Aggiustare il mondo - Aaron Swartz/I primi vent'anni/1. Un bambino e un computer

I primi vent'anni - 1. Un bambino e un computer

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1. Un bambino e un computer

Montare. Smontare. Rompere. Riparare. Leggere. Scrivere. Rileggere. Annotare. Catalogare. Imparare cose nuove. Schedare tutte le informazioni. Collegarle. Linkare. Programmare. Prendere un libro dalla libreria di famiglia. Spostarlo. Prenderne un altro. Trovare i collegamenti tra i due. Incrociare le note. Rimetterli a posto, ma con una collocazione differente. Cambiare ogni giorno, di prima mattina, l’ordine di tutti i volumi di casa in base alle nuove nozioni apprese. E, poi, riorganizzare di nuovo tutte le informazioni, prima di sera, davanti a una macchina meravigliosa e incredibile che si chiama computer.

Già a tre anni compiuti – nel 1989 – le giornate del piccolo Aaron Swartz sono più intense, e impegnative, di quelle di un adulto medio.

Dopo aver imparato a leggere, ha iniziato a giocare e, poi, a scrivere al computer. Poco dopo, ha imparato a capire il codice, e programmare. All’età delle scuole elementari è già in grado di elaborare piccoli programmi.

Al di là della sua spiccata intelligenza, l’Aaron-bambino ha un grandissimo vantaggio iniziale rispetto a molti suoi coetanei: non è soltanto un ragazzino particolarmente vivace e curioso – grazie anche all’ottimo rapporto con i due fratelli – ma può utilizzare, nel suo ambiente domestico, diversi computer e strumenti informatici moderni e potenti, dato il lavoro del padre, consulente informatico e sviluppatore di software.

Ha accesso senza problemi e senza limiti allo stato dell’arte delle tecnologie esistenti in un momento critico: l’espansione del web e la sua trasformazione in rete commerciale.

Per di più, può utilizzare computer Apple: l’interfaccia grafica di quel sistema operativo si presenta particolarmente adatta ai bambini, e gli permette di incanalare al meglio tutta la sua creatività e di rendere concrete le sue innumerevoli idee, in maniera semplice e intuitiva.

Nelle foto e video di famiglia, Aaron non sta mai fermo, né si mette in posa. Sta costruendo qualcosa. O sfreccia per la casa su uno skateboard improvvisato per, poi, rovinare tra le tende della cucina. O, ancora, è davanti allo schermo di un computer, dove muove un mouse, digita codice o gioca.

Deve, in ogni momento, fare qualcosa. Con un dinamismo che ha dell’incredibile.

La sua casa diventa, ben presto, anche la sua scuola e il suo “luogo di lavoro”: i tentativi dei genitori di orientarlo verso un percorso educativo tradizionale si dimostrano, fin dalla sua tenera età, molto difficoltosi.

Un simile rapporto conflittuale con l’ambiente scolastico, e le sue istituzioni, sarà una costante di tutta la vita di Aaron: dalle scuole elementari al college sino, poi, all’università. [p. 22 modifica]

Viveva, infatti, con un costante dilemma interiore.

Da un lato amava la conoscenza, l’apprendere, studiare e leggere. Dall’altro, criticava e metteva in discussione in ogni momento il sistema scolastico in sé, le competenze dei docenti in cui gli capitava di imbattersi e, persino, il metodo educativo degli insegnanti.

Si era certamente in presenza di un ragazzo che voleva assorbire come una spugna contenuti e nozioni da altre persone, ma queste persone dovevano essere meritevoli della sua attenzione e del tempo che avrebbe investito per ascoltarle e per imparare da loro.

Era in una costante ricerca di maestri ma era, al contempo, molto, molto esigente. Tanto che, in tutta la sua vita, trovò pochissime persone che lo entusiasmarono veramente e, soprattutto, di cui si fidò.

L’ambiente scolastico tutto, in sostanza, non gli piaceva. Non gli piacevano gli insegnanti. Si annoiava a studiare temi e argomenti che non riteneva utili per la sua crescita e per la sua formazione. Trovava i compiti assegnati a casa troppo facili o, addirittura, inutili e stupidi. Aveva la costante sensazione di perdere tempo.


