Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/IX. La poetica del Manzoni

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IX. La poetica del Manzoni

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Lezione IX

[LA POETICA DI MANZONI]

Lasciammo Manzoni che avea finito l’Adelchi. Sorsero le solite dispute, poi per qualche tempo non si parlò più di lui; passarono quattro o cinque anni di grande attività letteraria e scientifica in Italia. Comparivano già Niccolini, Guerrazzi ed altri: parve che Manzoni avesse terminato la sua missione. E Goethe domandò a Cousin: — Che cosa fa Manzoni? — Sta studiando una storia lombarda del secolo XVII, e sento che prepara un lavoro su di essa — .

Mentre Manzoni sta seppellito in questi suoi studi storici, con in capo l’idea di farne un romanzo, e con certe regole sue, una sua poetica, — arrestiamoci e domandiamo con quali preconcetti, con quale poetica egli studii, perché quando si metterà al lavoro, sarà evidente l’influenza di quelli e di questa sul modo come concepirà i Promessi Sposi. È per meglio apprezzare il romanzo che importa riassumere quella poetica, quantunque non nuova.

Manzoni non crede che tutta l’«esistenza» sia poetica; crede invece che vi sia un mondo proprio della poesia, separato da tutto il resto, un mondo morale e religioso che egli più tardi chiamerà «ideale».

Per farvi comprendere bene questo che è l’origine de’ pregi e de’ difetti della sua concezione, rammenterò un’espressione usata nel linguaggio volgare. Noi diciamo di un uomo: — Il tale ha molta poesia — ; cioè è un uomo che non guarda troppo [p. 218 modifica]agl’interessi mondani, li sacrifica ad un’idea superiore, a mo’ d’esempio alla giustizia, alla generosità; che ha il sentimento del bello e si sente ributtare all’aspetto del brutto e del male, serbando sempre l’aspirazione verso un mondo superiore. Nel linguaggio comune diciamo anche: — Il tale ha un carattere poetico — , parlando d’un uomo che vive fuori della vita prosaica, reale.

Queste espressioni volgari che rappresentano le credenze dell’umanità in certe epoche, fanno intendere il mondo poetico di Manzoni. Quando egli scrisse il romanzo, erano in voga alcune parole, come: il Vero, il Bello, il Buono; tre parole magiche che spiegavano tutto. E sapete che Cousin compose un libro in proposito, e ne scrisse a lungo Gioberti. Manzoni viveva in quell’ambiente e del pari immagina vi sia un mondo della verità e della bontà che, in quanto si manifesta, diviene arte — il bello. Tutto ciò che è fuori di quelle idee morali e religiose non è arte, è il mondo positivo, l’esistenza reale.

Sentite bene che queste idee non sono originali di Manzoni: sono nell’ambiente che lo circonda, nella corrente del secolo XIX. Esse sono sviluppate in alcuni suoi scritti: per esempio in quella famosa lettera Sull’unità di tempo e di luogo, ne’ discorsi sui Longobardi e sul Carmagnola, ne’ giudizi di Goethe e di Fauriel intorno alle sue poesie. Quando Manzoni cessò di essere artista e diventò critico come Tasso, diè fuori un lavoro sul romanzo storico e vi aggiunse un dialogo sull’invenzione. Non ignorate il suo famoso libro della Morale Cattolica, in cui sviluppò il suo mondo morale e religioso. Tutti questi sono i documenti da cui trarremo la sua poetica.

Questa si avvicina più alla forma inglese e tedesca che alla francese e italiana, è anzi una reazione contro la forma italiana rappresentata da Alfieri, Foscolo, Monti. Dovreste attendervi nello stile e nella lingua qualche cosa di tedesco o inglese, o se non altro un’imitazione del linguaggio di Schlegel, di cui egli era tanto appassionato. Non è così. Come critico, egli è severamente italiano: ci si vede bensì l’uomo che è stato lungo tempo a Parigi ed ha familiari La Harpe, Marmontel, Voltaire, [p. 219 modifica]Diderot, D’Alembert. Educato con Gravina, Aristotile, Orazio, possiede anche un certo spirito, ironia, brio, tolti dai Francesi. Con quella forma italiana modificata dalla influenza francese, espone teorie che si accostano a quelle dei Tedeschi e degli Inglesi. Ciò annunzia uno spirito originale, un uomo che prende quelle idee, ma se le assimila, le modifica, le fa sue, le trasforma secondo il proprio criterio.

