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I primi vent'anni - 2. Un teenager su un milione

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2. Un teenager su un milione


Quando Aaron compie tredici anni – l’8 novembre 1999 – lo scienziato inglese Tim Berners-Lee e il W3C, il consorzio che riunisce gli sviluppatori che stanno concretizzando l’idea del world wide web, sono già dei punti di riferimento mondiali. Sono visti, ovunque, come l’Olimpo tecnologico, il gotha dei tecnici che stanno letteralmente costruendo il futuro della rete, della sua architettura e dei suoi contenuti.

Sir Tim Berners-Lee, in particolare, è riconosciuto da tutta la comunità scientifica come il “padre” del web. È lo studioso che ha progettato, e avviato, l’idea di un web fatto di contenuti ipertestuali, e che sta per cambiare il modo attraverso il quale saranno fruite le informazioni.

Il consorzio, dal canto suo, è un ambiente di lavoro dove i più grandi programmatori che ci siano, e le menti più illuminate raccolte attorno a questa nuova idea dell’Internet grafica, discutono, anche in vivaci mailing-list, sulle singole tecnologie e sui linguaggi da sviluppare per creare, al meglio, questo web più utile, semplice ed efficiente.

Da tempo, in particolare, è in corso, tra le altre, una discussione molto partecipata su RSS, un formato per la distribuzione di contenuti sul web basato su XML. Il fine è quello di progettare un sistema semplice, estensibile e flessibile.

RSS, infatti, avrebbe avuto un’importanza centrale nel sistema del (futuro) web grafico: avrebbe garantito ordine nei flussi di informazioni e di diffusione di articoli/commenti sul web, permettendo un efficace aggiornamento in capo all’utente, senza costringerlo a visitare, a uno a uno, i vari siti web di suo interesse e recuperare manualmente le informazioni.

Si trattava, in sintesi, di inventare un sistema che avrebbe consentito di organizzare tutta l’informazione in rete. Il progetto era, allora, in via di sviluppo e stava per essere presentata la versione 1.0.

L’organizzazione, e la correlazione, delle informazioni (non solo) in rete erano, come già abbiamo visto, alcuni dei temi più cari ad Aaron sin dalla sua infanzia.

A tredici anni, le sue idee e le sue capacità di programmazione e di visione tecnologica erano già elevatissime, all’avanguardia e molto superiori rispetto a quelle di studiosi che da tempo facevano parte del consorzio.

Il giovane, allora, decide di “buttarsi”. Entra nelle discussioni del consorzio, a volte anche con toni accesi, e inizia a fornire un contributo concreto allo sviluppo di RSS.

Deve superare, però, un problema non da poco: ha solo tredici anni. Esiste il rischio concreto che nessuno lo prenda sul serio, impedendogli così di [p. 36 modifica]contribuire concretamente a scrivere parti di quel codice che sarebbe stato la base del web.

Come avrebbe potuto scrivere la storia insieme a Tim-Berners Lee e al suo gruppo di lavoro, se si fosse scoperta questa cosa?

In realtà, la rete gli consentì di collaborare per mesi senza che nessuno gli domandasse, mai, informazioni circa la sua età.

Nelle discussioni online era iper-produttivo di commenti sempre sensati, e le sue osservazioni tecniche erano puntuali.

Un anno dopo, a 14 anni, Aaron si era perfettamente integrato nel gruppo del consorzio e si occupava, con Berners-Lee, dello sviluppo del cosiddetto “web semantico”.

Il giovane si era realmente appassionato – ed era prevedibile – a questa idea estremamente ambiziosa, e rivoluzionaria, che Berners-Lee e il consorzio stavano portando avanti: volevano trasformare tutte le informazioni del mondo in un formato che fosse leggibile dalle macchine grazie al codice informatico.

Tutta la conoscenza umana stava per diventare codice. E Aaron non vedeva l’ora che capitasse, e stava finalmente lavorando concretamente per questo.


