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pruove al senato. Pretesero nondimeno alcuni ch’egli fosse innocente di questo fatto. Trovandosi allora Pertinace al mare, per provvedere all’abbondanza della annona, corse subito a Roma, e nel senato avendo inteso che già s’era in procinto di condannar Falcone1549: Non sia mai vero, gridò, che sotto il mio principato alcuno senatore anche per giusta cagione abbia da perdere la vita. Ma Emilio Leto1550, benchè niun ordine ne avesse da Pertinace, e solamente per renderlo odioso, prese di qua il pretesto di far ammazzare alcuni soldati quasi complici di Falcone, con ispargere anche il terrore sopra gli altri, quasi che tutti avessero da perire. Attizzati perciò dugento de’ più arditi pretoriani, colle spade sguainate a dirittura di mezzodì andarono al palazzo, e, senza che alcun si opponesse, furiosamente salirono le scale. Capitolino scrive ch’essi erano di guardia, e che parte degli stessi servitori di corte, che odiava Pertinace in suo cuore, li vide volentieri venire, e spalancò le porte. Essendo volata la moglie ad avvisar l’Augusto marito di questa novità, egli ordinò a Leto di correre a frenar la sedizione; ma Leto, uscito per altra via, se n’andò, lasciando agli ammutinati di eseguir quello che pensavano. Nulla dice Dione di questo; ma bensì, che avrebbe potuto Pertinace salvarsi, se avesse voluto, perchè v’era una squadra di cavalleria con altre guardie, e molta gente di corte, bastante a tagliar a pezzi coloro; ed almeno poteva nascondersi, e far serrare le porte. Signor no: gli cadde in pensiero d’affacciarsi egli stesso, figurandosi d’atterrirli col suo venerabil aspetto, e di placarli a forza di buone parole. In fatti loro parlò con tal gravità ed amore, che molti già deposte l’armi, colla testa bassa si ritirarono; quando un d’essi più temerario degli altri, Liegese di patria, per nome Tausio, se gli avventò col ferro dicendo: Questo tel mandano i soldati, e il ferì nel petto; gli altri il finirono. Eletto, mastro di camera, che gli stava al fianco, dopo aver ucciso due di quegli scellerati, e feriti molt’altri, con gran fedeltà lasciò anch’egli la vita fra le loro spade. Accadde questa tragedia nel dì 28 di marzo, essendo appena corsi ottantasette giorni da che Pertinace reggeva l’imperio. Il capo dell’infelice Augusto, posto sopra una picca, fu portato al quartiere dai soldati, i quali tosto armarono i lor posti, cioè il castello pretorio, per paura del popolo. Sparsa infatti in Roma così funesta nuova, non potea il popolo darsi pace per la perdita di sì buon principe, che tante cose in sì poco tempo avea fatto in servigio del pubblico, e più si conosceva che avrebbe fatto, se più lungamente fosse vivuto. Ognun fremeva, tutti piangevano, e smaniando uscirono per le piazze, per le strade, cercando gli assassini, gridando vendetta. Ma i senatori veggendo in tanta confusion la città, chi si ritirò alle sue case, e chi anche in villa per timore di peggio. Se crediamo ad Erodiano1551, due dì passarono in questo ondeggiamento e turbolenza, senza che il popolo potesse vendicar la morte dell’infelice principe, e senza che i pretoriani movessero piede dalla loro fortezza. Dopo di che costoro, osservato che nulla si facea dal senato e dal popolo, misero in vendita il romano imperio. Merita nondimeno più fede Dione1552, da cui impariamo, che essendo stato mandato da Pertinace per placare i pretoriani Flavio o sia Flacco Sulpiciano, suocero suo, già da lui creato prefetto di Roma e personaggio assai degno di quell’impiego: questi appena intese la morte del genero Augusto, che si diede a far brighe per divenire successore di lui nel trono. Ma Didio Severo Giuliano, che intese messa all’incanto l’imperial dignità, corse anch’egli al mercato, e stando alle mura del quartiere de’ pretoriani, cominciò ad