Al fronte/Prefazione
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PREFAZIONE.
Questo libro, che rispecchia gli aspetti della nostra guerra nei primi quattro mesi del suo svolgimento, dagli ultimi giorni di maggio agli ultimi giorni di settembre, è il frutto di vari periodi di residenza al fronte. Ma è stato partecipando al viaggio dei corrispondenti dei giornali nelle zone di operazione, viaggio durato quasi cinque settimane, che l’autore ha potuto raccogliere la materia essenziale del volume.
La pagina con la quale egli concludeva sul Corriere della Sera i resoconti di quella lunga gita e riassumeva il senso delle cose vedute, viene ad essere anche una specie di commento del libro stesso, ne compendia il significato e ne delinea il carattere. Essa ci appare come la prefazione più naturale del lavoro, e la riproduciamo qui. Mettiamo all’inizio quello che fu scritto alla fine. Del resto la prefazione è sempre l’ultima cosa che si scrive di un libro. Essa è un epilogo che si finge programma. Nella loro visita al fronte i rappresentanti della stampa hanno cercato di portare all’anima aspettante della Nazione una conoscenza diretta e sentita, per quanto manchevole e sommaria, della lotta eroica che si snoda per vette e per valli su quasi seicento chilometri, dai ghiacciai del Cevedale e dell’Adamello al Golfo di Trieste.
Tutto quello che giornalisti di ogni regione e di ogni opinione hanno scritto dai campi di battaglia, non può non avere dato al paese argomenti infiniti di fierezza, di orgoglio, di conforto.
Le cronache frettolose e disordinate dei corrispondenti di guerra, sospinti dall’incalzare del tempo, sono risultate come una documentazione vissuta, umana, spesso palpitante e commossa, dell’entusiasmo guerriero e lieto delle truppe e del loro valore indomabile che la sapienza e la volontà del comando conduce.
Abbiamo visto come si combatte sull’eterno gelo delle più alte montagne, come si issano cannoni fino all’inaccessibile, come si creano per tutto nuove strade tagliate spesso nella viva roccia fino ai nevai, come si distruggono fortezze nemiche, come si lanciano ponti sotto al bombardamento, come si assaltano e si conquistano le posizioni più formidabili, come si respingono e si sfanno gli attacchi del nemico, abbiamo ammirato la cooperazione perfetta di tutte le armi, lo spirito di sacrificio di tutti i corpi, la concatenazione serrata delle azioni, la prontezza delle manovre, la vastità e la esattezza dei servizi. Se da tutte queste visioni della guerra, che la stampa ha diffuso, la Nazione ha tratto una conoscenza più profonda della sua forza, la Nazione deve sentirsi più forte deve cioè contemplare l’avvenire con rinnovata e ferma fiducia.
I racconti dei giornalisti al campo hanno finito per costituire una specie di riassunto della guerra. Quello che i corrispondenti vedevano era così legato a quello che era successo, il passato della guerra mostrava tracce così profonde, parlava così forte nel tumulto del presente, che la cronaca diventava un po’ storia, una storia delle operazioni rintracciata sui luoghi, illustrata dai racconti di combattenti stessi, commentata dall’azione in corso, fusa, dalla continuità della lotta agli avvenimenti attuali e vissuti. Ebbene, una cosa è apparsa subito evidente da queste narrazioni: ed è la esattezza dei comunicati ufficiali. Le azioni appurate dalla indagine giornalistica si identificavano una per una alle azioni enunciate nei bollettini. Il lavoro dei corrispondenti ha finito per essere un ampio commentario della parola laconica e calma del notiziario dello stato maggiore.