Danny O’Brien, un giornalista e attivista tecnologico inglese, venne a sapere, quasi per caso, che un quattordicenne stava aiutando il grande scienziato, e il suo gruppo, a creare una nuova infrastruttura per la conoscenza.

Si trattava, ovviamente, di una notizia importantissima, e di lì a breve il giornalista pubblicò un articolo dal suggestivo titolo “A teenager in a million”. L’articolo si focalizzò proprio sull’età incredibilmente giovane di Aaron e sulle sue caratteristiche, così diverse da quelle dei ragazzi della sua età. Dagli altri “milioni di adolescenti”, appunto.

Eppure – confessò pubblicamente, tanti anni dopo, l’autore dell’articolo – la redazione aveva completamente sbagliato quel titolo.

La cosa eccezionale, notò O’Brien, non era la sua età, e il fatto che un ragazzino così fosse un’eccezione tra i suoi coetanei dell’epoca. Eccezionale era, al contrario, il fatto che tutti gli studiosi del consorzio – anche i programmatori più anziani – avessero ben compreso come la componente più importante di questa partecipazione di Aaron alla costruzione del mondo del futuro non fosse il fatto che ci fosse un tredicenne tra loro, ma che un’istituzione scientifica e “formale” come il consorzio si fosse aperta a lui.

Lo avevano lasciato entrare dalla porta principale. Senza domandare chi fosse, che età avesse, da dove provenisse, se avesse studiato o meno. Semplicemente, lo avevano accolto per farlo lavorare – dato che lavorava bene – e perché, così, l’umanità avrebbe potuto fruire del suo lavoro. E apprezzarlo.

Dal canto suo, il ragazzo si era improvvisamente ritrovato nel suo ambiente preferito, nel suo elemento naturale.´ [p. 37 modifica]

Poteva lavorare sui temi che gli piacevano, contribuire insieme a suoi pari a costruire qualcosa e imparare da loro e, al contempo, cominciava a rendersi conto di come un’istituzione pubblica o scientifica veramente aperta fosse solamente quella capace di accogliere uno sconosciuto come lui senza problemi, e senza domandargli altro che impegno, dedizione e, soprattutto, redazione di un buon codice informatico.

Tim Berners-Lee rimase molto legato ad Aaron, e ricordò in tantissime occasioni quei momenti che contribuirono a creare il nuovo web: la felicità che si diffondeva quando il sistema di ricerca funzionava, le mailing list aperte e, soprattutto, uno scambio incessante di informazioni, giorno e notte.

In un contesto così particolare, dove le sue e-mail, e le sue righe di codice, in pratica, dovevano “parlare” per lui e per la sua persona, Aaron iniziò a sviluppare un amore per il bel codice informatico e per l’estetica della programmazione e, allo stesso tempo, un odio viscerale per il brutto codice; la programmazione diventò così, per lui, anche una questione di estetica e di funzionalità.

In un’occasione gli fu fatto notare, da un programmatore del gruppo, come il codice che aveva scritto fosse obiettivamente “brutto” e, per gran parte, illeggibile. Il giovane si offese, ma si difese subito dicendo che quello non era il suo codice. O, meglio, era un codice scritto “in autonomia” da un primo codice che lui aveva programmato. Questa cosa lo irritò, comunque: era come se un suo figliolo avesse operato male nel generare del codice, e lo avesse fatto senza ereditare la sua stessa sensibilità.

Esiste un aneddoto curioso, con riferimento a questo periodo storico e all’ingresso di Aaron Swartz nel gruppo del consorzio, che vale la pena ricordare. È un fatto che dimostra non soltanto l’intelligenza e l’intraprendenza del giovane ma, anche, la forte motivazione che lo portò ad aggirare gli ostacoli e a trovare strade alternative per entrare in un determinato consesso, con una vera mentalità da hacker.

Notavamo come l’ingresso nel W3C non fosse stato affatto semplice, per Aaron, proprio per i suoi problemi di età. Un giorno, allora, si mise a spulciare con attenzione, riga per riga, il regolamento, per cercare qualche punto debole tra le frasi: notò la possibilità, per ciascun membro del consorzio, di inviare un delegato agli incontri.