Un secondo fattore problematico si dimostrò la sua evidente intolleranza nei confronti dell’idea stessa di autorità che promanava dagli insegnanti e che si percepiva attraverso l’adozione di metodi educativi da lui ritenuti sbagliati.

Aaron dedicherà settimane, da teenager, a raccogliere ogni possibile libro e articolo sul sistema educativo nordamericano – compresi testi di pedagogia, di psicologia, di organizzazione scolastica, di analisi politica dello stato dell’arte dell’insegnamento in quel Paese – per cercare di individuarne i punti deboli, e capire come “ripararlo”.

Vi fu, poi, un terzo fattore, che in quegli anni stava esplodendo, e che mise definitivamente in crisi la sua fiducia nel sistema scolastico: aveva accesso a Internet. Anzi, tutti iniziavano ad avere accesso a Internet. E per ogni possibile argomento che si fosse deciso di trattare in classe, Aaron era finalmente in grado, grazie alla rete e alle competenze di ricerca che aveva sviluppato in quei primi anni, di trovare fonti ben più ampie, documentate e approfondite, in minor tempo, e di poter selezionare e distillare soltanto gli aspetti che realmente gli interessassero, rispetto a quanto c’era scritto sui libri o a ciò che veniva detto dagli insegnanti.

I genitori, in questi anni problematici, lo assecondarono il più possibile, e per lunghi periodi studiò a casa, per conto suo.

Il suo amico e mentore, Lawrence Lessig, ricorderà, in diverse occasioni pubbliche, come una simile mancanza di istruzione scolastica tradizionale, e di rispetto della disciplina tipica di un contesto scolastico, fosse stata, da un lato, un bene (aveva consentito una completa “liberazione” delle sue capacità e dei suoi [p. 23 modifica]interessi) ma, dall’altro, potesse aver generato una vulnerabilità nel carattere del giovane.

Aaron era più portato, anche nei momenti di dubbio, o di grande difficoltà, a credere solo in sé stesso, e nelle sue capacità, piuttosto che appoggiarsi a maestri e confrontarsi con persone di riferimento, soprattutto per condividere problemi personali.

In uno dei suoi primi post sul blog, datato 14 gennaio 2002 (dal titolo “It’s always cool to run”), Aaron racconta, ad esempio, della sua opera di persuasione per cercare di convincere un suo coetaneo ad abbandonare la scuola: «È sempre bello incontrare altri giovani intelligenti» – scrive il giovane – «e, forse, posso convincerli ad abbandonare il sistema scolastico, come ho fatto io. Per chi non lo sapesse, questo è il mio primo anno che passo al di fuori del sistema scolastico. Se fossi rimasto, quest’anno avrei frequentato il decimo anno. Devo dire che è stata una scelta difficile, ma credo che sia stata la scelta migliore che io abbia mai fatto. Ora sto frequentando un paio di corsi che si tengono in un’università in zona. Il prossimo trimestre inizia mercoledì. Frequento “Teoria dei numeri” e “Logica simbolica”. Credo.»

Lo stesso giorno, in un secondo post (“Tony Collen: Personally, I think”), ribadisce il suo pensiero:

Io non sono certo un ragazzo normale (e ne vado fiero!), e credo che il processo di “socializzazione” che avviene alle scuole superiori porti più danni che benefici. È certamente importante essere in grado di fare amicizie, e di sostenere conversazioni, e tutto il resto. Tuttavia, la cultura alla base del sistema della scuola superiore tende, spesso, a sopprimere le varie differenze, e a rendere tutti uguali. È una cultura basata sulla competizione (Chi è più popolare? Chi ha la droga? Chi ha i soldi?) e molto incentrata sul singolo e sull’individualismo. E credo che questo sia molto pericoloso.

Il rapporto tra ambiente scolastico, insegnanti e giovani hacker – o piccoli geni dell’informatica – è sempre stato assai problematico.

Si tratta di una sorta di cliché che si è ripetuto tante volte nella storia della tecnologia: una sensazione costante, per questi giovanissimi informatici, di trovarsi in un ambiente ostile, dove non sono pienamente compresi, dove molti argomenti interessano solo a loro e non alla società/cultura che li circonda o ai compagni, e sono costretti, pertanto, a sopportare dei vincoli costanti, provenienti dall’esterno, alla loro inventiva e alle loro capacità.

