Anime allo specchio/Un colpo di sperone
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UN COLPO DI SPERONE.
All’ombra fittissima dei platani di Villa Gaia la giovine donna si dondolava mollemente, abbandonata all’ampia poltrona di legno curvato, col capo, le spalle, le braccia affondati nei grandi cuscini di merletto.
S’avvolgeva indolentemente in un morbido kimono di seta giallo-arancio donde il lungo collo sottile, le lunghe mani magre, i lunghi piedi calzati di sandali emergevano con un biancore opaco e languente come le corolle dei fiori acquatici. Teneva su le ginocchia un libro aperto che non leggeva, ma consultava tratto tratto il piccolo orologio incassato nella testa di un serpe, che le circondava il polso con le sue squame lucenti.
Le parve d’improvviso che un rauco suono di tromba echeggiasse ad uno svolto della strada scoscesa ed ella si sollevò sui guanciali in ascolto, battendo le palpebre, mordendosi il labbro, finchè la voce sonora riempì il silenzio della vallata, fu come un roco grido ripetuto al di là del cancello di Villa Gaia. S’udì qualcuno aprirne entrambi i battenti, s’udì la ghiaia del viale scricchiolare sotto le quattro ruote pesanti, poi sotto il lieve ritmo di un passo e finalmente Vittore Colonna, l’aspettato, apparve.
Egli portava sul volto la fresca avidità dei suoi ventiquattro anni che rilucevano nei begli occhi color nocciola e nei bei denti color avorio, portava su l’agile persona sportivamente elegante la leggiadra animalità della sua giovinezza.
Forse per questo Romana Camuri, ch’era d’oltre un anno l’amante di un romanziere di bella fama, adorato dalle donne e detestato dagli uomini, rifugiatasi in quella sua villetta onde non seguire l’amico nella solitudine freddolosa d’un paese d’alta montagna, si sentiva a poco a poco attratta da quella giovine forza sana e serena la quale ogni giorno, da più d’un mese, veniva ad offrirsele, la quale implorava ogni giorno di essere soggiogata e imprigionata dalla sua fragile mano.
Anche ora Vittore Colonna, curvo su quella fragile mano vi premeva più del conveniente la sua bocca accesa, mentre i begli occhi color nocciola si sollevavano a contemplarla con l’espressione di una intensa preghiera.
— Sembrate un idoletto cinese, — disse il giovine ponendosi a sedere su l’erba di una aiuola, col dorso appoggiato al tronco di un platano.
— Ditemi qualche cosa di diverso, — pregò ella scontenta, — questo me l’ha ripetuto tante volte Luca Gilberti, il celebre romanziere.
— Che vi ama e che voi amate, — proseguì Vittore con un ostentato sospiro; — non è più un mistero per nessuno questa vostra reciproca passione, siatene certa.
— Già, — ella ribattè sorridendo asprigna, — tanto reciproca che Luca Gilberti scrive romanzi a tremila metri sul mare, mentre io m’annoio a cinquecento, chiusa in questa capanna che l’ironia della sorte ha voluto chiamare gaia.
— Come siete ingrata, mia dolce amica, — rimproverò, scuotendo il capo, Vittore Colonna.
— Per Luca o per voi?
— Per l’uno e per l’altro, poichè voi rinnegate i vecchi amici e disdegnate i nuovi, ciò che non è compatibile con le buone regole del viver felice e del viver civile.
— Sapete bene che io non conosco per nulla il viver felice e per ben poco il viver civile.
Simili dialoghi fra ironici e teneri, simili schermaglie fra argute ed ardite si ripetevano ormai da settimane senza che l’atteggiamento dell’uno e dell’altra, sempre sul punto di mutarsi in qualche cosa di più intimo e di più ardente, tentasse un più vivace balzo di desiderio o cedesse ad un più aperto abbandono.