Si impossessò della lista di tutti i membri, e ne trovò uno che non aveva ancora individuato, e mandato, un delegato: era la HTML Writers Guild.

Chiese loro di poter partecipare come loro delegato, e glielo consentirono.

Aveva risolto il problema.

Il 27 aprile 2001 Aaron invierà la sua prima e-mail in lista, per iniziare a collaborare. Il testo è ancora presente negli archivi del W3C:


From: Aaron Swartz <aswartz@upclink.com>
Date: Fri, 27 Apr 2001 06:40:09 -0500

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To: <w3c-rdfcore-wg@w3.org>
Message-ID: <B70EC4C8.A1AA%aswartz@upclink.com>

Hello all,
My name is Aaron Swartz and I’m participating in this group on behalf of the HTML Writers Guild [1]. My interests are in this project are quite varied, including:

- in working to integrate the RDF and the Semantic Web with the web pages we already have (through the Blogspace [2] project) - collecting and sifting through RDF metadata to build useful informational systems (through the Info Network [3]) - building a strong foundation for the growth of the Semantic Web (through my work with SWAG: The Semantic Web Agreement Group [4])

I began my interest in RDF relatively recently through the RSS project [5] which works is a format for website authors to provide RDF metadata about their sites for syndication and other purposes. It has been quite successful so far. This drew me deeper into work with RDF doing numerous small applications and learning more about it in the RDF-interest email list and IRC forums.


I’m thrilled to be a part of this group and feel that we’re truly working to build the foundation of what will become a revolutionary force in the world.

As part of this, I feel it’s extremely important to maintain focus of real-world applications and test cases (as Dan Connolly has pointed out). I also believe it is essential to maintain lines of communication with the wide interest group, and the many RDF users, or future-RDF-users who are not represented here.

Glad to be on board! See you at the teleconference.

[1] http://www.hwg.org/

[2] http://www.blogspace.com/about/

[3] http://www.theinfo.org/

[4] http://purl.org/swag/

[5] http://purl.org/rss/1.0/

---

[Aaron Swartz | me@aaronsw.com | http://www.aaronsw.com]

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Danny O’Brien, il giornalista che già abbiamo citato, e che allora lavorava al Sunday Times, è un po’ la memoria storica di questo periodo. Si è trovato, in innumerevoli occasioni, a descrivere questo “epico incontro” tra il creatore del world wide web e Aaron.

O’Brien ricorda, innanzitutto, lo stile delle frasi di Aaron scritte online nelle chat e nelle liste, il suo modo di argomentare chiaro e preciso in tutti quei gruppi dove si lavorava insieme a uno standard per la rete e, quindi, servivano apporti immediati e concreti.

A ciò si aggiungevano una conoscenza e competenza tecnica notevoli, unite a una non comune capacità di scambiare, e mettere in circolo, le idee e di trovare la risposta giusta in ogni occasione.

Non sembrava, ricorda il giornalista, una persona che lavorasse nell’ambiente – un professionista in senso stretto –, ma era una persona che parlava tanto, che dialogava con altri, che prendeva parte a una costante, ininterrotta conversazione cui si applicava con grande dedizione.

Di certo, il lavorare con uno studioso del calibro di Berners-Lee ebbe, per la crescita e formazione di Aaron, un’importanza fondamentale: lo convinse, ancora di più, che tutto è connesso tramite hyperlinks e che ogni frammento di informazione deve, in qualche modo, essere collegato.

Il web avrebbe dovuto insegnare all’umanità proprio questo, e l’umanità avrebbe dovuto lavorare, tutta insieme, per raggiungere un simile obiettivo. Di qui, la necessità di elaborare degli standard, dei linguaggi comuni e dei metodi di classificazione delle informazioni semplici da usare.

Uno dei motivi per cui Aaron non si trovava bene a scuola riguardava proprio il fatto che i docenti gli volessero insegnare cose separate: tante materie “verticali”, con un approccio che costringeva gli studenti a lavorare da soli.