Aaron era nato l’8 novembre del 1986. Lo stesso anno, solo due settimane prima, sulle pagine della più importante rivista hacker del tempo, Phrack!, nel numero 7 del 25 settembre 1986, un hacker che si era firmato The Mentor aveva pubblicato un Hacker Manifesto. [p. 24 modifica]

Si tratta di un documento che sarebbe rimasto nella storia e che, di lì in avanti, sarebbe stato citato, e preso ad esempio, da gran parte della letteratura sul tema e, soprattutto, dagli appassionati di hacking.

Il giovane hacker aveva scritto questo documento l’8 gennaio del 1986. Lo aveva elaborato di getto, subito dopo essere stato arrestato.

Il titolo del Manifesto è The Conscience of a Hacker, “La coscienza di un hacker”, e il contenuto si presenta molto suggestivo sotto diversi aspetti.

A un certo punto, si focalizza proprio sul rapporto conflittuale tra questi giovani e l’intero sistema scolastico.

Un altro ragazzo è stato arrestato oggi – scrive The Mentor – La notizia è su tutti i giornali: «teenager arrestato per una vicenda di crimini informatici», «hacker arrestato dopo aver truffato una banca». «Dannati ragazzini, sono tutti uguali». Ma hai mai guardato, tu, con la tua psicologia da quattro soldi, e con il tuo cervello tecnologico rimasto agli anni Cinquanta, che cosa c’è dietro agli occhi di un hacker? Vi siete mai chiesti che cosa abbia fatto nascere la sua passione, quali forze lo abbiano forgiato, quali lo possano avere modellato? Io sono un hacker, entra nel mio mondo... Il mio è un mondo che inizia con la scuola. Io sono più sveglio della maggior parte degli altri ragazzi. Questa robaccia che ci insegnano a scuola mi annoia. Dannati sottosviluppati, sono tutti uguali. Proprio ora sono a scuola. Ho ascoltato i professori spiegare per la quindicesima volta come ridurre una frazione. E l’ho capito. «No Ms. Smith, non le mostro il mio lavoro, l’ho fatto nel mio cervello». Maledetto ragazzino, probabilmente ha copiato, sono tutti uguali.

Il disagio studentesco descritto da The Mentor rimanda direttamente all’infanzia scolastica di Aaron.

La scoperta del computer e di Internet porterà a cambiare completamente il quadro, a disegnare uno spazio di libertà che era lì, pronto da utilizzare, fuggendo, appunto, da quel tipo di scuola e di educazione.

Nel suo Manifesto, l’hacker annuncia con grande gioia ed enfasi la “scoperta” che gli cambia la vita:

Ho fatto una scoperta, oggi. Ho trovato un computer. Aspetta un attimo, è davvero cool. Fa quello che gli dico di fare. Se fa un errore, è perché ho sbagliato io. Non perché non gli piaccio. O perché si sente minacciato da me. O pensa che io voglia fare il furbo. O perché non gli piace insegnare, e non vorrebbe essere qui. «Dannato ragazzino. Tutto ciò che fa è giocare. Sono tutti uguali». E poi, è successo: una porta mi ha aperto un mondo, che scorre attraverso le linee telefoniche come eroina nelle vene del tossicodipendente, un impulso elettronico è fatto uscire, si trova finalmente un rifugio dalle incompetenze quotidiane, una tastiera è stata scoperta. Questo è il luogo cui appartengo io. Conosco tutti qui, anche se non li ho mai incontrati, anche se non ho mai parlato con loro, anche se non li [p. 25 modifica] sentirò mai più. Vi conosco tutti. «Dannato ragazzino. Sta di nuovo attaccato alla linea telefonica. Sono tutti uguali». Ci puoi scommettere che siamo tutti uguali. Siamo stati nutriti, a scuola, con cibo per bambini quando volevamo mangiare una bistecca; i pezzi di carne che ci avete dato erano già masticati, e senza gusto; siamo stati dominati da sadici, ignoranti e indifferenti. I pochi che avevano qualcosa da insegnarci, ci hanno, poi, riconosciuti come allievi volenterosi. Ma erano gocce d’acqua in un deserto.