Ma la giovine donna, la quale da qualche tempo insofferente d’ogni legame, aveva lasciato il marito alle distrazioni estive della città ed abbandonato l’amante alla solitudine fervida del suo lavoro, si sentiva ora in quello stato particolare d’inquietudine e d’insoddisfacimento che predispone alle indifese debolezze. Ella riceveva quasi ogni giorno lettere da Luca Gilberti ma leggeva quasi ormai senza commozione quelle sue vivide pagine dense di calore e di fantasia, in cui egli la chiamava ancora sua piccola ispiratrice, sua Musa deliziosa ed invocava con parole intense di bramosia la sua presenza «dolce più d’ogni umana e divina cosa» fra gli irti picchi delle gigantesche giogaie svizzere. Ed ella gli rispondeva con tenerezza ancora ma senza impeti, implorando perdono per la sua fragilità, per la sua debolezza che le impediva di compiere il lungo viaggio, che le vietava di esporsi ai disagi di un’ascesa e di sopportare il clima forse gelido, certo incostante dell’alta montagna.
In realtà vi era in lei da qualche tempo una specie d’indolenza fisica e d’inerzia spirituale che la snervava, che la smemorava anche del suo ancor vicino passato, di quel suo amore ch’era stato bello di gioia e di dolore come nessun amore le era sembrato prima d’allora. E cercava per l’amico e per sè medesima pretesti e scuse per giustificare quel suo lento intorpidimento che le pareva talvolta dolce e benigno come un sonno, talvolta infido e triste come una malattia.
Vittore Colonna ritto alle sue spalle si divertiva ora ad imprimere un leggero ondeggiar di culla alla profonda sedia a dondolo dove la donna s’adagiava fra i molti cuscini di merletto e osava di quando in quando chinarsi cautamente su di lei e deporre un bacio su la scriminatura dei suoi capelli, mentre ella socchiudeva un momento gli occhi al piccolo brivido che le correva pel dorso.
Ma un passo scricchiolò sulla ghiaia d’un vialetto laterale e una cameriera apparve, recando un fascio di corrispondenza sopra il vassoino d’argento.
— La posta, — disse mollemente sollevandosi Romana Camuri e incominciò a scorrere le soprascritte senza tuttavia aprire le buste. V’erano parecchie cartoline d’amiche, alcune circolari a stampa, una rivista illustrata ed una sola lettera, una grande busta intestata ad un albergo svizzero con l’indirizzo scritto in inchiostro violetto, in un piccolo carattere tondo e diritto, ch’ella ben conosceva.
Vittore ritto alle sue spalle osservava, ma non appena la vide indugiarsi su quell’ultima lettera, lasciò il suo posto troppo indiscreto e tornò a sedere a piè del platano ombroso ridendo, pur senza dissimulare un leggero dispetto.
— Oh! leggete pure la sua lettera, — egli consigliò accendendo una sigaretta, — io resterò qui a contemplarvi docilmente, in silenzio, mentre voi vi inebriate alle sue squisite parole.
— Se questo vi fa piacere.... — consentì Romana con ostentata freddezza, per quell’istinto di far soffrire che è quasi sempre vivo nella donna quando è amata.
Lacerò la busta, aperse la lettera e lesse. Ma subito il suo volto s’oscurò, le ciglia si corrugarono, il seno, sotto la seta leggera del kimono, si sollevò nell’ansia di un’ira mal trattenuta, mentre il piede destro appena chiuso nel suo sandalo, batteva nervosamente il suolo come per calpestare qualche cosa o qualcuno. La lettera, di tre pagine brevi, fu letta in un momento e poi cincischiata a lungo con le dita inquiete prima che la donna si decidesse a parlare, e quando parlò rivolse a Vittore Colonna una inattesa domanda:
— Conoscete voi Mirta Savelli, l’attrice?
— E chi non la conosce? — interrogò a sua volta il giovine buttando la sigaretta accesa.
— Intendo se la conoscete fuori di scena, nell’intimità. Voglio sapere che donna, non che attrice essa sia.
— È una donna affascinante. La donna e l’attrice non si distinguono: ella è nella intimità ciò che è sulla scena, o è sulla scena ciò che è nell’intimità.