In che sta l’originalità della concezione di Manzoni? Anzitutto il suo mondo morale e religioso non è quello di Goethe o di Schiller o di Shakespeare; è prodotto dal suo spirito, modificato dalla sua immaginazione. Egli sostiene che il vero, il buono, e la loro manifestazione, il bello, non sono prodotti né dall’immaginazione né dalla coscienza individuale, perché allora sarebbero qualche cosa di variabile: han sussistenza in qualche cosa di concreto e positivo, hanno una base obbiettiva. E qual è questo concreto? La religione gli dà la sua sanzione: è la storia dell’uomo rappresentato nella sua caduta, nella redenzione, nell’opera dello Spirito Santo, della Chiesa che continua l’atto della redenzione, nella risurrezione dell’anima, nell’altro mondo cui è destinata la vita terrena. Questo insieme, ch’è la sostanza degli Inni, come vedemmo, è ciò ch’egli chiama mondo dell’arte divenuto positivo, reale. Non dirò ora come l’abbia realizzato, avendo già esaminato gl’Inni, e volendo oggi guardare il critico, non l’artista.

Questo mondo morale e religioso realizzato nella storia divina, come arte che vi dà? Quale è il fondamento artistico di esso?

L’ideale poetico, o come dicevasi un tempo, eroico, è l’apoteosi della personalità: l’eroe è un carattere straordinariamente grande. Posto quel mondo, l’eroico, l’ideale è invece nell’abbassamento della personalità, nel riconoscere che quanto di grande è in noi, è merito del creatore; nell’essere umile. L’umiltà che nel mondo pagano, nel mondo ordinario dell’arte sarebbe un concetto idillico, qui è concetto eroico.

In questo abbassamento della personalità vedete il carattere del mondo morale e religioso di Manzoni. Il disprezzo delle [p. 220 modifica]passioni terrene, la castità, la povertà, la rassegnazione e la preghiera nelle sventure, il fare offerta a Dio dei nostri dolori, il perdono non solo, ma anche l’amore per gli offensori e i nemici, lo spirito di sacrifizio, l’immolar tutto ciò che è terra per acquistare tutto ciò che è cielo, il disprezzo della vita per il trionfo della giustizia, per conseguire l’eterna salute: tutto ciò diviene per Manzoni il mondo poetico. Ritenete questi particolari che vi faranno comprendere i Promessi Sposi.

Questo «eroico» è uno stato straordinario perché innaturale: per forzare l’uomo a negare la propria natura si richiede grande esaltazione di sentimento. Il carattere proprio di questo mondo manzoniano è l’esaltazione lirica, ciò che gli antichi cristiani chiamavano «estasi» e i moderni dicono «intimità», — cioè lo stare nel corpo eppure vivere fuori di esso, il sentire in sé l’anticipazione del mondo futuro, il contemplare non quello che è intorno a noi, ma quello che noi desideriamo. Così si ha da una parte l’«eroico», dall’altra il «lirico», in questo mondo poetico.

Finché Manzoni ha innanzi la storia divina, finché il suo eroe è Gesù Cristo, la sua eroina Maria, la cosa va. È una storia divina, in cui è rappresentato quel mondo divino. Ma il grande problema di Manzoni è realizzare quell’ideale nella storia umana.

Quando vuol rendere dramma o romanzo il suo mondo epico-lirico, gli si presenta un altro mondo diverso, il «vero storico», come egli lo chiama. Che farà Manzoni per realizzarlo artisticamente? Entreremo nel positivo e vi mescoleremo l’ideale? Questo per lui sarebbe un violare e profanare il positivo, e rimprovera appunto ad Alfieri l’aver gettato principii politici, filosofici, sociali nella storia, il non aver rispettato il reale, essersene servito come semplice materiale in cui ha gettato la sua fantasia.

Grande difficoltà nasce qui nella poetica di Manzoni. Egli ha grande rispetto pel positivo, ed ha nell’anima il mondo ideale, morale e religioso. Come mai questo ideale potrà essere realizzato? Come può farsi senza adulterare la verità positiva?

Manzoni comincia dal determinare che il mondo positivo [p. 221 modifica]caccia da sé l’ideale, non appartiene all’arte, ma alla storia. Quando l’uomo contempla l’ideale, è artista; quando contempla il reale, è storico: il suo fine è di cercare la storia, e alterare la verità positiva sarebbe un profanarla.

Ora che Manzoni ha determinato a questo modo il vero positivo, comprendete che non c’è più un legame di passaggio che renda possibile la compenetrazione di quei due mondi, nella quale è posta la vita.

