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Lezione IX

[LA POETICA DI MANZONI]

Lasciammo Manzoni che avea finito l’Adelchi. Sorsero le solite dispute, poi per qualche tempo non si parlò più di lui; passarono quattro o cinque anni di grande attività letteraria e scientifica in Italia. Comparivano già Niccolini, Guerrazzi ed altri: parve che Manzoni avesse terminato la sua missione. E Goethe domandò a Cousin: — Che cosa fa Manzoni? — Sta studiando una storia lombarda del secolo XVII, e sento che prepara un lavoro su di essa — .

Mentre Manzoni sta seppellito in questi suoi studi storici, con in capo l’idea di farne un romanzo, e con certe regole sue, una sua poetica, — arrestiamoci e domandiamo con quali preconcetti, con quale poetica egli studii, perché quando si metterà al lavoro, sarà evidente l’influenza di quelli e di questa sul modo come concepirà i Promessi Sposi. È per meglio apprezzare il romanzo che importa riassumere quella poetica, quantunque non nuova.

Manzoni non crede che tutta l’«esistenza» sia poetica; crede invece che vi sia un mondo proprio della poesia, separato da tutto il resto, un mondo morale e religioso che egli più tardi chiamerà «ideale».

Per farvi comprendere bene questo che è l’origine de’ pregi e de’ difetti della sua concezione, rammenterò un’espressione usata nel linguaggio volgare. Noi diciamo di un uomo: — Il tale ha molta poesia — ; cioè è un uomo che non guarda troppo