Lui non voleva lavorare da solo. Era convinto che la liberazione assoluta della creatività dell’essere umano potesse avvenire solo quando le idee di una persona s’incontrano con quelle delle altre, per crearne di nuove. E, poi, si diffondono tutte insieme.

Essere generosi, per Aaron, significava condividere idee, soprattutto idee che potevano cambiare la vita delle persone, e far sì che il sapere di uno potesse diventare il sapere di milioni.

La tecnologia su cui Aaron si era trovato a lavorare avrebbe permesso proprio quello: condividere le idee e trovare risposte che nessuno avrebbe potuto trovare da solo ma, anche, ascoltare e capire gli altri entrando a far parte di qualcosa molto più grande di noi. Il web.

Il ruolo di celebrità di Tim-Berners Lee è arrivato intatto sino a oggi. Tutti compresero, oltre trent’anni orsono, che quando il primo sito web andò online si era all’inizio di una delle più grandi invenzioni della storia. E la scelta nobile che, ai tempi, fece Berners-Lee, ossia di non arricchirsi con la sua invenzione [p. 40 modifica] “chiudendola”, ma di regalarla all’umanità, come un novello Prometeo, contribuì ancora di più a fare apprezzare la persona e lo studioso.

Tim, da giovane, era un vivace londinese, nato nel giugno del 1955, che aveva voluto seguire le orme dei suoi genitori, tutti e due informatici. Era appassionato di trenini elettrici, come tanti hacker. Si avvicinò all’elettronica studiando fisica a Oxford e, nel 1980, iniziò a lavorare come libero professionista per il CERN, il consiglio europeo per la ricerca nucleare.

Al CERN, scienziati che provenivano da tante parti del mondo avevano l’abitudine di utilizzare i loro sistemi informatici personali creando, così, un ambiente molto eterogeneo. Ciò rendeva difficile la collaborazione scientifica quotidiana.

L’idea di Tim fu quella di dar vita a un solo sistema di gestione delle informazioni che fosse accessibile a tutti gli scienziati che lavoravano al CERN.

Il 6 agosto del 1991, quando Aaron non aveva ancora compiuto cinque anni – ma già si collegava in rete –, vi fu il momento storico dell’avvio di una nuova rivoluzione tecnologica: fu messo online il primo, vero sito web, all’indirizzo info.cern.ch, e ciò segnò la nascita del world wide web accessibile al pubblico.

Il resto entrò nella storia: nel 2004 la regina Elisabetta nominò Tim Berners-Lee baronetto, riconoscendo il suo ruolo per lo sviluppo globale di Internet.

Sul suo primo sito web, Tim Berners-Lee descrisse con poche, ma significative, parole l’obiettivo che aveva in mente: il world wide web era pensato per dare un accesso universale a un grande numero di documenti.

Tim Berners-Lee voleva, allo stesso tempo, promuovere Internet come un diritto fondamentale e come bene pubblico. Questa parte di attivismo, nell’opera dello scienziato, influenzò non poco Aaron: si iniziò, ad esempio, a discutere di open data e di net neutrality.

Scherzo del destino, tutto ciò fu inizialmente fatto, da Berners-Lee, nel tempo libero e come progetto secondario domandando, addirittura, il permesso al suo referente scientifico.

Tim non sopportava più l’idea che ogni studioso del centro avesse il proprio formato di dati, anche perché, con molteplici sistemi di archiviazione e di documentazione tutti eterogenei tra loro, era impossibile portare avanti qualsiasi progetto in maniera ordinata e automatizzata.

Prendevo una cosa da una parte e una dall’altra – ricorda, spesso, nei suoi talk, compreso un celeberrimo TED che vanta milioni di visualizzazioni su YouTube – e qualunque cosa volessi approfondire, dovevo per forza connettermi con un’altra macchina, imparare a far funzionare un nuovo programma e, alla fine, trovavo le informazioni che volevo, però in qualche nuovo formato di dati! Ed erano tutti incompatibili tra loro! Era davvero tutto molto frustrante: la frustrazione era data anche da tutto questo potenziale inesplorato. Su tutti i dischi fissi degli studiosi c’erano documenti: se si fosse riuscito a immaginarli come parte di un unico, grande sistema virtuale di documentazione collocato da qualche parte, magari su [p. 41 modifica] Internet, la vita sarebbe stata più semplice per tutti.