La storia ha percorso un ciclo come l’arte; è stata Cronaca, Storia, Critica storica. Filosofia storica, Filosofia della Storia. Il mondo positivo ha avuto un suo corso, e si è avuta la Cronaca, la semplice scorza dei fatti; la Storia, il fatto spiritualizzato, cioè guardato nei suoi motivi interni, ne’ caratteri de’ personaggi e simili; la Critica storica, indagine sulla verità de’ fatti; la Filosofia storica, cioè le cause da immediate divenute collettive, sociali, i fatti spiegati colle abitudini, le leggi, i costumi di un popolo; infine la Filosofia della Storia, le leggi generali che governano gli avvenimenti, il cammino dell’umanità!

Fin qui non c’è arte. E se Manzoni facesse una tragedia in cui potesse farci conoscere quali motivi spiegano, poniamo, il carattere del Conte di Carmagnola, quali leggi presiedevano allora allo sviluppo dell’umanità, darebbe una storia, non un lavoro di arte.

Come l’arte può rappresentare il positivo? Manzoni ha tagliato i due mondi in guisa che pare impossibile possa avere influenza l’uno sull’altro. Pure, egli dice, l’arte entra nella storia. Nelle storie di Botta o di Colletta, l’arte è come qualche cosa di appiccaticcio, che falsifica i fatti, e perciò c’è la rettorica. Botta, per esempio, mette in bocca ai personaggi certi discorsi da lui immaginati. Che è questo? È falsificare la storia. Lo storico deve mettere in bocca ai personaggi solo quelle parole che i documenti dimostrano aver essi pronunziate, attribuir loro precisamente quelle idee che sono registrate nelle cronache, non attribuire ai personaggi azioni che non sono del pari registrate nelle cronache. Or ciò, dice Manzoni, è il positivo, ma non tutto il positivo, e perciò certi storici sono stati obbligati a [p. 222 modifica]far la rettorica, hanno aggiunto qualche cosa ai personaggi.

Questa lacuna, secondo lui, la riempie l’arte. Questa che, introdotta nella storia, la falsifica, è istrumento potente quando coi mezzi suoi giunge ad illuminarla. Il campo dell’arte è il possibile e il probabile, il campo della storia è l’avvenuto. Ma il poeta può, mercé l’immaginazione, procedendo per via d’induzione, dare ai personaggi parole, pensieri, sentimenti, se non reali, probabili, che risultino da tutto il complesso dei fatti. Il poeta così può colmare i vuoti della storia, darvela reintegrata.

Questa teoria è tutta nuova, originale; ma evidentemente storta. E ne segue che quando Manzoni concepisce la tragedia o il romanzo, il suo problema non è di servirsi della storia come materiale in aiuto dell’arte; ma dell’arte per dare il positivo completo, senza lacune.

Per esempio, pigliamo il Conte di Carmagnola. Il fine di Manzoni è la riabilitazione di Carmagnola, la quale non risulta dalle cronache: egli, nel suo discorso storico, dice che le opinioni sono divise. Pure, il complesso de’ fatti gli fa sentire che Carmagnola è innocente: egli fa serrare la tragedia allo scopo di riabilitarlo. Quando fa l’Adelchi e rappresenta la guerra tra i Longobardi e i Franchi, qual è il suo scopo? Le cronache, egli dice, non fanno sapere nulla di ciò che era allora il popolo latino; ma l’artista, lavorando sul probabile e sul possibile, dal complesso de’ fatti argomenta che c’era un popolo latino, il quale conservava la sua autonomia; e fa una tragedia in cui, accoppiando il probabile col positivo, rettifica un concetto storico, illustra una epoca della storia. Gira, gira, l’arte qui fa da mezzana alla storia: non è più l’arte co’ suoi fini propri ma adoperata come strumento di quella, per illustrare e compiere il «vero positivo».

L’autore vuol provare che infatti l’arte non è stata altro che questo nelle sue origini. Vico fu il primo a dimostrare che, per esempio, l’'Iliade è una vera storia.