The Mentor, proprio come il giovane Aaron, vede Internet, e il mondo elettronico, come un vero e proprio universo dove trovare riparo dalle insoddisfazioni percepite nella vita “fisica”. Un luogo dove vivere perché lì si è capiti, non si è giudicati e si è, in un certo senso, al sicuro grazie alle proprie competenze e al riconoscimento del valore da parte dei propri pari.

Aaron lo dichiarerà in innumerevoli occasioni: per lui, a quella età, Internet fu subito il luogo dove “stava bene” e, anzi, dove si stava meglio.

Tutti i problemi che doveva affrontare nella vita quotidiana, una volta online scomparivano.

In rete era apprezzato e poteva contribuire allo sviluppo dell’umanità, a “riparare parti di mondo” e a fare cose che percepiva come realmente utili. Senza sprecare un solo minuto del suo tempo.

La parte finale del Manifesto di The Mentor, probabilmente la più interessante, apre un nuovo fronte di riflessione che diventerà, nella vita di Aaron, centrale: è dedicata, infatti, alla natura della rete e dei suoi contenuti, alla libertà che ci dovrebbe essere, allo strapotere delle società commerciali ma, anche, alla costante lotta contro le discriminazioni, contro la chiusura delle opere dell’ingegno, contro l’ulteriore emarginazione dei deboli e dei poveri.

A Internet, in sintesi, come strumento per la rivoluzione sociale. E all’idea della figura dell’hacker come sub-cultura di opposizione.

Questo è il nostro mondo, ora – conclude The Mentor – Il mondo degli elettroni e degli switch, la bellezza del baud. Noi usiamo un servizio che già esiste, senza pagare per quello che dovrebbe essere poco costoso o gratuito se non fosse gestito da persone che pensano solo al profitto, da approfittatori ingordi, e ci chiamano criminali. Noi esploriamo... e ci chiamate criminali. Noi esistiamo senza discriminazioni per alcun colore della pelle, senza far caso alla nazionalità, senza credenze religiose, e ci chiamate criminali. Voi costruite bombe atomiche, voi finanziate guerre, uccidete, ingannate e ci mentite, e cercate di farci credere che è per il nostro bene, e noi siamo i criminali. Sì, sono un criminale. Il mio crimine è quello della curiosità. Il mio crimine è quello di giudicare le persone per ciò che dicono e pensano, e non per come appaiono. Il mio crimine è quello di essere più intelligente di te: una cosa, questa, che non mi perdonerai mai. Io sono un hacker, e questo è il mio manifesto. Puoi fermare tutto questo combattendoci a uno a uno, ma non puoi fermarci tutti. Del resto, siamo tutti uguali. [p. 26 modifica]

Il manifesto di The Mentor è significativo non solo perché cerca di illustrare la natura del vero hacking, ma perché, in ogni momento, fa percepire chiaramente quel senso di contrasto nei confronti di tutto ciò che viene avvertito come autorità.

Un’autorità che, nelle parole di questo ragazzo, non solo minaccia e arresta – siamo in un periodo storico di grande conflitto, dicevamo, tra autorità e hacker – ma che soffoca la voglia di conoscere e la creatività dei giovani, plasma le menti e confina la loro coscienza attraverso vincoli che non riescono ad accettare.

È una realtà che, al contempo, presenta l’enorme possibilità di un mondo nuovo, una rete. Che offre tutto.

Dalla contestazione del sistema scolastico, e dalla necessità di ripararlo, Aaron passerà gradualmente alla messa in discussione della società, poi delle aziende, poi della politica e, infine, dello Stato e del mondo.

Fisicamente, Aaron si presenta come un bambino apparentemente fragile e minuto. Timido, dimostra meno anni di quelli che ha. E sarà sempre così.

Per carattere è molto restio a condividere i suoi stati d’animo e le sue vulnerabilità, soprattutto per non destare preoccupazioni in capo alle persone a lui care. La sua dieta alimentare è un disastro. È ossessionato, sin dalla giovane età, dai colori dei cibi, e prende ben presto la decisione di mangiare soltanto prodotti di colore bianco o giallo. Non mangia frutta: ne ha il terrore. Non mangia verdura: predilige ciotole di riso, piatti di maccheroni col formaggio e patate fritte.