Non era, però, facile spiegare al mondo l’idea che Tim aveva in mente. Ancora più difficile era costruirne l’infrastruttura tecnica alla base.

Ci voleva tanta immaginazione: bisognava che le persone si immaginassero come quel link potesse portarle, in concreto, “verso” qualsiasi documento esistente. Questo era il passaggio interpretativo, e immaginario, che lo scienziato domandava all’ascoltatore quando descriveva il progetto. Ed era il più difficile.

Qualcuno, però, capì, e si creò un movimento spontaneo dal basso, che rese l’intera avventura, ricorda Berners-Lee, divertente.

Questa fu la cosa eccitante: non la tecnologia in sé, non cosa le persone ne avrebbero fatto, ma la nascita di una comunità. Lo spirito di queste persone che si riunivano e che si scambiavano e-mail per condividere le idee.

Oggi Tim Berners-Lee è, nei progetti che sta portando avanti, altrettanto innovativo e non ha, di certo, perso lo smalto delle origini.

Nei suoi discorsi in pubblico più recenti ha ribadito la forte volontà che in rete siano messi anche tutti i dati, e non soltanto dei documenti.

Lo scienziato vede ancora, in questo ambito, un enorme potenziale inesplorato, soffocato, in parte, dal fatto che tanto materiale non sia, sul web, in forma di dati.

I documenti li leggi. Puoi “saltare” da uno all’altro – ricorda Tim Berners-Lee nel TED che abbiamo citato poco sopra – Mentre con i dati, se hai un computer, puoi fare tantissime altre cose. I dati, ad esempio, si possono combinare fino a creare oggetti finali che sono più interessanti dei ‘pezzettini’ di dati presi singolarmente. Si possono inserire all’interno di un software, ad esempio. È, quindi, davvero importante, oggi, avere molti dati e non soltanto documenti. Immaginatevi – dice lo studioso – un mondo nel quale tutti abbiano caricato i loro dati sul web. Un mondo nel quale qualunque cosa voi possiate immaginare, sia presente sul web. E chiamatelo, tutto questo, il mondo dei linked data. La tecnologia del futuro è questa. Quella dei linked data. E nel caso voleste pubblicare qualcosa sul web per contribuire a un simile sistema, diventerebbe un’operazione davvero semplice, a patto che tutti seguano tre regole ben precise, affinché il sistema funzioni bene. La prima regola è che gli indirizzi con il formato http non saranno più utilizzati solo per i documenti ma, anche, per indicare le “cose” e gli “oggetti” di cui quei documenti parlano. Li useremo per le persone, per i luoghi, per i prodotti, per gli eventi: ogni sorta di concetto avrà un nome/indirizzo che inizierà per http. Qualsiasi oggetto. La seconda regola prevede che se un utente prende uno di questi nomi http, lo cerca, va sul web e recupera i dati corrispondenti usando il protocollo http, ne ricaverà dei dati che sono sempre in un formato standard e che conterranno informazioni importanti. La terza regola è che tutti i dati dovranno essere correlati tra loro. Quando ricaviamo quelle informazioni, otteniamo anche delle relazioni tra i dati stessi. I dati, quindi, diventano relazioni.

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L’idea estremamente affascinante alla base dei linked data, su cui stanno investendo Tim Berners-Lee, il suo gruppo di ricerca e tanti altri studiosi e studiose nel mondo, è che si possano avere molte, moltissime “scatoline” di dati e ulteriori elementi informativi che, in un certo senso, “germogliano”.

