Alla scoperta dei letterati/Edoardo Scarfoglio
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Napoli, decembre del ’94.
Dopo la svolta del Punto Franco mi apparve lo yacht «Fantasia» snello, dritto, candido, cogli alberi, nella rada, nudi di vele; e più giù dei fianchi candidi una fascia di rame scintillante or si or no velato dall’onda. Essa era l’ultima nave ancorata nel porto, e dopo, oltre il bacino di raddobbo, il golfo azzurro si apriva limitato dal curvo lido vivo di case bianche, da San Giovanni a Torre del Greco.
Scendemmo sotto coperta nella sala centrale; dai vetri dell’osterigio pioveva la luce quieta su la mobilia elegante; su le pareti specchi, quadri, fotografie di Galla e di Abissini e di paesaggi africani, ritratti di donne belle; su la tavola, su la stufa, su tutti i margini dei mobili rose e narcisi; su le scansie scritti di africanisti in tutte le lingue, giornali di yachting, strani libri antichi e moderni da un trattato di astrologia a un perfetto andante inglese o tedesco. Mi sedetti sul divano profondo, di contro a lui; su le tazze di tè calde fumanti il colloquio incominciò, e in alto il lume oscillava ritmicamente contro il rettangolo di azzurro che a me appariva dall’osterigio.
— Hai detto letteratura italiana? Cominciamo dall’aggettivo. Chi è che scrive in italiano, adesso? Nessuno o quasi. Perchè questo è lo strano fenomeno che appare nelle così dette belle lettere. Un qualunque ragazzo che non sapesse disegno e tanto meno vedesse o intendesse i rapporti dei colori e il modo di mescolarli e di spalmarli col pennello o col coltello su la tela, se cominciasse a imbrattare questa tela, sarebbe chiamato pittore? Invece questo avviene nelle lettere, e ne deriva che io non posso leggere, non so leggere più i libri che si stampano nel paese di Italia e in lingua.... non italiana. La lettura, così, mi ripugna, ne soffro fisicamente. Tu già pensi a una eccezione: Gabriele d’Annunzio. Sì, ma egli è un poeta più che un narratore, e in un suo libro si cercano le pagine liriche a preferenza delle altre.
— Quali cause dài a questa decadenza della lingua letteraria?
— Molte, ma due sono principali. La prima è la utopia della così detta lingua parlata che venne su col Manzoni; si abbandonò per essa la tradizione di latinità che attraverso a diciotto secoli di lavoro aveva formato la lingua nostra e la sintassi nostra. E questo abbandono fu immediato, chè i classici del nostro secolo, sia il Foscolo che il Leopardi vivevano di essa, per non parlare dei minori pedanti, e il Giordani e il Perticari e il Monti. Si cercò di rendere letterarii i dialetti, quasi che la divisione tra lingua letteraria e lingua parlata non fosse nella natura stessa del nostro linguaggio, come è nella natura di quello francese, quasi che essa fosse un artificio inventato da noi e non un fatto già segnato da Dante che distingueva nel De vulgari eloquio tre generi di favella nostra. Che confusione è dunque questa? Noi adesso siamo nelle condizioni precise di Dante; egli primo dai dialetti creò la lingua, noi minori dovremmo restaurarla. Torniamo a quel che dicevo da principio. Questi audaci, non che studiare pazientemente ogni virtù intrinseca ed estrinseca dell’opera classica, non la leggono nemmeno. Io so di un romanziere assai noto in Italia che fino a due anni fa non aveva letto la Vita Nuova! La seconda causa è la lettura e la imitazione della buona e cattiva letteratura francese, un abuso che ha generato anche nei più sani una vera malacia.
