo, prese il partito di guadagnar Albino, dichiarandolo Cesare, con una specie di adozione: trappola, che a lui ben servì, perchè Albino ricevute le lettere di Severo, le quali non si poteano scrivere più tenere da un padre ad un figliuolo, non pensò più a far novità e movimento alcuno. Secondo alcuni autori sembra che tale risoluzion di Severo verso Albino succedesse più tardi. Dione1560 attesta, che si videro in questi tempi tre stelle intorno al sole, cospicuo a tutti, ed egli stesso chiaramente le osservò, o ne fu formato un cattivo presagio agli affari di Giuliano. Intanto tutte le città dell’Illirico sino a Bisanzio (cioè sino ad una città che avea riconosciuto Pescennio Negro) e le Gallie, e la Germania romana, si dichiararono per Settimio Severo; laonde egli senza perdere tempo si mosse coll’armata sua, per venire a dirittura a Roma, da dove prima di prendere la porpora imperiale, [p. 645 modifica]aveva egli destramente ritirati i suoi figliuoli. All’avviso di tante novità a non pochi batteva forte il cuore in Roma, ma i più brillavano per l’allegrezza, nondimeno celata, per desiderio e speranza di veder a terra l’odiato Giuliano. Fu di parere il Relando1561, che nelle calende di marzo agli ordinari consoli fossero sostituiti Flavio Claudio Sulpiciano e Fabio Cilone Septimiano. Pare che ciò dovesse succedere più tardi, citando egli un’iscrizione del Fabretti1562, posta nel dì 19 di marzo di quest’anno FALCONE ET CLARO COS. Anzi si vede un altro marmo presso il Grutero1563, dove a dì 5 di settembre sono mentovati gli stessi consoli. Ma non è ben certo, perchè molti non ne faceano caso dei consoli sustituiti. Per conto di Cilone una altra iscrizione pubblicata dal Doni, e riferita anche da me1564, c’insegna essere stato il suo nome Lucio Fabio Cilone Septimiano. Ma nè pur apparisce che questi due fossero sostituiti; ed è malamente citato, in pruova di ciò, Erodiano. Abbiamo bensì da Dione1565, che Silio Messala, verisimilmente sustituito a Falcone, dappoichè cadde di posto per l’accusa narrata di sopra, era console sul principio di giugno. D’altri consoli sostituiti in quest’anno parla il Relando, senza che se ne veggano le pruove. Non si credeva Giuliano di aver a contendere se non con Pescennio Negro, quando gli arrivò la nuova, che anche Settimio Severo, avea alzata bandiera contra di lui. Allora si vide perduto. Precauzioni da ridere furono quelle ch’ei prese con fare che il senato dichiarasse nemici pubblici Severo e Negro con terribil bando ai soldati che loro ubbidissero; ma Severo assai informato era del cuore de’ senatori. Spedì il senato anche dei deputati all’uno e all’altro, per esortarli ad ubbidire; ma Severo guadagnò gli spediti a lui, e gl’indusse a parlare in suo favore all’armata. Aquilio Centurione, ed altri mandati da Giuliano, per assassinar i due nuovi imperadori, trovarono di aver che fare con gente più accorta di loro. Mise esso Giuliano in armi i suoi pretoriani, fece fare un trincieramento fuori di Roma con fosse; e mise delle buone porte e dei cancelli al palazzo imperiale. Dione presente a tutto confessa che non potea trattener le risa al mirare i pretoriani, avvezzi alle delizie, intrigati a ripigliare il mestier della guerra; meno ancora le soldatesche ne sapeano, che Giuliano avea fatto venire dall’armata navale di Miseno; e per gli elefanti, co’ quali si sperava di atterrire i cavalli de’ nemici, non si trovava chi li sapesse condurre. Roma sembrava oramai una città assediata, non vedendosi andar innanzi indietro altro che armi, cavalli ed attrezzi di guerra. Giuliano in questi tempi fece uccidere Emilio Leto, prefetto del pretorio, e Marzia, autori della morte di Commodo, sapendo che Severo era creatura di Leto, e temendo perciò di vedergli uniti contra di sè. Ma Severo, senza mettersi pensiero de’ vani preparamenti di Giuliano, veniva a gran giornate verso l’Italia. A lui si davano tutte le città. Senza opposizione entrò in Ravenna, e s’impadronì della flotta solita a stare in quel porto. Tullio Crispino creato nuovamente prefetto del pretorio, e mandato da Giuliano per occupar quella flotta, se ne tornò indietro con poco gusto. Allora Giuliano non sapendo dove volgersi, ordinò che le vestali, i sacerdoti e il senato andassero incontro a Severo per fermarlo; e perchè trovò in ciò della contraddizione, avea disegnato di spingere i soldati nel senato, per isforzare i senatori ad ubbidire; e non ubbidendo, di