Amleto/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
Una stanza nella casa di Polonio.
Entrano Polonio e Reynaldo.
Pol. Reynaldo, dategli questo danaro e queste polizze.
Rey. Così farò, signore.
Pol. Buon Reynaldo, prima d’andar da lui adoprerete saviamente chiedendo della sua condotta.
Rey. Era mia intenzione, signore.
Pol. Saviamente pensato, savissimamente. Prima di tutto dimandate quali Danesi sono a Parigi; dove, e come vivono; qual è la loro compagnia, quali i convegni. Quando poi con questi preliminari avrete saputo che mio figlio è conosciuto, andate direttamente al vostro scopo, e divenga egli stesso l’oggetto delle vostre inchieste. Comportatevi come s’ei non vi fosse ignoto, e dite «son familiare di suo padre, de’ suoi amici; lui pure conosco un poco». Intendete, Reynaldo?
Rey. Intendo, signore.
Pol. «Lo conosco un poco, potrete aggiungere, non particolarmente; ma se è quello che voglio dire, è giovine leggiero, inchinato a questo o a quel vizio;» e allora poi mettete sul conto suo tutto quello che vi piacerà d’inventare; ma siate cauto di non accagionarlo di colpe vergognose che potessero recargli disdoro; parlate soltanto di follie giovanili.
Rey. Come il giuoco, per esempio.
Pol. Sì, il giuoco, il vino, la scherma, i giuramenti, e le donne; fino a questo potete giungere.
Rey. Ma con ciò si disonorerà.
Pol. No; dipende dal modo con cui lo direte. Nol caricate di colpe troppo scandalose; non dite che è dedito interamente alle orgie; non è ciò ch’io intendo, no; ma sfiorate con destrezza cotesti difetti, onde attribuir solo si possano alla foga della gioventù, all’effervescenza del sangue.
Rey. Ma, mio buon signore...
Pol. Vorreste saper perchè dovete fare così?
Rey. Appunto.
Pol. Eccovi il mio scopo, e parmi che da savio io intenda ad esso. Imputando a mio figlio i lievi falli, che si possono reputar néi d’una bell’opera, vi cattiverete lo spirito di quello di cui volete scrutar i sentimenti. S’egli ha trovato i vizi da me detti nel giovine di cui parlate, siate certo che finirà per dirvi: «mio caro signore, o mio amico, mio gentiluomo», secondo il titolo della vostra persona...
Rey. Ebbene?
Pol. E allora, signore, fa... Che voleva io dire? Per la messa, stavo per dir qualcosa... Dove ho lasciato?
Rey. Finirà per dire...
Pol. Ah! sì, sì, finirà per dirvi questo: «Conosco quel giovine, lo vidi ieri, o un altro giorno, col tale o il tale; e, come voi dite, là giuocò, qui fece crapula: ebbe una contesa; conversò con femmine di mal affare; e altre simili cose». Voi ben vedete ora che la vostra menzogna è un’esca per deludere, e pescare la verità; ed è così che noi, che abbiamo esperienza e senso, sappiamo con arte venirne ai nostri fini. Seguirete dunque queste istruzioni per ciò che riguardi mio figlio; m’intendete bene, non è vero?
Rey. A meraviglia.
Pol. Il Cielo vi conduca! andate in pace.
Rey. Mio nobile signore...
Pol. Osservate da voi stesso le sue inclinazioni.
Rey. Così farò.
Pol. E lasciate che suoni la musica che vuole.
Rey. Bene sta, signore. (esce; entra Ofelia)
Pol. Addio! — Ebbene Ofelia? Che hai?
Of. Oh! mio signore, mio signore, rimasi atterrita.
Pol. Di che, in nome del Cielo?
Of. Mentre ricamavo nel mio studiolo sopravvenne il principe Amleto, colle vesti in disordine, la chioma scapigliata, le gambe a metà ignude, pallido come la morte, colle ginocchia tremanti e urtantisi l’uno contro l’altro, l’occhio fosco e feroce, quale potrebbe averlo un’ombra fuggita dall’abisso per venire ad annunziare ai mortali calamità orrende.
Pol. Impazzato pel tuo amore?
Of. Non so; ma lo temo.
Pol. Che ti disse?
Of. Mi prese la mano che strinse con violenza; poi allontanandosi di tutta la lunghezza del suo braccio, e ponendosi l’altra sulla fronte, fissò i suoi occhi sul mio volto, come se avesse voluto ritrarlo. Rimase lunga pezza in quella attitudine; quindi scuotendomi il braccio lievemente, alzò e abbassò tre volte la testa e trasse dal profondo del cuore sospiro sì triste, sì doloroso, che parve che tutto il suo corpo volesse disciogliersi e terminar la sua vita. Poco dopo mi lasciò; e inoltrando col capo volto a ritroso, parea trovar la sua via senza ministero d’occhi;... così varcò la porta guatandomi e si allontanò da me.