Ognuna di queste “piante” che crescono sul web, di qualunque tipo essa sia – una presentazione, un libro, una tesi, un articolo, un’analisi, un report, un archivio – “guarda” costantemente a tutti i dati di tutti gli altri elementi, e li connette tra loro. Più “cose” ed elementi si connettono, più i dati diventano “potenti”.

Il problema concreto, che rallenta questa fase, è che i dati su Internet si presentano, oggi, in tante forme differenti: si pensi al formato proprietario, ancora, di tanti dati pubblici di proprietà di varie amministrazioni, nonostante il movimento per l’open data stimoli e, in alcuni casi, obblighi al rilascio di informazioni strutturate e ordinate.

Però questi dati, se ben ordinati e linkati, possono essere utili per tutti: hanno un valore per le imprese, ma anche per i singoli, per lo studio, per la ricerca e per la politica. Il mettere questi dati a disposizione di tutti rende, in definitiva, il mondo migliore.

Infine, nota Berners-Lee, una volta superato questo ostacolo (non facile, perché molti centri di ricerca pubblici e privati sono assai gelosi dei loro database, e non li vogliono condividere), occorre far comprendere come i dati debbano essere messi a disposizione in formato raw: ossia non alterati. Servono i dati “nudi e crudi”, proprio così come sono nati, e spesso questi dati sono già stati pagati dai cittadini con il versamento delle tasse e potrebbero garantire, se liberati, una interoperabilità globale, anche sui social network, unendo tante persone in un comune, enorme obiettivo.

Lisa Rein, attivista della Electronic Frontier Foundation, una delle più importanti organizzazioni al mondo per la protezione dei diritti nell’ambiente digitale, è solita ricordare, in più occasioni, quei giorni nei quali Aaron si presentò online sulle mailing list del consorzio dedicate a XMP (una tecnologia di etichettatura e catalogazione che permette di incorporare dati relativi a un file dentro il file stesso) e RDF (un modello standard per l’interscambio di dati sul web).

Arrivò da non si sa dove, alla fine del 2001 – rammenta Lisa in una commemorazione pubblica – e faceva commenti molto precisi. Mostrava una comprensione dei linguaggi di marcatura, e di modellazione dei dati, più profonda di tutti gli altri, anche dei programmatori più anziani. Lo si capiva dal contenuto e dal tono dei commenti. Aveva un talento innato per semplificare le cose e per andare immediatamente, durante una discussione, al cuore dei problemi che interessavano tutti gli altri. Era un ragazzino che manifestava l’urgenza di essere incluso nei progetti che stavamo portando avanti e che chiedeva di essere preso sul serio, come tutti gli altri.

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Nell’aprile del 2002, durante le prime fasi di lancio di Creative Commons, Lisa informò Aaron di un incontro tecnico ad Harvard, e voleva assolutamente che partecipasse. Voleva includerlo nell’intero progetto, con le stesse modalità con cui era coinvolta lei. Lui le disse che aveva solo quattordici anni, e che doveva prima contattare sua mamma per avere tutte le autorizzazioni del caso.

Quando Lisa insistette affinché partecipasse a quell’incontro, tutti, anche Lawrence Lessig, videro inizialmente la cosa molto strana e, soprattutto, poco “ortodossa”.

Hai bisogno di un quattordicenne per svolgere meglio il tuo lavoro di programmazione? era la domanda tipica che le facevano. E la risposta era «sì». «Ho bisogno di Aaron» – diceva sempre Lisa – «per essere sicura che la nostra licenza di markup di Creative Commons che stiamo per lanciare sia la migliore possibile».

Le persone, in definitiva, erano solitamente scettiche circa la figura di Aaron, e le sue capacità, quando scoprivano che aveva solo quattordici anni. Ma bastava parlare un poco con lui, ed era in grado di convincere tutti.

Quando Lawrence Lessig lo incontrò, capì immediatamente che Aaron era pronto per diventare una sorta di “uomo di stato” tecnologico. E lo stesso capitò a Cory Doctorow, scrittore e attivista, che ne rimase altrettanto impressionato.