A 12 anni gli è diagnosticata una patologia molto grave che lo porta ad affrontare una condizione di dolore, e di disagio, per tutto il resto della vita, e che influirà molto sul suo carattere sia da adolescente, sia da adulto.

La sua adolescenza è caratterizzata da questo conflitto tra mondo reale e mondo di Internet.

Nel mondo reale vive nel suo piccolo sobborgo vicino a Chicago. Si sente un po’ fuori posto: non vuole frequentare la scuola, gli amici e le occasioni di svago sono poche, vuole solo avere più tempo per fare tutte le cose che gli vengono in mente ogni giorno.

Pian piano, si rende conto che a lui non interessa poi così tanto il “mondo fisico”, il verde e le foglie di Highland Park. A lui interessano, ormai, soltanto i computer e i libri.

È affascinato da quella Internet che ha scoperto da giovanissimo. Un luogo dove viene definito, e apprezzato, solo in base alle sue migliori qualità, alla sua capacità di parlare con i computer e con la rete.

Aveva già deciso che quello sarebbe stato il suo “primo luogo” dove vivere e lavorare. Non appena aveva accesso a un computer e a una connessione, entrava nel web e capiva, giorno dopo giorno, che lì c’era qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Che avrebbe cambiato il mondo e la storia. Che avrebbe cambiato il modo stesso di intendere la cultura e la comunicazione. [p. 27 modifica]

Nel 1999 – compiuti dodici anni – il piccolo Aaron comincia a diventare adulto, e inizia a pensare in grande.

Decide di creare, nientemeno, che un’enciclopedia. Esatto, proprio un’enciclopedia online. Un’idea di Wikipedia ancor prima che Wikipedia fosse nota e diffusa in tutto il mondo.

Un’enciclopedia, per di più, che nella sua idea si sarebbe generata con il contributo di tutti gli utenti collegati in rete. Sarebbe stato lui stesso a invitare come collaboratori, pian piano, tanti altri individui, affinché contribuissero a questo progetto in comune, regalando al mondo online, gratuitamente, il loro patrimonio di conoscenza.

È molto significativo che il primo progetto di Aaron riguardi anche i contatti tra le persone, il mettere insieme tante menti eterogenee per raggiungere un obiettivo in comune: il fare incontrare le persone.

Il giovane era in rete, sempre, ma non era realmente isolato. Lavorava, in questo ambiente digitale, anche per generare collegamenti e reti tra le persone, nella convinzione che fosse impossibile cambiare il mondo senza mettere insieme le forze, e le menti, in maniera armoniosa.

Decise di chiamare questo suo primo progetto “The Info Network”. Non è un caso che la sua prima idea concreta abbia riguardato un’enciclopedia. La sua passione per i libri, per la scrittura e per i contenuti sarà una costante in tutta la sua vita.

Aaron era così: quando entrava, per la prima volta, nell’abitazione di un amico o di una famiglia, la prima cosa che domandava era di poter osservare la libreria di casa e i suoi contenuti. In ogni nuova città dove si recava, la prima visita che faceva era, solitamente, presso la biblioteca cittadina.

Ciò significa che il sapere, i contenuti, l’aggregare un enorme quantitativo di informazioni in maniera ordinata, sfruttando la capacità di generazione collettiva di contenuti che Internet consentiva – e, quindi, la chiamata alle armi di tanti altri utenti – erano già principi ben chiari e definiti nella mente di Aaron dodicenne.

Questo progetto fu talmente ben impostato e realizzato che portò il giovane in finale a un premio importante: ArsDigita.

Si trattava di un concorso che premiava giovani che stavano avviando i primi progetti di siti web senza finalità commerciali, utili per tutti i cittadini e con spiccate connotazioni didattiche e collaborative.

La sua strada, anche per la programmazione, inizia a essere segnata: in futuro, le sue energie informatiche saranno dedicate – tranne una brevissima parentesi di pochi mesi – non a progetti commerciali, come molti suoi coetanei geni del business o della programmazione nella Silicon Valley di allora, ma a unire le persone, a liberare la conoscenza, ad alimentare attivismo e non profit.