Pol. Vieni, vien meco; andrò a cercare il re. — Tale è l’estasi appunto in cui ne immerge l’amore; l’amore colla sua violenza è sempre fatale a se stesso; ei ne trascina a imprese disperate, più che ogni altra passione, che, sotto questo cielo, commuova la nostra debole natura. Mi duole del suo stato. Gli avresti forse detto in questi ultimi giorni qualche cosa aspra?
Of. No, signore; evitai soltanto, come comandaste, la di lui presenza, e rifiutai le sue lettere.
Pol. Ed ecco quello che gli avrà alienata la mente. Mi dispiace di non aver avuto la sagacità di meglio giudicare de’ suoi sentimenti. Temevo che il suo amore non fosse che un giuoco fatale per te. Disgraziato sospetto! e’ pare che il fallo sia della nostra età, lo smarrirci fra congetture, come difetto è della giovinezza il mancar di previdenza. Vieni; andiam dal re: convien fargli conoscere questo segreto. Sarebbevi più pericolo a nascondere un tal amore, che non vi sia da temer sdegno rivelandolo. Vieni.
(escono)
SCENA II.
Una stanza nel palazzo regio.
Entrano il Re, la Regina, Rosencrantz, Guildensterno, e seguito.
Re. Ben giunto, caro Rosencrantz, e voi anche Guildensterno! Oltre il desiderio che avevo di vedervi, il bisogno che ho della vostra opera mi stimolò a chiamarvi presso di me. Udiste parlare della trasformazione d’Amleto? Dico trasformazione, perocchè nè nel suo esterno, nè nell’anima sua, ei rassomiglia più in nulla a quello che era. Qual cagione, fuorchè la morte di suo padre, ha potuto intorbidare a tal punto la sua ragione? Io non ne saprei imaginare altra. Voi dunque, che foste educati con lui fin dalla fanciullezza, che siete sì strettamente uniti seco coi vincoli dell’età e delle passioni, voi prego di restar per qualche tempo a questa corte. La vostra compagnia potrebbe ricondurlo all’amor de’ piaceri. Prendete tutte le occasioni di scoprire se qualche dolore è che lo consumi, di cui la cagione ci sia ignota, e al quale non possiamo portare alcun rimedio.
Reg. Buoni signori, egli ha parlato molto di voi, e sono convinta che non esistano due uomini in terra a cui egli sia più strettamente avvinto. Degnatevi di restar con noi qualche tempo per avverare la speranza che abbiamo concepita al vostro arrivo; e il guiderdone che ne riceverete risponderà a quello che può dare la riconoscenza d’un re.
Ros. Le Maestà Vostre hanno potenza di comando su di noi: di questa usino anzichè pregarci.
Guil. Obbediremo; e consacrandoci interamente ai vostri servigi, offeriamo qui lo zelo nostro e le nostre persone.
Re. Grazie, Rosencrantz, grazie, gentil Guildensterno.
Reg. Grazie, buoni signori. — Vi scongiuro d’andare in questo istante istesso a veder mio figlio. — Oimè, egli è ben cangiato! — Ite, conducete questi signori dov’è Amleto. (al seguito)
Guil. Il Cielo gli renda proficua la nostra presenza e i nostri uffici!
Reg. Così sia! (escono Ros., Guil. e seguito; entra Polonio)
Pol. Gli ambasciatori di Norvegia sono felicemente ritornati, signore.
Re. Voi foste sempre il padre delle liete novelle.
Pol. Non è vero, signore? Ah! posso ben dichiararvi che mio dovere e la mia anima sono consacrati al mio Dio e al mio re. — Credo, se questa testa non ha smarrita la sagacità che soleva avere, credo di avere scoperta la cagione del turbamento d’Amleto.
Re. Oh ditela; ardo dal desiderio di conoscerla.
Pol. Ascoltate prima gli ambasciatori. Quel ch’io vi narrerò poi sarà come la dolce frutta di un buon banchetto.
Re. Fate voi stesso gli onori e introduceteli (Pol. esce). Mia cara regina, ei dice che ha scoperta l’origine del male che travaglia vostro figlio.
Reg. Dubito che questa sia la morte di suo padre, e il nostro maritaggio sollecito.
Re. Fra poco udiremo (rientra Pol. con Voltimando e Cornelio). Salute, degni amici. Dite, Voltimando, che vi disse il nostro fratello di Norvegia?