fargli tagliare a pezzi. Tanto gli fu detto, che desistè da sì maligno pensiero, e mandò poi ordine al senato di dichiarar Severo collega dell’imperio, pensando con ciò di comperarsi la di lui [p. 647 modifica]grazia. Il decreto fu fatto ed inviato a Severo, il quale per consiglio de’ suoi lo rifiutò, perchè le sue forze e la conoscenza di quel che bolliva in Roma, gli prometteano molto più. Aveva egli fatto sapere ai pretoriani, che se stessero quieti, e gli dessero in mano gli uccisori di Pertinace, non farebbe lor male; e ne scrisse a Veturio Macrino, con dargli speranza di crearlo prefetto del pretorio. S’egli poi mantenesse la parola, nol so dire; certo è bensì, che promosse a tal carica Flavio Giovenale. Continuato poscia il viaggio, le milizie dell’Umbria, che doveano guardare i passi dell’Apennino, si unirono con esso lui, ed intanto i pretoriani abbandonarono Giuliano. Allora costui restò in isola, e in braccio alla disperazione1566. Indarno avea tentato di rinunziar l’imperio a Claudio Pompejano, personaggio di gran senno, che si scusò colla sua vecchiaia; indarno fece scannar molti fanciulli, credendo per magia di conoscere il suo destino. Il senato adunque, subito che fu assicurato da Silio Messala console, che non vi era più da temere de’ pretoriani, proferì la sentenza di morte contra di Giuliano, usurpator dell’imperio; dichiarò imperadore Severo, con far una deputazione di cento senatori che andassero ad incontrarlo, e decretò gli onori divini a Pertinace. Probabilmente ciò fu sul fine di maggio, o in un dei primi due giorni di giugno. Furono inviati alcuni a tagliar la testa a Giuliano, che restò ben servito, nè altro seppe dire, se non: Che male ho io fatto? a chi ho io tolta la vita? tardi conoscendo di aver impiegati i suoi tesori per comperarsi un fine sì miserabile. Permise poi Severo, che il di lui corpo trovasse riposo nella sepoltura de’ suoi antenati. Ora Severo, uomo sommamente guardingo e diffidente, massimamente dopo avere scoperto le già mandate persone per assassinarlo, era dalla Pannonia marciato fin qui in mezzo ad una guardia di secento soldati scelti, i quali mai non si cavarono la corazza, ed accompagnato dall’armata sua, come se fosse in paese nemico. A Narni se gli presentarono i cento senatori deputati che prima della udienza furono ben ricercati se aveano armi sotto1567. Li ricevè Severo con della maestà, e nel dì seguente, dopo averli regalati, diede loro licenza di ritornarsene a Roma, con facoltà nondimeno di restar chi volesse con lui. Vicino a Roma mandò ordine ai pretoriani di venire ad incontrarlo senz’armi, e in abito di pace e di festa. Aveva egli fatto giustiziare gli uccisori di Pertinace. Venuti che furono, fattili attorniare dalle sue genti armate, all’improvviso ordinò che fossero presi tutti, e dopo aver loro fatto un aspro rimprovero per le iniquità commesse in addietro, volle che fossero spogliati dei lor pugnali, o spade che fossero, delle vesti, e fin della camicia; e che sotto pena capitale stessero cento miglia lungi da Roma, con riconoscere da lui per grazia grande, se donava loro la vita. Svergognati e colla testa bassa se ne andarono costoro, ben pentiti di essere capitati colà disarmati. Furono loro tolti anche i cavalli; e Dione1568 racconta che un di questi cavalli scappò per tener dietro al suo padrone nitrendo. Accortosi il soldato di questo, tanto era turbato l’animo suo, che rivoltosi uccise il cavallo, e poi sè stesso. Nè tardò Severo a mandar guernigione nella fortezza dei pretoriani, e ad impossessarsi di tutte le lor armi ed arnesi. Fece dipoi l’entrata sua in Roma, se crediamo a Sparziano, armato di tutte armi. Dione che ne sapea più di lui, siccome presente a tutto, scrive ch’egli venne a cavallo sino alla porta, e quivi smontato si vestì da città, e a piedi vi entrò. Era tutta la città in festa, e i cittadini coronati di lauro e di fiori, ornate le strade di preziosi addobbi, lumi e [p. 649 modifica]profumi dappertutto; e tutti i senatori magnificamente coi loro roboni il corteggiavano col popolo affollato, che assordava il cielo con viva e con alte acclamazioni, gareggiando ognuno per mirar questo novello padrone. Con tal pompa andò Severo al Campidoglio, dove nel tempio di Giove fece i sacrifizii; e dopo aver visitato altri templi, passò a riposar nello imperial palazzo. Il resto delle azioni sue spettanti a quest’anno mi sia lecito di riserbarlo al seguente.