Scherzo del destino, pochi anni dopo, sua mamma gli fece conoscere Wikipedia – che era stata fondata il 15 gennaio 2001 – e Aaron, ovviamente, [p. 28 modifica] si appassionò. Divenne uno dei contributor più amati e ricordati: preparò decine di pagine dedicate, soprattutto, a recensioni di libri e, a un certo punto, si interessò anche alla governance del progetto e si candidò per una posizione ufficiale.

In finale del premio ArsDigita, il giovane Aaron vinse 1.000 dollari. Ebbe, quindi, una prima gratificazione economica per le sue idee.

Ma furono due gli eventi per lui realmente importanti in questa (prima) occasione pubblica. Era stato premiato con un viaggio al Massachusetts Institute of Technology, il famoso MIT. La culla degli hacker. E aveva conosciuto una persona che lo aveva stupito, e che lo motivò tantissimo: lo scienziato informatico Philip Greenspun, uno dei primi studiosi a sviluppare teorie sulle comunità online.

Greenspun insegnava ingegneria elettronica e informatica proprio al MIT. Al Massachusetts Institute of Technology, l’hacking era una tradizione sacra.

La curiosità regnava.

La violazione degli spazi e dei confini, sia informatici, sia fisici, era diffusissima.

I trucchi per aggirare gli ostacoli, gli strumenti per scassinare serrature e lucchetti o per entrare in sgabuzzini chiusi, erano condivisi ogni giorno e considerati parte della cultura stessa che avrebbe portato all’innovazione.

Soprattutto, erano comportamenti che, generalmente, non venivano sanzionati.

Il MIT era stato fondato nel 1861 da un geologo, William Barton Rogers. Divenne ben presto l’università privata più rinomata per la qualità dell’insegnamento e, soprattutto, dell’attività di ricerca. Era nota per coltivare lo studio delle materie scientifiche (biologia, fisica, chimica, matematica e scienze della terra) anche se, nel tempo, aveva iniziato ad ampliare l’offerta di corsi di studio alle discipline linguistiche, economiche e alle scienze politiche.

La reputazione di cui godeva già ai tempi di Swartz era dovuta, in gran parte, ai sofisticati laboratori che metteva a disposizione degli studenti.

Vi si potevano trovare laboratori d’intelligenza artificiale – dove iniziò a operare, tra gli altri, il teorico del software libero Richard Stallman – un reattore nucleare e vari acceleratori ad alta energia.

Grazie a tali caratteristiche, il MIT aveva iniziato ad attirare le menti più brillanti del mondo. Veniva spesso citato in romanzi, film e telefilm al fine di conferire ai personaggi qualità come grande intelligenza ed eccelse conoscenze scientifiche e tecnologiche.

Gli studiosi dei fenomeni di hacking ricordano come al MIT fosse attivo il celebre Tech Model Railroad Club, un club di appassionati di trenini elettrici, che è considerato il “nido” dei primi hacker al mondo.

Per comprendere il fascino di quell’ambiente, si leggano, ad esempio, questi suggestivi stralci di un post apparso sul blog di Aaron il 25 aprile 2002 (“Boston [p. 29 modifica] Trip Story”) dove si racconta, proprio, di una sua peregrinazione” attraverso i bellissimi edifici del MIT.