Vol. Ci affidò di ricambiarvi le vostre felicitazioni e i vostri saluti. Seguìto appena il nostro arrivo colà, ei comandò s’interrompessero le leve di soldati che faceva suo nipote, sotto pretesto d’una spedizione contro la Polonia, ma che, ben riguardate trovaronsi dirette contro Vostra Maestà. Sdegnato che si abusasse così dell’età sua e de’ suoi mali, fece significare i suoi comandi a Fortebraccio, che, intimorito dalle minaccie del re, si sottomise giurando che non avrebbe mai più alzate le armi contro di voi. Il vecchio re, compiaciuto della di lui promessa, gli ha assegnato tre mila scudi di rendita, concedendogli di capitanar le schiere levate da lui contro la Polonia. Ora ei vi prega di dar libero passaggio pei vostri Stati a quell’esercito, sotto le garanzie di sicurezza che stan qui notate. (dandogli un foglio)
Re. V’acconsento volontieri; leggerò questo scritto quando avrò tempo di esaminarlo e di pensare alla risposta che vi debbo fare. Per ora vi ringrazio delle cure che con tanto buon successo vi addossaste. Ite a riposarvi; questa sera farete parte della mia festa; vi riveggo con vero diletto.
(escono Voltimando e Cornelio)
Pol. Questa bisogna è felicemente compiuta. Signore, e voi madonna, far lunghi discorsi per saper ciò che esiga la maestà dei re, i dritti dei sudditi; perchè il giorno sia giorno, la notte notte, il tempo tempo, sarebbe spendere invano e tempo e giorno e notte. Dunque, poichè la concisione è l’anima dello spirito, e nulla è più mortale delle circonlocuzioni e delle perifrasi, sarò breve. — Il vostro nobile figlio è demente: demente oso dirlo; perocchè la follia, a ben definirla, altro non è che insensatezza. Ma lasciamo ciò.
Reg. Più cose e meno arte.
Pol. Signora, vi giuro che alcuna non ne adopero. Che insensato ei sia, è pretta verità: verità è che tal cosa è dolorosa, e doloroso che tal cosa sia vera. Frivola è l’antitesi! Obbliamola, perocchè adoperar non voglio alcuna arte. Conveniamo perciò che è insensato; resta ora a penetrarsi la cagione di tal effetto; perocchè questo effetto, o direi meglio difetto, ha una cagione. Ora badate a quel che rimane; a quel che mi rimane da dire; seguitemi con attenzione. — Ho una figlia (l’ho finchè mi appartiene) che per dovere ed obbedienza mi ha data questa lettera; uditela e concludete. «Alla celeste, alla vaghissima della mia anima, alla divina Ofelia». La frase ne è cattiva; ma badate al resto «Al di lei candido seno questi ecc.».
Reg. Le fu addirizzata da Amleto tal lettera?
Pol. Aspettate, buona signora: sarò fedele, (legge) «Dubita che le stelle sian di fuoco; dubita che il sole si muova; dubita che la verità sia verità, ma non dubitar del mio amore.
«Oh cara Ofelia, questi versi aggravano il mio affanno: io non ho l’arte di rendere eloquenti i miei sospiri; ma ch’io ti ami teneramente, credilo. Addio, addio.
«Il tuo, mia cara fanciulla, finchè questo corpo sarà animato, Amleto».
Questa lettera mi ha mostrata mia figlia per dovere d’obbedienza; e m’ha dichiarate di più tutte le preghiere che Amleto le ha fatte e tutte le circostanze di tempo, di mezzi e di luogo.
Re. Ma come accolse ella il di lui amore?
Pol. In qual conto m’avete voi?
Re. In conto d’uomo d’onore e fido.
Pol. Godo di potervi provare che son tale. Ma che potreste pensare, se, allorquando ho veduto l’ardente sua fiamma divampare (poichè debbo dirvi che avvisto me ne sono, anche prima che mia figlia me lo avesse detto), che potreste pensare e che penserebbe la Regina che m’ode, se cooperato avessi a quella passione; se incoraggita l’avessi col mio silenzio; se rimasto ne fossi tranquillo spettatore, che avreste pensato di me? — No, no, andai diritto al fatto e favellai alla fanciulla così: «Il principe Amleto è troppo al disopra di te; la cosa non avrebbe buon fine». E le ho imposto di starsene racchiusa e di astenersi dal ricevere lettere o doni. Mia figlia ha tratto buon profitto dall’insegnamento: e per abbreviar l’istoria, il principe, che s’è visto negletto, è caduto in malinconia, di malinconia in ambascia, e per progresso in quel delirio che ci fa tutti addolorati.
Re. Credete che la cosa accadesse così?
Reg. È probabile.
Pol. Fu mai tempo, vorrei saperlo, in cui fermamente assicurassi, la cosa è questa, e che poi fosse diversa?
Re. Per vero dire non me ne rammento.
Pol. Togliete questo da queste (indicando il proprio capo e le spalle) se la cosa non è quella ch’io dico. Per poco che le circostanze mi favoreggino, scoprirò dove si cela la verità, sì, fosse ella nascosta nel centro della terra.
Re. E come pervenire a ciò?
Pol. Voi sapete che il principe passeggia sovente quattro ore per questa galleria?