Manzoni nel Discorso sul romanzo storico piglia Omero, Eschilo, Pindaro nell’antichità, i poemi cavallereschi nella storia moderna, e prova, ciò che non può mettersi in dubbio, che il fondo di queste poesie è storico. E come? In Omero è [p. 223 modifica]rappresentato un cumulo di fatti che in quei tempi, per i Greci, erano storia. Eschilo piglia certi fatti che a noi paion favole, e allora, per tradizione, fatti certi. Pindaro fa una lirica storica: la sua poesia è familiare e quella d’Omero nazionale, ma hanno un carattere fondamentale identico. I poemi cavallereschi, anche quello di Ariosto, nonostante la sua ironia, parlano della cronaca di Turpino e vogliono dare a credere che tutto ciò che dicono è storico. Dunque, dice Manzoni, la poesia in origine è storia; si guasta quando a quel sentimento ingenuo, che ci fa desiderare il vero positivo, nella poesia si sostituisce un sentimento fittizio, puramente letterario, pel quale non si cerca che un lavoro bello letterariamente. Esempio Virgilio, il cui concetto non è più così puro come quello di Omero; esempio il Seicento, in cui l’Arcadia e le accademie danno lavori di pura immaginazione, avendo perduto il senso del reale. Che lavori sono quelli del secolo XVIII? Perché i filosofi e i pensatori di quel tempo, che hanno ricostrutto un mondo sociale e politico, non han potuto lasciare la rettorica, la mitologia, il falso che loro venivano per tradizione dal Cinquecento e dal Seicento? — Perché non han rispettato la storia, dice Manzoni, l’hanno maltrattata, se ne sono serviti come di mezzo al lavoro, lontano dal reale — . Ecco le ragioni di Manzoni per dimostrare che la base dell’arte dev’essere il rispetto del mondo positivo.

Che c’è di vero e di falso in questa esposizione? poiché non c’è sistema di un potente ingegno così falso da non trovarvisi una verità che abbia esercitato benefica influenza. V’ho mostrato la separazione tra quei due mondi. Quale sarà il ponte di passaggio tra l’uno e l’altro?

Nel mondo che Manzoni chiama il positivo nella sua realtà storica, l’ideale non entra. Se egli fosse conseguente a se stesso, dovrebbe, come Bossuet, dire che il positivo non è se non un mondo provvidenziale, e vi entrerebbe così l’ideale. Ma egli lo prende come lo dà la storia, e dice: — L’ideale non è la condizione di questo mondo — . L’ideale di Manzoni scaturisce in tre modi. Dapprima, nasce una contraddizione flagrante tra il mondo com’è realmente e il mondo del poeta: in lui è la [p. 224 modifica]giustizia, la virtù, la moralità, la bontà, il bello; fuori di lui è l’insipido, il vizio, la depravazione. La contraddizione giunge a un punto in cui l’anima del poeta erompe al di fuori. Questo è l’ideale negativo, perché sorge come negazione del mondo esteriore. Allora son venuti i Cori, uno allo spettacolo d’italiani pugnanti contro Italiani, l’altro allo spettacolo dei Latini che sperano essere liberati dai Franchi, di


un vulgo disperso che nome non ha.

Qui la negazione tra il positivo e il mondo morale del poeta sorge sotto forma lirica.

Oppure Manzoni mette l’ideale in qualche personaggio isolato che cerchi farlo valere nel mondo positivo. Se questo individuo, come il Marchese di Posa di Schiller, avendo un ideale dentro di sé, cercasse farlo valere anche a costo della morte, allora avremmo una grande creazione poetica. Ma per Manzoni l’arte deve servire solo ad illustrare la storia, non vuole un carattere che attirando tutta la nostra attenzione scemasse l’interesse storico. Allora, abbiamo personaggi fiacchi e deboli come Marco e Adelchi, che non hanno mai avuto influenza sui fatti storici, anzi l’hanno ricevuta da essi, e che muoiono vittime oziose, travolte dagli avvenimenti come canna dal vento.

C’è però nel mondo positivo un momento che è nella realtà l’ideale dell’anima: è il momento della morte, lo sparire del terreno. Il poeta che durante la vita drammatica non trova modo di situare il suo ideale, nella morte lo fa trasparire. Carmagnola vive pagano, muore cristiano; Adelchi che non osa rivelare se non ad un amico il suo animo, morendo parla innanzi a Carlo come un profeta e un apostolo. Così Manzoni ha potuto introdurre nel dramma Ermengarda.

Dunque l’ideale di Manzoni ha tre momenti: avete un ideale negativo, un ideale impotente e il momento della morte. Che avviene? Fate tutto il possibile per potere realizzare quell’ideale; ma siccome per ciò si deve penetrare nella storia e questa dev’essere mantenuta nella sua integrità, ne viene che [p. 225 modifica]la storia è da una parte, l’ideale dall’altra, senza compenetrarsi: stanno come due linee parallele senza mai incontrarsi, e dove non c’è fusione non c’è vita.