— Insomma una donna pericolosa.
— Pericolosissima, dicono.
Romana Camuri continuò a gualcire fra le mani la lettera, con lo sguardo fisso e il seno ansante, poi d’un tratto si curvò tutta verso il giovine, con gli occhi lucenti di pianto e la gola stretta dall’angoscia:
— Tre pagine, capite? tre intere pagine per dirmi che Mirta Savelli è capitata per caso lassù nel suo stesso albergo, a riposare dalle fatiche della scena, a riconquistare la forza e la freschezza e a tormentare un disgraziato scrittore che sta sfasciandosi il cervello su un romanzo di cinquecento pagine e di trenta capitoli. Comprendete?
— Comprendo, cara amica, e ne sono lieto per voi. Non sarete più costretta a dividere con lui, voi così fragile e così delicata, le gravi fatiche della gloria.
— Ah! mi canzonate? Ebbene no, caro amico, quella donna potrà riposare quanto vuole, riconquistare tutto ciò che vuole, ma tormentare Luca Gilberti e impedirgli di lavorare no, e poi no. Ci sono io di mezzo.
— Ma guarda! — esclamò con finto candore Vittore Colonna scuotendo il bel capo giovanile, — voi sareste dunque gelosa? Gelosa di Mirta Savelli?
— Io gelosa? Ma nemmeno per sogno, mio caro. Il mio è un puro e semplice dovere di amicizia e per questo dovere io mi sento capace di qualunque sacrificio.
— Eccetto quello di arrampicarvi a tremila metri per mettervi di mezzo fra il romanziere e l’attrice, immagino, — osservò Vittore accendendo un’altra sigaretta.
— Mi dispiace, ma voi immaginate male. Tanto è vero che vi prego di mettere per un’ora a mia disposizione la vostra automobile perchè io possa correre al telegrafo e annunziare a Luca Gilberti il mio arrivo per domani.
— Ma voi siete leggermente pazza, amica mia; lassù morirete di freddo, se non vi arriverete morta di stanchezza.
— Se vi sta la Savelli posso rimanervi io pure. Aspettatemi, vado a vestirmi.
Balzò dalla sedia a dondolo raccogliendo nel pugno le pieghe ampie del suo kimono e corse via leggera coi suoi piccoli piedi nudi nei sandali di pelle gialla. Sentiva in sè stessa fremere la nuova vitalità del suo amore sotto il colpo di sperone della gelosia, sentiva una forza irrompente come un desiderio di lotta, come un’ostilità battagliera incitarla ad agire ed a correre, a salire e ad assalire pur di riconquistare il suo bene in pericolo, pur di allontanare la minaccia oscura che pareva contendergliene il possesso. Certo ella lo amava anche nell’apparente inerzia del suo cuore — ella si diceva vestendosi — se tutta sè stessa si rivoltava così al pensiero di perdere il suo amore, se la sua stanchezza, se la sua debolezza si sollevavano d’un tratto, fatte vigili e pronte e ardite per incalzarla fin lassù, dove un’altra ombra incombeva, dove la sua presenza occorreva perchè il suo amore non cedesse a un momento d’oblìo o di sazietà.
Raggiunse dopo pochi minuti nel giardino Vittore Colonna e lo trovò sdraiato nella sua poltrona a dondolo intento a cullare infantilmente la sua piccola delusione sentimentale e la sua anima di buon fanciullo sereno. Egli si sollevò vedendola giungere col viso avvolto nel fitto velo e il mantello di tussor chiuso fino alla gola e prese docilmente dalle sue mani il libro dell’orario ch’ella gli porgeva.
— Vi prego, amico mio, spiegatemi a che ora debbo partire, a che ora debbo giungere, perchè l’orario parla una lingua per me incomprensibile, — disse la donna infilandosi i guanti flosci, lunghi fino al gomito e risedendo sull’orlo della poltrona.
E il giovine, docilmente, sedette ai suoi piedi, le aperse su le ginocchia il piccolo libro e, molto assorto, incominciò a sfogliarlo.