Reg. Ebbene?
Pol. Ebbene: nel momento in cui vi sarà, lascierò venir qui mia figlia, e noi celati dietro quelle cortine assisteremo al colloquio. Se egli non l’ama, se l’amore non è la cagione del suo male, ch’io più non sia una delle colonne del vostro Stato; ch’io perda quanto posseggo, e mi si mandi in un podere a condur l’aratro.
Re. Faremo l’esperimento. (entra Amleto, leggendo)
Reg. Eccolo: oh! dolorosa vista! Lo sfortunato s’avanza leggendo.
Pol. Andatevene, ve ne scongiuro, entrambi; allontanatevi, io gli parlerò (escono il Re, la Regina e il seguito). Come vi sentite, buon principe Amleto?
Am. Bene, per bontà di Dio.
Pol. Mi conoscete, signore?
Am. Sì: siete un mercante di pesce.
Pol. Non io, signore!
Am. Allora vorrei che foste un così onest’uomo.
Pol. Onesto, principe?
Am. Sì, amico, essere onesto, nel modo come va il mondo, è un essere eletto in mezzo a diecimila.
Pol. Questo è vero, signore.
Am. Imperocchè, se il sole genera gl’insetti in un cane morto, e, quantunque Dio, diffonde la benefica sua luce sopra un cadavere fracido... Avete voi una figlia?
Pol. Sì, mio signore.
Am. Non la lasciate errare di mezzodì... Comprendere e concepire è una benedizione del Cielo; ma non nel modo che potrebbe concepire vostra figlia... Siate cauto, amico.
Pol. Che volete dir con ciò, signore? (a parte) Sempre col pensiero fermo in mia figlia. — Nullameno ei non mi riconobbe in principio e mi reputò un mercante. I suoi spiriti sono perduti. — A me pure in giovinezza l’amore fece soffrir gravi tormenti, quasi come i suoi. Convien che gli favelli di nuovo. — Che leggete, signore?
Am. Parole, parole, parole!
Pol. Di che è questione, signore?
Am. Fra chi?
Pol. Intendo qual’è la materia del libro che leggete?
Am. Calunnie, signore. Cotesto malvagio e satirico autore dice che i vecchi han la barba grigia; che il loro volto è aggrinzito; che i loro occhi stillano un’ambra densa come la gomma del susino; che han pochissimo cervello e ogni fibra indebolita. Sebbene anch’io ciò sappia per mia esperienza e lo creda così fermamente come umana cosa può credersi, pure riguardo sì fatti scritti come poco onesti; avvegnachè voi pure, signore, al par di me invecchierete, quand’anche trascorreste a ritroso la vostra vita.
Pol. (a parte) Quantunque questo discorso sia quello d’un insensato, v’è metodo, vuol convenirsene. — Principe, vi volete toglier da quest’aria?
Am. Entrando nel sepolcro?
Pol. (a parte) Questo infatti sarebbe un togliervisi per sempre. Quanto ingegno è nelle sue risposte! Tal ventura incontra spesso la follia, mentre la ragione più sana non saprebbe scoccare simili quadrelle. Vo’ lasciarlo per preparare il colloquio di mia figlia. — Onorevole signore, prendo umilmente commiato da voi.
Am. Voi non potete prendere, signore, alcuna cosa da me ch’io volentieri non vi dia; eccetto la mia vita, eccetto la mia vita, eccetto la mia vita.
Pol. Addio, signore.
Am. Sono noiosi questi vecchi! (entrano Rosencrantz e Guildensterno)
Pol. Voi venite in traccia del principe Amleto: eccolo.
Ros. Iddio vi salvi, signore!
Guil. Onorato principe!...
Ros. Mio caro Amleto!...
Am. Miei degni e fidi amici! Come state, Guildensterno? come voi, Rosencrantz? Virtuosi giovani, in qual modo conducete la vita?
Ros. Figli volgari della fortuna, noi non abbiamo a lodarci o a dolerci di lei.
Guil. Fortunati di non esser troppo fortunati; sul berretto della sorte, non sul dosso suo.
Am. Nè sotto le sue calzature?
Ros. Nè l’uno nè l’altro, signore.
Am. Allora ve ne state al di lei cinto, in mezzo a’ suoi favori?
Guil. A’ suoi più privati, in fede.
Am. A’ suoi più privati favori? Oh è vero; essa è una meretrice. Quali novelle?
Ros. Alcuna, signore; se non che il mondo è divenuto onesto.
Am. Il giorno del giudizio non è dunque lontano; ma la vostra notizia non è sicura. — Permettete che vi faccia più particolari dimande, miei buoni amici; che cosa avete fatto alla fortuna perch’ella vi mandi qui in carcere?
Guil. In carcere, principe?
Am. La Danimarca è una prigione.
Ros. Il mondo intero allora lo è?