Or che c’è di vero in questa concezione esagerata? Qual è l’errore?

C’è di vero il bisogno del positivo e del reale.

Quando l’immaginazione a forza di abusare di se stessa ha finito col consumarsi (perché nel corso del mondo c’è un tempo in cui la mente lavora sola, fuori del positivo, e allora nascono i sistemi teologici e filosofici e la grande poesia; e poi lo spirito finisce col logorare se stesso), si sente il bisogno di altra sfera, di cibarsi di un nutrimento più sano. Il secolo XIX cominciò con questo sentimento. La Rivoluzione s’era presentata cosí astratta, così lontana dall’esperienza, i poeti e pensatori rappresentarono così astrattamente il loro mondo morale e politico (e sapete che esso degenerò anche in rettorica), che sorse il bisogno di afferrarsi al positivo. E Manzoni ubbidiva, senza saperlo, alla stessa tendenza di Goethe, degli Schlegel, di Troya, di Thierry ed altri.

C’è ancora un altro utile che Manzoni produce colla sua poesia. L’arte deve avere anch’essa la sua educazione: non perché uno ha ingegno poetico e legge Virgilio, Omero, Dante, può prendere la penna e far poesie. Ci vuole, direi quasi, una ginnastica anche per formare ed educare l’ingegno poetico. Al tempo di Manzoni i poeti lavoravano unicamente con la immaginazione, studiando su altre poesie, altri modelli. Monti, Alfieri, Foscolo, Parini, lavoravano su d’un repertorio pescato nelle poesie greche, latine, italiane; l’ingegno educavasi unicamente con lo studio di Virgilio, Omero, Dante e altri poeti. Che cosa fa Manzoni quando richiama allo studio del positivo? Indica una nuova ginnastica, più efficace: — Invece di studiare la natura in Virgilio, egli dice, studiamola in se stessa; invece di studiare l’uomo in Omero e Dante, guardiamolo non quale l’hanno immaginato i poeti, ma qual è stato ed è nella realtà — . Quel non ritrovare la sua immaginazione che uscendo, per dir così, dagli abissi degli studi storici; quel non metter mano a descrizioni [p. 226 modifica]senza andare sul luogo (a quel tempo Chateaubriand, Lamartine andarono in Oriente a cercare ispirazioni, e Manzoni va a Lecco, a Bergamo, ai luoghi che vuol ritrarre); quel sostituire l’uomo, la natura, la storia al lavoro dell’immaginazione, allo studio su’ modelli quello della storia, di prima mano — era un progresso che Manzoni faceva fare alla forma artistica. Aggiungete un’altra influenza benefica che nasce dallo studio della storia, nell’arte. Chi non ha conoscenza del mondo, come avviene ai giovani, manca d’una qualità principale per ben condursi nella vita: la «misura», il «limite»; cioè quel trovare nell’illimitato della fantasia il limite che dà il mondo, la storia. In Alfieri, Foscolo, Monti, l’origine del rettorico è il poco sentimento della misura. Lo Jacopo Ortis è certo un bel lavoro; ma perché dopo una volta non si legge? Perché dopo gli applausi va a raggiungere gli scaffali ove dormono le mediocrità? Perché tutt’i sentimenti vi sono oltrepassati. La conoscenza del mondo, della storia, può, con una viva coscienza del mondo ideale, farne trovare il «limite».

Vedrete i frutti benefici di questa teoria di Manzoni sugli artisti del secolo XIX, che hanno il sentimento del «limite» più sviluppato che quelli del XVIII. Ciò è di vero nella esagerazione della poetica manzoniana.

Che v’è di falso? L’esagerazione appunto. Egli è come ogni uomo che, avendo per la prima volta trovato un nuovo indirizzo, lo esagera. Ha confuso la parola «positivo» con la parola «reale», ha detto: — Il poetico è l’inventato, il positivo è l’esistenza — . Questa idea falsa ha falsato la sua poetica obbligandolo a sforzi colossali, senza che sia riuscito nell’intento.

Artisticamente il «reale» è superiore all’«ideale» e al «positivo». Una cosa può essere avvenuta e non esser «reale» in senso artistico, come il volgare, il difforme, l’insignificante: tutto ciò ha realtà, ma è senza significato rispetto all’arte. Invece, una cosa può non essere avvenuta, eppure essere potentemente reale se lo spirito ha avuto la forza di fame un individuo: spesso l’individuo prodotto dall’immaginazione è più possente dell’individuo che ci vien dato dalla realtà storica.