Questa constatazione può sembrare superflua, se non presuntuosa. Il Paese conosce quali uomini reggono il destino delle sue armi, e in tale conoscenza riposa. Per noi, grazie a Dio, le virtù militari non possono apparire disgiunte da virtù civili; siamo fatti all’antica, e la fede nostra in un condottiero è fede nella sua parola; la lealtà è nell’anima guerriera quello che la dirittura del taglio è nella spada. Sentiamo la verità intera nella calma, laconica, semplice e chiara dicitura dei bollettini. Anche per portare una nuova testimonianza, raccolta dai corrispondenti di tutti i giornali d’Italia, sarebbe quasi insolente insistere sulla fredda e precisa sincerità dei comunicati che portano la firma di Cadorna.
Abbiamo voluto accennarvi solo perchè, tornando dalla fronte, dove tutto è fede e tutto è forza, strane voci si odono sussurrare nell’ombra, lontano da ogni fervore di lotta, lontano dai luoghi dove si vede e dove si crede, da gente che alla Patria non dà che la sua maldicenza. Arrivando di là si sente con indignante violenza la stupidità velenosa della calunnia, spesso incosciente, che cerca di annebbiare splendori dei quali, chi ha vissuto al campo, ha ancora pieni gli occhi e l’anima. Vi sono persone, assai poche per fortuna, che sembrano seriamente preoccupate dall’annunzio che tutto va bene, e provano la necessità di dubitare e di comunicare intorno i loro dubbi. Bisognerebbe affidare costoro alla giustizia dei soldati.
Bisognerebbe portare i colpevoli su quelle stesse posizioni che erano oggetto della malevola diceria, e dire alle truppe: «Mentre voi vi battevate e vincevate, queste persone, per le quali anche versavate il vostro sangue, cercavano di derubarvi della riconoscenza e dell’ammirazione della Patria, cercavano di indebolire la fiducia e l’amore del Paese per voi, tentavano di isolarvi alle spalle, vi insultavano, vi defraudavano del premio più ambito, facevano a voi un male più grande di quello che il nemico possa mai farvi: ora sono nelle vostre mani, giudicatele e punitele!»
Da quello che i corrispondenti al campo hanno visto, saputo e narrato, è possibile trarre qualche conclusione, estrarre come un bilancio sommario delle operazioni nei primi quattro mesi di guerra. Il nostro esercito è stato fra i più attivi nel conflitto delle nazioni, ed ha raggiunto alcuni risultati positivi che le condizioni difficili del terreno e la studiata e intensa preparazione del nemico rendono mirabili.
Di tutte le fronti della guerra europea, la nostra è senza paragone la più aspra. Dei giornalisti francesi e inglesi che conoscevano i campi di battaglia di Francia, di Russia e dei Dardanelli, il corrispondente del Bund di Berna, ufficiale nell’esercito svizzero e perciò competente della guerra di montagna, gli attachés militari degli eserciti alleati, hanno tutti, senza riserve, espresso il loro profondo stupore e la loro ammirazione avanti allo spettacolo inaudito delle difficoltà che il nostro esercito ha superato e supera. Eravamo all’inizio dominati e minacciati da ogni parte dalle posizioni avversarie. La nostra avanzata è stata ovunque un’ascesa, una scalata, un assalto a giogaie, a pendici, a declivi, a vette, e le forme più moderne della guerra, abilmente applicate dal nemico, hanno sovrapposto alle asperità prodigiose della terra barriere formidabili di fortificazioni continue.
La tattica nuova, i mezzi che l’industria attuale fornisce alla guerra, la possibilità di nascondere le fanterie nel cemento e nell’acciaio e di proteggerle con reticolati senza fine, con mine senza numero, con cordoni fulminanti, ha moltiplicato le forze di resistenza delle difese. L’esempio più luminoso delle possibilità di una difesa si è avuto nei primi mesi della guerra europea, quando l’ala destra dell’esercito tedesco, fresca ancora, forte di ventiquattro o venticinque corpi di armata, presa Anversa si gettò sulle facili pianure fiamminghe, coperte da un’immensa rete di strade, cercando un varco verso Calais, e non passò. Aveva contro di se forze inferiori e assai meno armate, ma chiuse in un cordone di trincee. La trincea fermò definitivamente l’offensiva germanica.