Am. E ben vasta: e vi si trovano ferri e segrete; una di queste infaustissima è la Danimarca.
Ros. Così non crediamo, signore.
Am. Per voi nol sarà; perocchè nulla è bene o male fuorchè per la nostra imaginazione; ma per me è una prigione.
Ros. La vostra ambizione ve la farà sembrar tale; che troppo angusta sarà per la vostr’anima.
Am. Ah Dio! potrei essere annicchiato nel cavo d’un albero e credermi re di un immenso spazio se turbato non fossi da sogni funesti.
Guil. E tali sogni sono appunto quelli dell’ambizione; perocchè la sostanza di cui si pasce l’ambizioso non è che l’ombra di un sogno.
Am. Un sogno non è ugualmente che un’ombra.
Guil. Certo; ed estimo l’ambizione sì vana e sì leggiera che non la reputo appunto che l’ombra di un’ombra.
Am. Onde i nostri mendichi son corpi; e i nostri re e i nostri grandi eroi non ne divengono che le larve. Andiamo in Corte? Poichè, in fede, non mi sento in istato di ragionare.
Ros. e Guil. Vi seguiremo, signore.
Am. No: non vo’ porvi nel novero de’ miei servitori; perchè, a parlarvi onesto, ne ho di terribili intorno a me. Ma palesatemelo colla schiettezza dell’amicizia: che veniste a fare ad Elsinoro?
Ros. A vedervi, signore; non ad altro.
Am. Oh sfortunato ch’io sono, povero mi trovo anche di ringraziamenti; ma abbiateveli, quali che si siano, sebbene in verità, miei amici, per quanto poco cari vengano estimati, lo saran sempre di troppo. — Ma mandati non foste qui? Veniste spontanei? Ditelo ingenuamente; su via, parlate.
Guil. Che possiamo dire, signore?
Am. Tutto; ma al proposito. — Voi foste qui inviati, ne veggo la dichiarazione nei vostri occhi e non avete bastante artificio per dissimularla. So che foste mandati dal nostro buon re e dalla regina.
Ros. A qual fine, signore?
Am. Voi vel saprete; non io. Ma vi scongiuro, per tutti i dritti dell’amicizia; per la conformità dell’età nostra; pei doveri di un inviolabile affetto; pei nodi infine più cari che possansi attestare, d’essere aperti e sinceri con me; dite se foste mandati qui.
Ros. (a Guil.) Che rispondete a ciò?
Am. La confessione ne ho di già nei vostri sguardi. Se mi amate, non li contraddite.
Guil. Ebbene, signore, è vero; fummo mandati.
Am. Ora io vi dirò con quali intenti, e con ciò preverrò la confidenza che mi fareste, senza che il segreto che dovete al re e alla regina venga punto rimosso. — Da qualche tempo ho perduto, non so come, tutta la mia giovialità, ho negletti tutti i miei esercizi; e in verità, il mio umore è divenuto sì malinconico, che la terra, ammirabile globo, non mi par più che uno sterile promontorio; il firmamento, divino padiglione teso sulle nostre teste, maestosa volta seminata di stelle brillanti, che uno schifoso ricettacolo di vapori pestilenziali. Qual capo-lavoro è l’uomo! Come nobile egli è per la sua ragione, e infinito per le sue facoltà! Qual’espressione ammirabile e commovente nel suo volto e nel suo gesto! Un angelo allorchè opera; eguale quasi a Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! re degli animali!... E nullameno, per me, che è questa quinta essenza di polvere? L’uomo non ha più allettamenti pel mio cuore, e neppure la donna: sebbene, col vostro sorriso, sembriate sospettare del contrario.
Ros. Signore, tal frivolezza non m’entrò in pensiero.
Am. E perchè sorrideste quando dissi che l’uomo non ha più allettamenti per me?
Ros. Pensavo che se l’uomo non vi alletta più, i commedianti che, non ha molto, incontrammo che venivano per offrire i loro servigi a Vostra Altezza, non avrebbero ricevuto da voi un accoglimento molto propizio.
Am. Quegli che fa le parti di re sarà il ben accolto; e Sua Maestà otterrà un tributo da me. L’avventuroso cavaliere potrà far brillare la sua spada e il suo scudo; l’amante non sospirerà indarno; il pazzo otterrà l’obolo della demenza, e l’innamorata chiarirà liberamente i propri sensi, se l’energica pausa de’ versi interrotti non parlerà per lei. — Or chi son costoro?
Ros. Que’ medesimi che con tanto piacere ascoltavate; gli attori della città.
Am. E come viaggiano? E’ dovrebbero rendersi stazionari, e ne sentirebbero profitto dal lato della gloria e delle sostanze.
Ros. Credo che una legge vieti ciò ad essi.
Am. Son sempre estimati come erano quando io gli intesi?
Ros. No, mio signore.
