Anime allo specchio/È scritto nel destino
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È SCRITTO NEL DESTINO.
Entrambi salirono in treno ed attesero nel corridoio che il conduttore dello sleeping avesse rifatto il piccolo letto, quindi entrarono nella cabina e sedettero sulla cuccetta bassa. Il mantello, il cappello, l’ombrellino della donna appesi ai ganci delle pareti oscillavano in ritmo al moto uguale del treno e la sigaretta dell’uomo riempiva d’una nebbiolina azzurra e mobile di fumo il breve spazio, saliva a velare la intensa luce rossa delle lampadine.
Andarono così per qualche tempo senza parlare, senza guardarsi, sentendosi uniti e pure divisi dall’inesorabilità di uno stesso pensiero e fu prima la donna, Clemenza Aureli, quella che lo espresse con le dure parole:
— Ancora un’ora e poi tutto sarà finito.
Egli le afferrò nervosamente una mano, intrecciò le dita nelle sue dita e sospirò cupo:
— Lo so, lo sappiamo; perchè dirlo, perchè ripeterlo? È inutile.
— No, è utile: io ho bisogno di dirlo a me stessa, di sentirmelo dire per darmi forza e per crederlo vero.
Ugo Leardi si chiuse la fronte tra le palme e senza scoprire i suoi occhi, senza volgersi alla compagna, quasi temesse di vederne lo sguardo, mormorò:
— Enza, Enza, siamo ancora in tempo a riprenderci. Tutto non è forse finito, ci potremo amare ancora come prima, più di prima. Non diciamoci ancora addio, non lasciamoci ancora per sempre.
Ma la donna tacque e quando egli la fissò con gli occhi torbidi la vide scuotere il capo lentamente come per manifestare una pietà commossa per entrambi.
— No, — ella disse, — è la fine necessaria, fatale, voluta dalle cose e da noi stessi. Perchè trascinare avanti un amore durato quasi due anni e vissuto con tanta passione, con tanta felicità e con tanto dolore, perchè trascinarlo avanti per abitudine e per inerzia fino alla sazietà completa, fino alla nausea? Meglio spezzarlo ora finchè questa ferita ci fa ancora male, finchè ci lascia ancora qualche rimpianto e qualche desiderio.
— Lo vuoi, lo vuoi assolutamente? — domandò Ugo afferrandola alle spalle e scrutandola negli occhi come per leggervi ancora un resto d’esitazione, per trarne un baleno di speranza.
Ella dolcemente gli prese le mani e se le raccolse sul volto quasi per mitigare la crudezza della risposta:
— Bisogna! — susurrò quasi più con l’atteggiamento delle labbra che con la voce. — Bisogna lasciarci: è scritto nel destino.
Allora egli si staccò da lei, s’irrigidì in un’attitudine di forzata calma e sogghignò:
— Forse hai ragione....
Avevano passato una settimana insieme in un paesello di mare, come facevano da due anni, non appena la professione di Ugo Leardi gli concedeva alcuni giorni di libertà e ritornavano ora, egli alla sua cittadina dell’Italia centrale ove dirigeva un grande stabilimento elettro-tecnico, ella alla sua città settentrionale dove viveva sola con una matura cugina zitella, da quando il marito dopo pochi mesi di matrimonio, l’aveva abbandonata per un’altra donna.
Quegli otto giorni di intimità erano stati in taluni momenti stranamente penosi per entrambi. Clemenza si era sorpresa alcune volte ad annoiarsi o ad impazientirsi della vicinanza perenne dell’amante ed aveva còlto in lui stesso qualche atteggiamento distratto, qualche gesto di stanchezza che le avevano rivelato verso quale nuova fase si avviasse forse il loro amore: la fase malinconica della sazietà. E coraggiosamente si era proposto di impedire ch’esso declinasse e morisse così di lento esaurimento; fermamente aveva manifestato all’amante la necessità di troncare quell’amore di colpo e di separarsi per sempre.
Il treno andava attraverso la notte col suo rombo eguale e il silenzio durava nella breve cabina chiusa. Ancora pochi minuti ed Ugo Leardi sarebbe disceso in una piccola stazione male illuminata, sarebbe scomparso nell’ombra per sempre. Ora egli indossava adagio il suo soprabito, poneva a terra la sua valigia, sulla cuccetta il cappello e l’ombrello e per l’ultima volta stringeva Enza fra le sue braccia con avida passione.
— Addio, addio, addio, bambina, dolcezza, anima mia. Addio; non guardarmi così con quegli occhi sperduti. Non vedi che piango se mi guardi così?
Ella piangeva veramente, abbandonata sulla spalla di lui, smarrita, dolente, chiedendosi se non fosse stata troppo crudele o troppo imprudente a volere quella fine.