Anche noi abbiamo urtato nella lotta di trincea, ma su ben altro terreno, e non ci siamo fermati che dove intendevamo fermarci. Trincee nella neve, trincee nelle rocce, trincee sulle spalle dei monti. trincee sul bordo dei fiumi, trincee sui campi, trincee nei boschi, e abbiamo assalito, conquistato, avanzando sempre. Nella fronte dell’Isonzo, verso Plezzo e sulle pendici del Monte Nero, verso Tolmino e sulle alture di Plava, verso Gorizia e sull’altipiano Carsico, la nostra offensiva ha progredito espugnando opere ad ogni passo, ha progredito lentamente ma sistematicamente, tenace, infaticabile, ardente. Il nostro esercito dà prova di una energìa costante, magnifica, che ha finito per trovare un riconoscimento negli stessi paesi nemici. È già una grande e indistruttibile vittoria.
Sono finite le ingiurie degli avversari contro il soldato italiano; i nostri assalti hanno spazzato anche il disdegno e il disprezzo che il nemico sentiva o mostrava di sentire verso di noi. Si è dissipata quella avvilente atmosfera di sfiducia e di disistima che ci soffocava, che veniva un po’ anche dai paesi amici, dove non ci si immaginava così soldati, e che ci svalutava. All’inizio della guerra la folla in Francia credeva che quattro corpi di armata francesi fossero venuti a combattere in Italia, e approvava. Eravamo il popolo che ha bisogno di aiuto. L’eroismo italiano cominciò ad essere ammesso dai bollettini austriaci come una prova di ebbrezza alcoolica; dovevamo essere ubbriachi per batterci così. Poi i bollettini hanno cambiato tono. Ora ammettono il valore della nostra truppa. I corrispondenti della stampa tedesca con l’esercito austriaco hanno dimenticato i «suonatori di mandolino» e parlano gravemente dell’ardimento dei nostri, discutendo su di noi con il rispetto che si ha per i forti. L’esercito ha dato alla nostra Patria in mezzo alle nazioni in lotta una autorità e una grandezza che non aveva mai avuto in mezzo alle nazioni in pace. L’Italia ha conquistato una posizione morale inespugnabile.
Certo i progressi della nostra offensiva possono sembrare lenti a chi non li considera in loro stessi e guarda sulla carta la distanza tra il fronte attuale e gli obbiettivi finali della guerra. Ma un grande, prezioso obbiettivo la guerra ha già raggiunto: quello di aver chiuso la porta di casa nostra, della quale il nemico teneva disserrati i battenti spingendo un piede sulla soglia. Non soltanto noi combattiamo oltre le vecchie frontiere, non soltanto risparmiamo al suolo nazionale gli orrori e i pesi della lotta, ma siamo arrivati ad insediarci quasi per tutto su posizioni dalle quali possiamo contemplare con tranquillità la prospettiva di una potente offensiva nemica. Non si passa più facilmente. Un terribile incubo è finito.
Il Paese non sa fino a quale punto l’invasione austriaca fosse preparata. Percorrendo la fronte, attraverso le terre conquistate, si ha per tutto lo spettacolo degli apprestamenti austriaci contro di noi, e si prova qualche cosa che somiglia a quelle paure postume che assalgono chi si accorge di essere scampato da un pericolo mortale. Già la vecchia frontiera per sé stessa dava al nemico gli sbocchi d’Italia, formava un saliente ad ogni valle, scendeva quasi alle nostre pianure, minacciava le nostre comunicazioni più vitali. Questi vantaggi naturali non bastavano all’Austria, che voleva agire con la massima rapidità e la massima sicurezza, senza pericoli di controffensive.