Am. E perchè? Han forse degenerato?
Ros. Non credo; ma una schiera di fanciulli, ampollosi declamatori, toglie loro ogni vanto. Da questi soli si accorre, e questi si son preso tanto pensiero di denigrare gli antichi attori, che i nostri più prodi cavalieri, spaventati dalla penna de’ loro scribi non osano più andare agli altri teatri1.
Am. Che! fanciulli sono? E chi li sostiene? chi li paga? Continueranno essi la loro professione finchè fatti sian mutoli? Se non pervengono ad essere che volgari comici (ciò che facilmente accadrà, poche essendo le loro doti) non diranno essi poscia che gli scrittori che li esaltano, fanno ad essi ingiuria, inducendoli a declamare contro i successori.
Ros. In fede mia molti piati son già accaduti, e la Nazione non si cura di mantenere la divisione fra di loro. Fu un tempo in cui un autore non poteva essere pagato della sua produzione che dopo essersi ben battuto coi commedianti.
Am. Possibile?
Guil. Molto sangue fu già sparso.
Am. E i fanciulli vinsero?
Ros. Sì, principe; ed Ercole ancora avrebbero vinto.
Am. Non è sorprendente; poichè mio zio è re di Danimarca, e quelli che durante la vita di mio padre si beffavano di lui, spendono ora venti, quaranta, cinquanta, anche cento ducati per avere il suo ritratto in miniatura. — V’è in ciò qualche cosa che non è naturale, se la filosofia potesse scoprirlo.
(Suoni di trombe al di dentro)
Guil. Ecco i commedianti.
Am. Signori, siate i ben venuti ad Elsinoro; venite: datemi mano. I segni ordinari d’un buon accoglimento sono le felicitazioni e le cerimonie. Permettete che in siffatta guisa vi tratti, per tema che i miei riguardi verso gli attori (che costretto sono, ve ne prevengo, di ben accogliere in apparenza) non sembrino maggiori di quelli che uso a voi. Siate i benvenuti. Ma mio zio, che mi è padre, e mia madre, che m’è zia, sono ben decaduti!
Guil. In qual guisa, signore?
Am. Non son pazzo che dal lato del nord, allorchè spira libeccio; e so ben discernere un falco da una cornacchia.
(entra Polonio)
Pol. Salute, gentiluomini!
Am. Udite, Guildensterno... e voi ancora;... ad ogni orecchio un ascoltatore. Quel gran bimbo che là vedete, non è ancora escito di fascie.
Ros. Forse v’è rientrato; perocchè dicesi che un vecchio sia due volte fanciullo.
Am. Vi predico ch’ei viene a parlarmi de’ comici; attendete. — Avete ragione, signore, così accadde lunedi mattina.
Pol. Signore, ho novelle da dirvi.
Am. Signore, io pure ne ho. — Allorchè Roscio era attore in Roma...
Pol. Gli attori son venuti, principe.
Am. Ciancie, ciance!
Pol. Sul mio onore...
Am. Ognun d’essi venne sul proprio asino...
Pol. I migliori attori del mondo per la tragedia, la commedia, la pastorale, la comico-pastorale, la istorico-pastorale, tragico-istorico, tragico-comico-istorico-pastorale, scena indivisibile, poema illimitato. Seneca non può essere troppo forte, nè Plauto troppo umile per loro. In materia di spirito non la cedono ad alcuno.
Am. Oh Jefte giudice d’Israel... qual tesoro hai tu!
Pol. Qual tesoro ha egli, signore?
Am. Una bella figlia, e non altro, che con passione amava.
Pol. (a parte) Ognora su mia figlia.
Am. Non ho io ragione, vecchio Jefte?
Pol. Se mi chiamate Jefte, principe, ho una figlia che in verità amo con passione.
Am. No, non segue così.
Pol. Che segue dunque, signore?
Am. Ciò che chiamiam sorte è volontà di Dio; e quanto accade debbe accadere. La prima linea della canzone del Natale ve ne dirà di più. Ecco il mio corollario. (entrano tre o quattro commedianti) Benvenuti, signori; godo di vedervi bene; benvenuti, buoni amici! Oh, oh, antico compagno, il tuo volto s’è bene allungato dacchè veduto non t’avea. Vieni tu in Danimarca per isfidarmi?... Che! mia giovine signora ed amica! Per la Madonna, vossignoria è più vicina al cielo di quando io la vidi l’ultima volta diritta sulle galoscie. Prego Dio che la vostra voce si mantenga, nè rimanga svergognata come una moneta falsa nel crogiuolo. Amici, siete i ben accolti; andremo al nostro termine come falchi francesi che volano sulla prima punta che si presenta a’ loro occhi. Su, su, un saggio del vostro ingegno; un bello e patetico discorso.
1° Com. Quale, signore?