Con una scossa brusca il treno si fermò. Egli depose un ultimo bacio leggero sui capelli di Enza ed uscì nel corridoio preceduto dal custode che portava la sua valigia. Enza lo accompagnò in silenzio, in silenzio porse alle sue labbra la destra, mentre egli, a terra, seguiva d’alcuni passi il treno che già si muoveva. Quindi lasciò quella mano e rimase fermo nell’ombra della stazione quasi buia, finchè si confuse nell’oscurità della notte.
Enza tornò lentamente alla sua cabina, vi si rinchiuse e s’abbandonò inerte sulla cuccetta. Qualche cosa di freddo l’urtò al viso: era il portasigarette d’oro di Ugo che egli aveva dimenticato nell’accomiatarsi. Ella lo prese, lo considerò a lungo e sospirò, afferrata d’un tratto da un senso confuso di nostalgia e di malinconia. Ecco l’unica cosa che le rimaneva di lui, un freddo oggetto scordato per distrazione e ch’ella gli avrebbe alla prima occasione rimandato. Lo rinchiuse nella sua borsetta e incominciò adagio a spogliarsi, cullata senza posa dall’ondeggiare del treno. Infilò una lunga camicia da notte in seta viola, girò la chiavetta della luce e si distese aspettando il sonno. Ma il sonno non venne, il sonno esulò lontano dai suoi occhi stanchi, spalancati nel buio e per tutta la notte, chiusa in quella prigione fuggente ella non ebbe che un pensiero, un ricordo, un rimpianto: Ugo, Ugo, Ugo. Dov’era? Che faceva? Che pensava? Dormiva sognando di lei o vegliava con desiderio e con rammarico di lei? Mai più, mai più si sarebbero incontrati pel mondo? Avrebbe egli presto un’altra amante? E come sarebbe? Bionda e magra come lei o bruna invece e florida per necessità di contrasto?
Le parve un momento che una voce straziante come un grido la richiamasse indietro implorando. Sussultò, le sembrò di mettersi a correre e di cadere di colpo a terra. Si scosse, si destò, comprese: la voce straziante era il fischio della locomotiva, il colpo violento l’arrestarsi improvviso del treno. Poco dopo il custode bussò discretamente alla sua porta avvertendo che fra mezz’ora si giungeva.
La luce dell’alba penetrava fra l’una e l’altra tendina abbassata, accendeva un raggio nello specchio incassato nella porta del gabinetto di toilette. Essa vi entrò, si rinfrescò il viso e le braccia con l’acqua limpida, ravviò i suoi capelli scomposti, si rivestì in un momento, uscì nel corridoio.
Un americano gigantesco, con un largo volto da donna sbarbato e roseo vi passeggiava in pigiama di seta gialla commentando alla moglie, ch’era in kimono di seta azzurra, il sorgere lento del sole sui colli. Parevano in casa loro: ella sgretolava un pezzo di cioccolato, egli fumava e di tanto in tanto le circondava le spalle col braccio, finchè la costrinse a voltarsi e scomparvero entrambi nella loro cabina. La beatitudine della serenità era così manifesta sul loro placido volto, che Enza li invidiò. Perchè non poteva essere anch’ella così, guardare l’aurora succhiando un confetto e sentendo intorno alle sue spalle il braccio d’Ugo, il quale serenamente l’amava?
Ahimè! ella era composta di un’altra sostanza umana, fatta d’inquietudine, di tormento e di contraddizione. Di contraddizione specialmente, la quale la spingeva a rinnegare oggi ciò che era stato la sua gioia di ieri, a rimpiangere domani la sua schiavitù di oggi.
Fatalmente per questa maligna malattia del suo spirito, ella già si pentiva di aver spezzato poche ore prima la sua catena, già rammaricava la libertà concessa all’amante, già si sentiva gravare addosso la solitudine e il vuoto del suo cuore.
Giunse a casa sua, dove la matura cugina l’aspettava, con un mal di capo così violento che si pose subito a letto e vi rimase quasi tutto il giorno. Le pareva che fosse inutile alzarsi, muoversi, ricominciare a vivere la consueta esistenza, quando l’unica ragione della sua vita era scomparsa, non la sorreggeva, non la incitava più. Sempre, quand’ella ritornava dopo aver passato con Ugo alcuni giorni, erano telegrammi e lettere senza fine per esprimersi l’un l’altro tutto il rimpianto della lontananza, per ricordare ad uno ad uno tutti i momenti più gaudiosi o più dolorosi della loro intimità, per affrettare col desiderio e con l’augurio il rinnovarsi di un altro incontro, di un’altra più lunga vita in comune.
Ora nulla. Ella non telegrafò e non scrisse nè ricevette da Ugo una parola. Eppure le pareva sempre che una parola di lui le dovesse giungere da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, anche una sola espressione di ricordo o d’amicizia, anche solo una domanda semplice che le chiedesse notizie del piccolo astuccio d’oro dimenticato vicino a lei. Ma non giungeva nulla ed ella non osava, non poteva scrivergli per la prima mentre ella stessa aveva così fermamente voluto la fine del loro amore, lottato quasi contro la volontà di lui per mantenersi incrollabile nella sua fiera risoluzione.