Manzoni con quella sua concezione s’ha creato una difficoltà [p. 227 modifica]che non esiste, e non trova ancora il mezzo di compenetrare il mondo dell’immaginazione e quello della storia. Qual è il risultato ottenuto da lui? Cercava nella tragedia di servirsi dell’arte per illustrare la storia. C’è riuscito? Il Carmagnola ha per voi interesse storico? Vi pare che l’autore vi abbia sciolto un problema storico? Se egli fosse stato pedante, se fosse stato un Rosini, se avesse fatto della prosa in versi, sarebbe riuscito; ma egli è artista e non raggiunge quel fine.

Quegl’ideali che non han potuto penetrare nel mondo storico, per non adulterare la veritá positiva, sono rimasti vivi; voi v’interessate dei Cori, di Adelchi che muore, di Carmagnola che muore, de’ movimenti lirici che trovate qua e là nelle due tragedie, il resto non v’interessa. Così Manzoni voleva un fine e ne raggiunse un altro.

Egli fa il Carmagnola, poi l’Adelchi e riesce a quel modo che avete veduto. Si dee convincere che c’è qualcosa di falso nella sua poetica. Allora pensa fare un romanzo: comincia, secondo il solito, studiando i cronisti del Seicento; poi, quando viene il momento della costruzione, credete che abbia cambiato poetica? No. Il genio ha la sua idea fissa, la sua ostinazione; e quella di Manzoni è di rappresentare il mondo positivo.

Perché studia il Seicento? Per servirsi dell’arte allo scopo d’illustrare una storia di quel tempo. Il suo problema (non son io che lo dico, ma lui nel Discorso sul romanzo storico) è cercare un’azione poetica per rappresentare lo spirito di un’epoca.

Egli compone i Promessi Sposi perché gli Italiani avessero una conoscenza più compiuta di quel tempo; e il fatto che ci mette dev’essere mezzo a meglio farlo comprendere. Vengono fuori i Promessi Sposi. Che avviene? Quello che dovea essere mezzo, l’azione inventata, diviene il tutto; quello che dovea essere il principale diviene un materiale greggio e bruto in cui egli cela il suo ideale. Come Colombo che cercava le Indie occidentali e trovò l’America, egli cercava l’illustrazione storica e trova l’arte.

Ciò noi rallegrò: lo stizzì anzi il vedere che i lettori accettavano il suo romanzo diversamente da come egli l’avea concepito. [p. 228 modifica]Questo nuovo Tasso, quando la virtù poetica s’indebolì, quando il critico vinse l’artista, ripensando al suo concetto, ai suoi fini, ai modi e al risultato, chiamò tutto a nuovo esame e pubblicò il Discorso sul romanzo storico, dove volle dimostrare che l’approvazione avuta fu effetto della moda, che i Promessi Sposi sono destinati a sparire come i romanzi di Scudéry, e così disse dei romanzi di Walter Scott. — Come critico, egli dice, riprovo il mio romanzo — .

Ammesso come vangelo che il positivo sia fine a se stesso e l’arte semplice mezzo per compiere la storia, lo scopo del romanzo non è raggiunto, perché in se stesso assurdo.

Difatti, Manzoni dice: — Avete due mondi: uno poetico, l’altro positivo. Lo storico studia per conoscere ciò che è avvenuto, il poeta per trovare l’ideale. Distinguete bene l’inventato e l’avvenuto, e avete due impressioni che si combattono. Se le fondete insieme, una sempre deve prevalere sull’altra, e non avete più romanzo storico, ma o romanzo o storia. Unire la storia col romanzo o con la tragedia, è un problema insolubile come quello della quadratura del circolo; e se il romanzo è approvato, ciò è per cagioni accidentali: in se stesso è assurdo — .

Se la storia per Manzoni è veramente il principio dell’interesse, se la parte artistica è uno strumento per illustrare la storia, egli ha ragione. Ma se al contrario quello che chiama storia è un semplice materiale greggio, senza importanza — come quelle istituzioni del secolo XVII, la sollevazione di Milano, la guerra, la peste — , se tutto questo materiale non ha significato per noi, se quell’azione che si avvolge intorno a Renzo e Lucia è tanto produttiva, tanto viva che non ci fa badare alla parte storica, Manzoni ha torto. È questo uno de’ rari casi in cui uno possa aver piacere di avere avuto torto; e noi rendiamo omaggio a Manzoni artista, quando, a Manzoni critico, diamo torto.

        [Nel Pungolo, 13-15 aprile 1872].