Am. Una volta v’intesi declamarne uno, non mai pronunziato in teatro, perchè apparteneva ad una composizione non fatta per piacere alla moltitudine, non di suo gusto, quantunque eccellente. Così io la giudicavo, come anche alcuni altri, il di cui giudizio era migliore del mio. Scene bene ordinate, scritte con molta arte e decenza. Mi ricordo che un uomo diceva che non v’era nei versi alcun sale per condire il soggetto; che le frasi eran parole vuote di senso e non mostravano nessun gusto nell’autore, a cui non concedeva che il merito dell’orditura. — Eravi però fra gli altri un passo in quella composizione che mi piaceva assai; il racconto di Enea a Didone, particolarmente quando le narra l’uccisione di Priamo. Se ancora stanno nella vostra memoria, cominciate da quel verso... aspettate, aspettate che me ne rammenti: «Il feroce Pirro simile a tigre d’Ircania...» No, no, non è così; comincia con Pirro. «Il feroce Pirro, che rivestito d’armi nere come i suoi disegni, somigliava alla notte, quando giaceva entro i fianchi del colosso fatale, ha cangiata la sua tinta spaventosa e indossa divisa anche più orribile. Dalla testa ai piedi egli è color di porpora; la sua armatura è luridamente tinta del sangue de’ padri, delle madri, delle fanciulle, e de’ lattanti divenuti preda delle fiamme, la cui vampa infernale rischiara le crudeltà de’ barbari omicidi. Il mostro coperto tutto d’un umor livido e rappreso, colla rabbia nell’anima e gli occhi scintillanti quali carbonchi, l’orrendo Pirro cerca il venerabile Priamo». Ora seguitate.
Pol. Pel Cielo, signore, avete declamato a meraviglia! Qual accento! qual’enfasi!
1° Com. «E in breve ei s’offre a’ suoi occhi, alzando contro i Greci una debole mano, e la sua antica spada si rifiuta all’usato ministerio; vacilla e cade. Pirro s’avanza all’ineguale combattimento. Nell’ira sua, va contro Priamo, vibrando all’aria fieri colpi. Il solo fischio della sua spada abbatte il languido vecchio. L’insensibile Ilio, che pare fatto accorto del grande omicidio, cade col suo re, e gl’infiammati edificii crollano fino dalle fondamenta. L’orrendo strepito di quelle ruine ferisce l’orecchio di Pirro, e gl’incatena il braccio. Mirate! la sua spada, in procinto di scendere sulla canuta testa del monarca, sembra sospesa per l’aere. Simile a tiranno dipinto, Pirro senza intento e volontà rimane immobile.
«Ma, in quella guisa che vedesi la calma succedere alla tempesta, allorchè gran silenzio regna pe’ cieli, e le nuvole stanno immote; allorchè i venti taciono, perchè placata ne è la rabbia, e il globo della terra è divenuto silenzioso come la morte; e repentinamente il folgore squarcia di nuovo le nubi e fa rivivere gli echi della terra, così Pirro, dopo breve, riacceso di furore, ripiglia il corso di sua feroce vendetta. Non mai i martelli de’ Ciclopi caddero con minori rimorsi o pietà sull’acciaio, di cui costituiscono l’eterna armatura di Marte, come la spada di lui sanguinosa scende sulla fronte di Priamo. Oh Fortuna, Dea prostituta, sii annientita! Oh Numi, congiurate insieme contro di lei, e deponetela dal suo soglio. Distruggete i raggi della sua ruota e precipiti dalla sommità del cielo negli abissi del Tartaro».
Pol. È troppo lungo.
Am. Così potrebbe dire anche il barbiere della vostra barba. — Continuate, vi prego; a lui piacciono le danze, o i racconti licenziosi; in altra guisa s’addorme. Continuate: venitene ora ad Ecuba.
1° Com. «Ma oimè me! se veduta aveste la velata regina...»
Am. La velata regina?
Pol. Il quadro è bello.
1° Com. «Correre coi piedi nudi fra le fiamme che il torrente delle sue lagrime parea volesse estinguere; coperta il capo, che ornava prima un diadema, di miserabili bende; cinta con vil coltre presa a ventura fra quella desolazione: se veduta l’aveste, la lingua vostra avrebbe profferite contro la Fortuna le invettive più amare, e rimproverato le avrebbe il suo crudo tradimento. Se gli Dei contemplata l’avessero in quello stato deplorabile, allorchè le apparve Pirro indegnamente insultante al sanguinoso cadavere del suo sposo, o insensibili ei sono alle miserie dei mortali, o lo sfogo subitaneo delle sue lamentevoli grida avrebbe intenerito fin l’ardente occhio del cielo, è fatto provare agli immortali le passioni dell’uomo».
Pol. Guardate come ha mutato colore, come i suoi occhi sono gonfi di lagrime! — Pregoti, non più.