Ed intanto i giorni passavano vuoti ed eguali, veniva il tempo in cui tutti fuggivano la città ed Enza ignorava ancora come e dove avrebbe trascorso i suoi mesi estivi. L’anno innanzi s’era lasciata portare da Ugo in un paesetto di montagna e vi aveva vissuto parecchie settimane di felicità. Ella rammentava ora con quale entusiasmo s’era procurato i pesanti abiti, semplici, comodi, quasi mascolini di taglio e i larghi feltri molli destinati alle escursioni che non aveva poi nemmeno tentate. Ma ora che le importava di vestiti e di cappelli se non dovevano piacere ad Ugo, se dovevano solo adornarla per sè stessa o per gente estranea?
Come tutti i grandi amori il suo s’era circondato di solitudine e di mistero, l’aveva isolata dal mondo, costretta a trascurare amici ed amiche, troppo sospettose e vigili compagnie per lasciarle godere e soffrire in segreto la sua passione e la sua schiavitù. Ora quella schiavitù dalla quale si era a forza liberata le pareva necessaria alla sua vita, la sentiva il compimento ed il fine di essa. Ella si paragonava ad uno di quegli uccelletti vissuti lungamente in gabbia i quali, quando s’apre la porta della loro prigione, non sanno più volare lontano e vi ritornano smarriti, pigolando, quasi implorando d’esservi ancora rinchiusi.
Già parecchie settimane erano trascorse in queste affannose inquietudini, quando un giorno sua cugina l’avvertì che una loro comune parente, la contessa Lanzi, le invitava a passare un mese in una sua grandiosa villa dov’ella esercitava la più amabile ospitalità.
Enza riflettè un momento. Sapeva che per giungere a Villa Lanzi occorreva passare nella città che Ugo abitava e pensò che ella avrebbe potuto vederlo al passaggio; aveva per ciò un pretesto plausibilissimo, quello di riconsegnargli il prezioso oggetto smarrito. Disse alla cugina che accettava l’invito ed insieme stabilirono di partire tre giorni dopo.
Ella mandò la sera stessa ad Ugo una lettera-telegramma in cui lo informava laconicamente delle sue decisioni e lo pregava di venire a ritirare alla stazione il portasigarette dimenticato nel suo sleeping.
Il domani egli telegrafò: «Infinite grazie: verrò certamente».
Partirono in un treno affollato, pieno di caldo e di odori grevi, ma a poco a poco quasi tutti i passeggieri discesero, e giunta la sera non rimasero nello scompartimento che le due signore. Viaggiavano da oltre sette ore quando giunsero nella città che Ugo Leardi abitava, e mentre il treno si fermava Enza, affacciata allo sportello, lo vide uscire dalla sala d’aspetto, venirle incontro con un sorriso. Ella gli porse l’astuccio d’oro che Ugo intascò con un «grazie» distratto e chinandosi tutta verso di lui gli disse, quasi in soffio:
— Vorrei parlarti.
— Quando? — egli domandò corrugando la fronte.
— Anche subito, — ella rispose, perplessa, temendo di spiacergli.
— Allora discendi, — egli concluse calmo, aprendo lo sportello.
Enza pregò rapidamente la cugina di scusarla presso la contessa Lanzi e d’avvertirla che sarebbe giunta il domani. Poi discese e un momento dopo, seduta in una carrozza al fianco di Ugo, ella gli si stringeva al fianco tremando, come una povera bestiola che avesse ritrovato finalmente il suo padrone.
Con dolcezza egli le domandò: — Che vuoi dirmi, Enza?
Ma ella per un momento non potè rispondere: aveva appoggiata la fronte sulla sua spalla e ve la scuoteva incontro, gemendo, come per penetrare in lui, come per fargli sentire il fuoco del suo dolore e del suo amore. Egli ripetè: — Che vuoi dunque dirmi, Enza?
— Che ti amo, che ti amo, che non posso vivere senza di te, che non dobbiamo lasciarci.
La risposta fu come un grido represso, come un urlo soffocato. Ugo la cinse, sentì sotto il suo braccio il giovine corpo senza busto, pieghevole, tepido, voluttuoso e si chinò su di lei, le baciò il collo scoperto, la strinse a sè, le mormorò sorridendo:
— Ti ricordi che cosa mi dicesti quella sera in treno? Bisogna lasciarci: è scritto nel destino.
— Il destino lo facciamo noi, — ella rispose sogguardandolo con gli occhi carezzevoli. Ma subito si sollevò, si protese in ascolto.
S’udì il fischio e l’ansare del treno che ripartiva in mezzo alla notte muta, sotto una luna pallida e raggiante come un ostensorio.