Anno di Cristo CXCIV. Indizione II.
VITTORE papa 9.
SETTIMIO SEVERO imperad. 2.
Consoli

LUCIO SETTIMIO SEVERO AUGUSTO per la seconda volta, e DECIMO CLODIO SETTIMIO ALBINO CESARE per la seconda.

Si sa che Severo Augusto era stato ornato di un consolato straordinario, con avere avuto per suo collega Apulejo Rufino; ma non se ne sa l’anno. Molto meno ci è noto quando Albino fosse console la prima volta. Ci assicurano le medaglie1569 che anch’egli procedette in quest’anno console per la seconda volta. Severo, che con questi onori voleva addormentarlo, fece anche battere monete ad onor suo; sicchè ognun lo avrebbe creduto il Beniamino di Severo. Il nome di Settimio a lui dato nelle stesse medaglie ci fa intendere che Severo lo avea adottato per figliuolo; se con retto cuore poi, non istaremo molto ad avvedercene. In una iscrizione riferita dal Cupero e dal Relando1570, Albino console è chiamato Lucio Postumiano. Ma venendo quel marmo dal magazzino fallace del Gudio, non se ne può far capitale; quando pur non volessimo che ad Albino Cesare, appellato nelle medaglie Decimo Clodio, fosse sostituito un altro Albino: il che non è credibile. Venga ora meco il lettore a conoscere chi fosse Lucio Settimio Severo nuovo Augusto1571. Era egli per nascita Africano, perchè venuto alla luce in Leptis, città della provincia Tripolitana, nell’anno 146 della nostra Era, a dì undici d’aprile. Senatoria fu la sua famiglia. Due suoi zii paterni erano stati consoli. Suo padre portò il nome di Marco Settimio Gela. Esso Settimio Severo giovinetto studiò lettere latine e greche in Africa1572; gran profitto fece nell’eloquenza e nella filosofia de’ costumi; e venuto dipoi in età di diciotto anni a Roma fu condiscepolo di Papiniano1573, studiando la giurisprudenza sotto Scevola, insigne legista di questi tempi. Nondimeno Dione1574, che intimamente il conosceva, trovò in lui un buon genio, ma non molta abilità per l’eloquenza e per le scienze. Diedesi anche a far l’avvocato, ma con poca fortuna. Aveva egli portato seco a Roma il fuoco africano1575; e però la sua gioventù fu piena di furore, ed anche di delitti, ed accusato una volta d’adulterio, la scappò netta per grazia di Salvio Giuliano, di cui poscia procurò la rovina. Sotto Marco Aurelio entrò negli impieghi civili, poscia nei governi; e trovandosi in Africa legato del proconsole, si racconta che, camminando egli a piedi un giorno colle1576 insegne avanti della sua dignità, un uomo plebeo della sua patria Leptis, vedutolo in così nobil carica ed accompagnamento, per allegrezza corse buonamente ad abbracciarlo, dicendogli: O paesano caro. Severo gli fece dare una man di bastonate per esempio agli altri, affinchè più rispettassero i magistrati romani. Scrivono ancora ch’egli consultò uno strologo africano, il quale, veduta ch’ebbe la di lui genitura, gliela restituì dicendo: Dammi la tua, e non quella degli altri. Giurò Severo, che era la sua; ed allora gli fu predetto quanto poscia avvenne. Di sì fatte predizioni e