Am. Basta; terminerete questa sera. — Signore, sia vostra cura di bene alloggiarli; intendete? Siano ben trattati. Questi uomini sono un compendio della storia di tutti i tempi; sarebbe meglio per voi avere un cattivo epitaffio dopo morte, che esser da loro diffamato durante la vostra vita.
Pol. Signore, saran trattati come meritano.
Am. Oh! vi prego, molto meglio; perocchè se trattate ognuno a seconda del proprio merito, chi anderà esente da castigo? No, trattateli come ve lo consiglia la probità della vostra anima. Quanto meno merito avranno, tanto più ve ne sarà nelle grazie che loro impartirete. Guidateli con voi.
Pol. Venite, signori. (esce con alcuni Com.)
Am. Amici, seguitelo. Vedremo oggi una delle vostre rappresentazioni. — Odi, mio vecchio amico, potresti tu recitarne la tragica morte di Gonzago?
1° Com. Potrei, signore.
Am. Ebbene, apparecchiati a farlo dimani sera. Saprai anche imparare a memoria, spero, dieci o dodici versi che inserirò nella tua parte. Di’, nol saprai?
1° Com. Così ciò mi valga la grazia vostra, signore.
Am. Bene. Seguite quel gentiluomo e non vi beffate di lui lungo la via. (escono i Com.) Miei buoni amici, (a Ros. e Guil.) vi lascio; ci rivedremo stanotte. Siate intanto i benvenuti ad Elsinoro.
Ros. Mio buon signore!
Am. Dio sia con voi. — (escono Ros. e Guil.) Eccomi alfine solo. — Oh qual uomo indegno e insensibile io sono! Non è egli mostruoso che, per una sventura imaginaria, per un vano sogno di passioni, quel commediante esalti la sua anima al livello della sua imaginazione e ne dipinga tutti i moti sull’infiammato suo volto? Occhi umidi di pianto; dolore scolpito sopra ogni lineamento; voce interrotta da singhiozzi; gesto patetico e conforme allo stato in cui finge essere, e tutto ciò per nulla! — Per Ecuba! Che ha egli di comune con Ecuba? Che cosa è Ecuba per lui perchè le dia così le proprie lagrime? Che farebbe dunque se fosse al mio luogo? Se dovesse compiere, come me, una parte di dolor vero, egli inonderebbe il teatro de’ suoi pianti; spaventerebbe l’orecchio degli spettatori colle sue grida e co’ suoi gemiti; recherebbe il terrore nel cuor del colpevole; farebbe impallidire l’innocente; empirebbe di stupore l’anima più volgare, e presenterebbe agli occhi e all’orecchio un oggetto meraviglioso di orrore e di compassione. Ed io, melanconico e stolto pensatore, inerte e grave volume di materia, io resto muto, senza sentimento della causa che debbo vendicare, e nulla dico.... nulla per un re che ha perduta la corona e la vita pel più nero tradimento! — Son io adunque un vile?... Chi osa chiamarmi traditore? Chi osa smentirmi? Chi insultarmi e coprirmi d’obbrobrio?... E nondimeno il patirei: perocchè è impossibile ch’io non abbia un cuor vile; che il mio sangue non sia agghiacciato entro le mie vene, lasciando assopire così entro di me il sentimento della vendetta, forte del quale avrei diggià abbandonato agli avoltoi il corpo dello scellerato. — Oh perfido assassino! Vile incestuoso! Anima senza rimorsi! Traditore empio! Qual uomo inetto son io! Ah! ben si addice a me, al figlio d’un tenero padre ucciso, mentre il cielo e l’inferno m’esortano alla vendetta, il contentarmi, come vil femmina, di esalare così l’ira mia con basse contumelie o stolte imprecazioni! Vergogna, obbrobrio a me!..... Pure udii dire che vi furono delinquenti seduti al teatro, i quali rimasero così scossi dall’arte della scena, che acclamarono da loro stessi i loro delitti.... E il delitto, sebbene senza lingua, si tradirà da sè e parlerà..... Voglio che questi attori rappresentino qualche dramma che ritragga la storia della morte di mio padre, dinanzi a mio zio. Osserverò i suoi moti, scruterò addentro nelle pieghe del suo cuore. Se lo veggo fremere, conosco il dover mio... Il fantasma che ho incontrato potrebbe essere uno spirito d’inferno, e il demonio può rivestir la forma di un oggetto che ne è sacro. Chi sa? Ei forse abusa della mia debolezza, della mia malinconia, per condurmi al delitto col potere che esercita sulle immaginazioni della mia tempera. Abbisogno di prove più sicure, e un dramma è il laccio a cui prenderò la coscienza del re. (esce)
Note
- ↑ Il Poeta fa qui allusione al barbaro gusto de’ suoi tempi che preferiva i drammi rappresentati dai fanciulli della cappella del re a quelli che il maraviglioso suo ingegno venìa creando.