Ogni nazione ha il diritto di garantire la difesa dei suoi confini, ma i lavori immensi che l’Austria aveva compiuto e stava compiendo, ai quali nulla o ben poco si contrapponeva, costituiscono i preparativi meticolosi di una aggressione destinata a schiacciarci. Non vi era nemmeno una preoccupazione per la insolente evidenza degli scopi di tanta attività militare, l’aggressione era discussa apertamente in Austria, era patrocinata da Conrad e dall’Arciduca Ereditario, era confessata, e si apprestava secondo un inesorabile programma. La preparazione era per se stessa una intimidazione. Noi non potevamo parlarne in Parlamento e sui giornali senza passare per provocatori. Ci sentivamo già vinti un poco dalla sola minaccia. Sembravamo occupati a rassicurare continuamente il sopraffatore come la pecora rassicurava il lupo. Deprimendo l’esercito, non proporzionando le spese militari, chiudendo le orecchie al grido della italianità assassinata oltre la frontiera, rassegnandoci, acquiescendo, dimostravamo la nostra volontà di pace. E il nemico lavorava.
Erigeva fortezze su fortezze, sbarrava ogni valico, costruiva reti sterminate di strade militari per unire le valli, per raggiungere delle vette dove appostamenti di artiglieria pesanti, già preparati, dominavano tutti i nostri vecchi forti. Ad ogni nodo di viabilità, caserme nuove, ospedali, depositi di munizioni, di viveri, di carri, di slitte, panifici elettrici capaci di nutrire intere divisioni. Si era pensato persino all’acqua sulle strade della montagna, dove ogni due o tre chilometri mormora una fonte per la beverata. Vasti campi trincerati erano pronti. Nelle più selvagge vallate potrebbero ora vivere, spostarsi e agire masse di armati. Persino sulle più alte cime, sulle rocce nude, sulle distese candide dei ghiacciai, capanne, ricoveri, rifugi alpini, alberghi, costruiti apparentemente per un improvviso furore sportivo, si sono rivelati ora per posti di vedetta, basi di avanguardie, caserme, tutto un sistema di edifici eretti in posizioni strategiche, destinati a mantenere in ogni stagione il dominio dell’alta montagna.
La Nazione ignorava la realtà nelle sue vere proporzioni, quella realtà che angosciava, le autorità militari, l’allarme delle quali non trovava che una mediocre e saltuaria attenzione nell’ambiente politico. I piani della difesa si fondavano sull’abbandono di vaste zone. La frontiera era indifendibile nella sua integrità. Era fatalmente ammesso che l’invasione entrasse. Ora la catena delle nostre posizioni ha anche un grande valore di difesa. La guerra ci ha dato una tranquillità nuova.
Le zone più vulnerabili erano la sponda meridionale del Garda e la pianura di Vicenza. Fra l’Idro e il Garda la frontiera si spingeva per la valle Toscolana ad una sola giornata di marcia da una delle nostre massime arterie di comunicazione, la ferrovia Milano-Venezia. La possibilità di un colpo di mano austriaco contro il grande viadotto di Desenzano è stata considerata e discussa durante la pace dallo stato maggiore italiano. Si sono fatte persino delle esperienze; reparti alpini hanno percorso di notte, a marcia forzata, la distanza che separa la frontiera dal viadotto. Un colpo di mano sarebbe forse stato di difficile esecuzione, ma la debolezza delle nostre posizioni contro all’impeto insistente di una offensiva appariva in una terribile evidenza. Adesso una offensiva troverebbe una solida barriera sulla valle del Ledro e sulla valle Daona; lo sbocco della Giudicaria è chiuso.
Arsiero era anche ad un giorno di marcia dalla frontiera, e Arsiero è la soglia della piana vicentina. L’Austria aveva preparato accuratamente il forzamento rapido di tutti i passi, dal Friuli al Trentino, minacciava una irruzione irrefrenabile sullo Judrio, sul Fella, sul Tagliamento, sul Piave, sul Brenta, sull’Adige, ma è sopra tutto per le valli che fiancheggiano l’altipiano dei Sette Comuni che il pericolo dell’invasione austriaca si affacciava più impellente, perchè più vicino alla mèta. La frontiera metteva l’offensiva austriaca in posizioni che, con dei confini meno iniqui, essa non avrebbe potuto raggiungere se non dopo lunghe lotte accanite, fortunate e definitive. Cioè, la frontiera, qui più che altrove, equivaleva per l’Austria ad una guerra già quasi vinta. Parlando della Vallarsa e della Valsugana le corrispondenze dalla fronte hanno descritto che cosa l’Austria aveva saputo accumulare di opere militari lì intorno; erano nuclei di forti moderni, centinaia di chilometri di nuove strade, ampie basi di operazione. La famosa questione sul possesso della Cima Dodici era legata a questo sistema di sfondamento.