Ho conosciuto Aaron quando aveva quattordici o quindici anni – ricorda Cory in un suo post su Boing Boing – stava lavorando su progetti correlati all’XML e veniva spesso a San Francisco. Stava da Lisa Rein, una mia amica che si occupava, anche lei, di XML, che si prendeva cura di lui e che assicurava ai suoi genitori che il ragazzo fruisse di una costante attività di supervisione da parte di un adulto. Per molti versi, però, era già un adulto, con un intelletto profondo e veloce, che lo faceva sentire completamente parte integrante del contesto sociale che si era creato attorno a Internet. Apparteneva ormai, completamente, a un luogo in cui sono solo i tuoi pensieri a contare, e non chi sei, o quanti anni hai. Ma anche allora era, per altri versi, inequivocabilmente un bambino. Mangiava solo cibo di colore bianco. Si andava in un ristorante cinese e lui ordinava riso al vapore. Gli suggerii che si potesse trattare di un problema di percezione eccessiva dei sapori, un fenomeno definito, dai medici e dagli scienziati, come “supertaster”, e gli diedi indicazioni su come verificarlo. Lui lo fece, si documentò, e concluse che lo era sicuramente. Abbiamo discusso spesso circa i gravi problemi allo stomaco che aveva, e su come avrebbe dovuto fare attenzione: i “supertaster” hanno la tendenza a evitare le verdure dal gusto amaro e finiscono, così, per essere carenti di fibre e vitamine. Si è subito documentato sull’argomento, ha elaborato una strategia per mangiare meglio, e l’ha messa a punto.
L’ho presentato a Larry Lessig – rammenta, ancora, Doctorow – e ha partecipato attivamente ai progetti del team tecnico originale di Creative Commons. Si è impegnato molto anche nelle questioni più teoriche, relative alla difesa delle libertà tecnologiche. Aaron aveva ideali forti, e profondamente radicati, ma era anche un giovane molto suggestionabile che, spesso, si lasciava trasportare [p. 44 modifica] improvvisamente da nuove passioni. Sembrava sempre, in qualche modo, alla ricerca di mentori, e nessuno di questi sembrava mai all’altezza degli standard impossibili che voleva da loro (e che voleva da sé stesso).

Tim Berners-Lee, negli anni successivi, lo ricordò, in tante occasioni, con bellissime parole. Lo descrisse, in particolare, come un giovane molto preoccupato per il futuro del web, irritato dalle interferenze governative nel mondo digitale che si stavano manifestando e dai “giardini recintati” online in corso di costruzione – soprattutto quelli di Facebook – che stavano chiudendo tutti i contenuti.

Aaron si opponeva fermamente alla costruzione di silos, nei quali gli utenti non avrebbero più avuto il controllo sulle proprie informazioni.

Al contempo, il giovane sperava che i legislatori di tutto il mondo finalmente si rendessero conto di come l’accesso alle informazioni, anche altrui, non dovesse necessariamente essere considerato un crimine ma, al contrario, un diritto.

Aaron cominciava già a rendersi conto di questo profondo sospetto alimentato nei confronti degli hacker e di chiunque accedesse a un sistema informatico, anche se l’accesso veniva effettuato in base a principi considerati etici e per rendere più equo, e più giusto, il mondo.

Le grandi capacità di programmare, e di entrare nei sistemi, potevano diventare lo strumento per cambiare il mondo che si riteneva ingiusto, per portare cambiamenti e per abbattere le barriere culturali.

Il giovane Aaron aveva compiuto, in piena adolescenza, un grande salto con le sue competenze da programmatore ed era entrato a far parte di un team che aveva fatto, e stava facendo, cose incredibili.

All’orizzonte, però, stava intravedendo come le sue capacità potessero servire anche alla politica, intesa, in questo caso, come insieme di azioni per cambiare la società che si stava trasformando attorno a lui.

Sarà l’incontro con il professore di diritto Lawrence Lessig, nei mesi successivi, a radicare in lui ancora di più questi nobili propositi, e a legarlo a doppio filo con l’idea di lotta per le libertà digitali.