— Non credi che una causa del corrompimento della lingua sia il giornalismo quotidiano che obbliga lo scrittore a scrivere presto e a scrivere in modo facilmente intelligibile a tutti? — Nego. Il giornalismo, specialmente da noi, non avrebbe potuto far tutto questo danno perchè vive da troppo poco tempo, poco più d’una dozzina d’anni. I giornali sono scritti malamente perchè i giornalisti, al solito dandosi (come i letterati) leggermente e impreparati alla professione dello scrittore, non sanno scrivere diversamente; è falso che per ragioni di tempo e di pubblico non debbano scrivere diversamente. Scrivendo l’italiano vero e puro, adoperando le parole proprie e acconce si ha un effetto massimo: la chiarezza. Ora che qualità può nel giornalista esser maggiore di quella? Ma a questa si lega un’altra questione più larga e altrettanto ingannosa: la così detta democratizzazione dell’arte. E che roba è questa? Roba da socialisti. Il popolo non dà l’arte e raramente la intende. Credi che leggerà i giornali tanto più quanto più essi saranno scorretti? E questa è la democratizzazione dell’arte? Ma fatalmente sopra tutto un popolo uniforme o diverso saranno dieci o dodici ottimi che dell’essudato di tutto quel popolo basso si serviranno a concimare il loro cervello potente e fecondo. Senza di essi il popolo non produce nulla spontaneamente. Guarda, guarda tutto folk-lore! Una decina d’anni fa ogni letteratucolo che per otto giorni lasciava di pestare gli olii di ricino destinati al conforto del pubblico e se ne andava in campagna, cominciava a chiamare la serva, l’ortolano, lo stallino e a farli cantare stornelli e a farli contar favole, e scriveva e scriveva e scriveva e mandava tutte le sue scritture a un professore De Gubernatis. Il fatto è che, dopo molti anni di lavoro così divertente e utile, confrontando tutti gli stornelli e tutti i racconti popolari e anonimi, si è visto che erano sempre gli stessi dieci o venti tipi riprodotti dai vari dialetti, e che anche di quei tipi pochissimi erano indigeni e i più venivano d’oriente. È inutile! L’arte è fatta dai pochi e non per i molti. Ma per me, ti assicuro, fare della letteratura in un paese che per anni ha detto e applaudito poeta un Cavallotti, e che è tanto lontano dalla tradizione nobile di tanti secoli, sarebbe come scrivere un romanzo psicologico in lingua amarica per un pubblico abissino.
— Ma è certo che la lirica odierna conserva in Italia una forma più nobile della prosa.
— Hai ragione, ma la lirica mi sembra non sia pel tempo nostro specialmente la lirica erotica. Il poeta lirico deve avanti a una passione d’amore o di odio sentirsi avvolgere dalla stupefazione per lo più dolorosa che emana da un mistero; egli deve, avanti alle passioni determinanti l’inspirazione poetica, tremare come davanti a un abisso. Ora la psicologia vera e falsa è venuta, ha rotto il giocattolo, ci ha guardato dentro, ha detto che è fatto così e così, che dice ba-ba e ma-ma per questa e questa molla, che chiude gli occhi in beatitudine per questo e questo meccanismo: e il poeta lirico è scomparso. Da quanto tempo non vediamo noi le liriche erotiche (tutte, sieno di Musset che di Gabriele) essere soltanto una lettera alla donna amata, o, quel che è peggio, al pubblico? Resta l’elemento musicale, e questo può benissimo venir a soccorrere e sollevare e annobilire la prosa, con altrettanta commozione del lettore e altrettanta fatica dell’artista. Prova a leggere certi passaggi della prosa del d’Annunzio, e vedrai.
— E del teatro che dici?
— Il teatro tragico è morto, in gran parte per le cause di morte della lirica. Il teatro comico per me non ha più ragione di esistere. Anche nei sommi, in Plauto, in Molière, in Goldoni era un romanzo embrionale, una rappresentazione della vita fatta con mezzi primitivi. Ora è venuto il romanzo che è forma superiore e più ricca.
— Perché tu che pensi così nobilmente e vedi quanto la letteratura nostra abbisogni di forze come la tua, l’hai abbandonata pel giornalismo? — Io non l’ho abbandonata, e solo nei rari momenti, in che posso scrivere di cose degne a mio agio, io sono contento. Del resto, la letteratura mi ha spinto alla politica. Qualche anno fa dissi che Cavallotti faceva degli errori di grammatica e dei versi sbagliati, e lo provai. Cento circoli garibaldini, democratici, repubblicani insorsero con cento ordini del giorno, cento lettere, cento minacce a dire che io offendevo il patriottismo, conculcavo la miglior parte della nostra vita politica. E volli vedere che cosa fosse la politica e anche il patriottismo, ora così malamente confuso con essa. E.... l’ho visto.
— E adesso non pensi di radunare in un volume la narrazione e la descrizione del tuo ultimo viaggio nell’Harar?
— Sì. Al Convito dell’amico Adolfo de Bosis darò di quando in quando qualche capitolo dell’Itinerario per l’Etiopia. In esso io narro quel mio viaggio a una donna che vuole venire con me nuovamente là giù; è la notte in che il mio yacht deve salpare e veleggiare al favor dei venti verso Porto-Said; io narro all’amica mia il mio primo viaggio, perchè ella sappia le fatiche e i travagli futuri, e il racconto dura fino all’alba...
I ritratti delle donne belle nella calma luce piovente dall’osterigio davano parvenza di cosa viva.