La lunga lotta di grosse artiglierie sull’altipiano di Asiago, di cui così spesso parlarono i bollettini ufficiali, la distruzione dei forti di Luserna, di Busa Verle, di Spitz Verle, la presa del monte Pasubio, dominante la Vallarsa e la Val Pòsina, la presa del Civaron, dell’Armentera, del Salubio, in Valsugana, e l’azione attuale sugli altipiani di Lavarone e di Folgaria, sono tutte fasi della nostra opera ardita e incessante di consolidamento, di arginatura, di chiusura. Le posizioni che ci minacciavano sono nelle nostre mani, con le loro strade militari, le loro basi, i loro appostamenti. Siamo noi che battiamo al di là e portiamo la minaccia su Rovereto e verso Trento.
Anche la questione di uno sfondamento delle nostre difese verso Arsiero era di quelle che durante la pace angosciavano lo stato maggiore italiano. Delle manovre parziali erano state più volte eseguite per studiare la possibilità di impadronirsi rapidamente del Pasubio, il cui possesso avrebbe solo potuto consolidare la difesa sopra un importante settore. I resultali delle manovre erano scoraggianti. Quella alta montagna, il cui declivio era italiano e la cui vetta era austriaca, appariva inespugnabile. Ed è stata conquistata, e su di lei è imperniata la nostra fortunata azione iniziale. L’Austria non ha fatto in tempo a difendere efficacemente il Pasubio, come non ha fatto in tempo a difendere l'Altissimo, e il Corada, e il Quarino, e il Medea, e tanti altri monti e passi e selle e varchi, sui quali si è insediata fulmineamente la nostra fronte, solidificandosi. Non è stata sorpresa dalla guerra l’Austria, oh no!, ma è stata sorpresa dalla rapidità del movimento.
Non si aspettava il balzo immediato in avanti, che ha portato subito la guerra sulle sue seconde linee. Ha sbagliato i calcoli del tempo, ha commesso un errore di quindici giorni — errore che poi le inondazioni e le piene immobilizzandoci hanno in parte corretto. L’Austria si basava sui dati da lei conosciuti della nostra organizzazione militare, per concludere che la nostra mobilizzazione e la concentrazione del nostro esercito necessitavano un mese di tempo. Questa almeno era l’opinione più volte espressa dallo stato maggiore austriaco. Sapendo che la mobilizzazione era già in corso col sistema delle chiamate personali, l’Austria credè di essere nel giusto riducendo il tempo della metà. Alla dichiarazione di guerra suppose che le operazioni attive sarebbero cominciate verso il sette di giugno. A dire il vero, il calcolo non era del tutto errato; senonchè noi ci muovemmo audacemente in piena mobilizzazione, concentrando e completando i corpi in azione, organizzando i servizi nella mutabilità di spostamenti impreveduti.
Così fu possibile strappare alla sorte vantaggi immediati che una lotta eroica, ardente, aspra e ostinata è andata poi ampliando e rassodando, in un progresso lento ma costante, contro gli ostacoli più formidabili che siano stati mai superati in una guerra. E per la forza delle armi l’Italia ha liberato le sue soglie invase e puntellato le sue opere minacciate. Si respira.
Ma un esame dei risultati delle operazioni italiane sarebbe incompleto se non si considerasse l’importanza che la nostra guerra ha avuto ed ha nel conflitto internazionale, la somma che essa rappresenta nell’attivo dell’Intesa. Non si misura l’entità del contributo dato per il trionfo finale della nostra causa comune, la causa della Libertà dei popoli, dalle distanze percorse ma dagli effetti e dalla intensità dello sforzo. Se così non fosse, si dovrebbe concludere che la Francia non ha fatto nulla, poiché il suo fronte è rimasto quasi immobile sul territorio francese, e che la Russia perdendo terreno è diventata una passività nella lotta. Anche l’immobilità assoluta potrebbe avere un valore per conseguenze lontane, su altri fronti.
Quando ai primi di settembre la controffensiva russa ha strappato settantamila prigionieri agli eserciti nemici e fermato momentaneamente i loro progressi, il ministro della guerra russo, stringendo la mano dell’attaché militare italiano che si congratulava con lui, gli avrebbe detto effusamente: «Grazie, grazie, il successo è anche vostro!» Ed era realmente anche nostro. La vittoria delineandosi in qualsiasi punto dell’immane conflitto porterebbe al raggiungimento degli obbiettivi speciali di ogni singola lotta.
Quale influenza non ha avuto la nostra guerra nella salvezza dell’esercito russo? Gli Imperi centrali avevano preparato contro la fronte orientale una offensiva destinata a schiacciare la Russia, a costringerla alla pace, ad eliminarla dal conflitto, per definire poi la guerra rapidamente sulla fronte occidentale. Fin dal marzo scorso a Bruxelles si udivano degli ufficiali dello stato maggiore tedesco prevedere per il giugno la pace generale, la pace germanica. Erano sicuri dell’annientamento degli eserciti dello Zar. Tutto era studiato, tutto era previsto, il piano di azione gigantesco, apparentmente irresistibile.
Non diciamo che il piano sarebbe riuscito, se, mentre esso era in pieno sviluppo, l’Italia non fosse entrata in guerra, richiamando imperiosamente forze ingenti dal centro e dall’ala destra degli eserciti austro-tedeschi; ma non è temerario affermare di aver contribuito a dissipare quella disfatta che ha sfiorato l’eroica Russia, che è stata così vicina, così imminente, che è stata la nostra angoscia per un mese, e che avrebbe forse portato con se la catastrofe del mondo latino e la schiavitù dell’Europa.
La Russia ha arginato l’avanzata nemica, resiste, contrattacca, e si riorganizza. La Francia e l’Inghilterra hanno potuto passare all’offensiva, conquistare le prime linee e attaccare le seconde linee nemiche. Sarebbe possibile questo se vi fossero cinquecentomila avversari in più sopra una fronte o sull’altra? Osservando i confortanti risultati locali della nostra stupenda lotta, che s’impone alla ammirazione del mondo, e che progredisce sempre, aspra ma sicura, da successo a successo, non dimentichiamo dunque le influenze che essa esercita sulle sorti del conflitto delle nazioni.
E non soltanto noi tratteniamo un esercito austriaco, ma lo battiamo. È ben altro. C’è un logoramento che conta. Il nemico, per la sua tattica e per la natura della guerra, perde enormemente più di noi. Sulle due fronti di Francia e di Russia cadono in media trecentomila nemici al mese. Lo spreco di uomini che i nostri avversari fanno per arrivare rapidamente ad un successo definitivo è inaudito. Pure a questa lotta di usura la nostra guerra dà un largo contributo.
Un progresso costante verso la nostra mèta; una fronte inattaccabile; un aiuto possente ai nostri alleati: ecco in riassunto la situazione militare. Ma chi torna da una residenza al campo porta poi in sé ben altro che questi freddi ragionamenti; porta nel cuore come una sensazione di vittoria, sente una fede attinta alle gloriose visioni della guerra, all’entusiasmo, all’ardore in mezzo ai quali ha vissuto. Si ha quasi l’impressione di una certezza irragionata, naturale, istintiva, come sotto allo splendore del sole estivo si è sicuri che le messi maturano.
Milano, 13 ottobre 1915.