Presi un taxi e andai al “77 Massachusetts Avenue”. «MIT», dissi al tassista, come se avessi un breve ripensamento. Pagai, e iniziai a camminare in maniera spedita. Controllando l’orologio, notai che ero in anticipo di mezz’ora. Cercai di collegarmi a Internet, ma il MIT mi aveva bloccato l’accesso. Cercai un terminale aperto, ma tutti richiedevano una password. Decisi di aspettare. Prima si presentò Robert Mello e, presto, cominciarono ad arrivare altre persone. Purtroppo la stanza era chiusa a chiave, quindi non potevo accedere a Internet. Scherzai sul fatto che sarei potuto entrare nella stanza attraverso i condotti dell’aria e “liberare” i terminali, come ai tempi degli hacker del MIT. Un professore di fisica che mi ascoltò, disse: «Hacker? Non ne abbiamo al MIT!». Alla fine, Andrew Grumet arrivò, e ci fece entrare. C’era un bel gruppo di studenti, con un tavolo pieno di persone di OpenACS. Si trattava di un’aula elegante con molta luce, lavagne, proiettori e attrezzature informatiche. Tutti erano molto cordiali. Mi sono scusato per andare alla riunione del W3C SWAD, e ho camminato per qualche isolato fino a Tech Square. Ho trovato il piano del W3C, ma non ho visto nessuno che riconoscessi. Ho controllato la mia posta elettronica utilizzando la rete wireless disponibile (che, a differenza del resto delle reti del MIT, era aperta), e ho scoperto che quel giorno non c’era nessuno. Una persona era rimasta a casa, un’altra era malata, una terza era stata chiamata da un’altra parte per fare qualcos’altro, e Tim Berners-Lee era in Giappone. Dopo aver scattato qualche foto, me ne sono andato. Scoraggiato, e alla ricerca di qualcosa da fare, sono salito su un taxi per raggiungere gli uffici della Free Software Foundation. Come ogni programmatore di software libero sa, la Free Software Foundation si trova alla Suite 330, 59 Temple Place, Boston, MA, e bisogna scriverle per ottenere una copia della licenza GPL, nel caso non sia stata inclusa nel software. A causa della strana numerazione degli uffici, stavo per non individuare la suite 330 ma, alla fine, ho bussato alla porta e sono entrato. Come ci si potrebbe aspettare, la stanza era disseminata di carta, CD e capi d’abbigliamento con loghi GNU. Lisa è stata così gentile da farmi fare un giro degli uffici. Avevano un secondo ufficio al piano superiore, con una targa sulla porta che recitava “GPL Compliance Lab”. All’interno c’era una stanza sorprendentemente pulita, con un paio di programmatori che eseguivano GNOME su computer portatili. Ho iniziato a chiacchierare con Jonathan Watterson, attivista della FSF per le libertà digitali. Abbiamo discusso del DMCA, della legge Hollings e della BDPG. Mi disse che teneva conferenze e lezioni nei college e che, al momento, stava pianificando cosa fare in estate, una volta finita la scuola. Tornammo al piano di sotto, e comprai una classica maglietta GNU. Lisa mi diede tanto materiale da leggere, alcuni adesivi e delle spillette con la scritta “Free All E-Book Readers & Programmers / Repeal the DMCA!”. L’ho ringraziata e le ho infilate nello zaino. Andai a perfezionare l’acquisto della maglietta, e un altro addetto inserì i dati del mio ordine in un modello Emacs RFC822. Ha premuto alcuni tasti e ha generato, e stampato, una fattura (numero 11756). Lisa mi ha portato una tazza GNU e io ho messo tutto nel mio zaino (che stava diventando sempre più pesante). Mi guardai intorno per cercare copie della GPL, ma non ne trovai. Immagino che [p. 30 modifica] le stampassero al volo quando qualcuno le richiedeva (e, probabilmente, non era molto frequente). Li ringraziai di nuovo, e me ne andai. Presi un taxi per tornare al MIT, e iniziai a cercare un terminale d’accesso. Trovai un monitor che mostrava le varie stampanti su una mappa del campus. Una di queste era etichettata come “Hayden”. Avevo sentito dire che la biblioteca Hayden aveva dei terminali che potevano essere utilizzati da chiunque, così mi ricordai della collocazione dell’edificio nella mappa, e mi recai lì. C’erano un po’ di macchine Windows disponibili. Lanciai un browser web, e usai un applet Java SSH per accedere al mio server e vedere cosa succedeva. Presto fu il momento di andare. Avevo organizzato un incontro con la mia amica, e studentessa del MIT, Nada Amin, alla gelateria del campus. Mi sedetti con il mio zaino e aspettai, leggendo il materiale GNU per passare il tempo. Mi accorsi che era passata l’ora in cui sarei dovuto partire per prendere l’aereo e ricevetti una telefonata di promemoria da mia madre che mi diceva di muovermi subito. Nadia non si era ancora presentata. Decisi di aspettare ancora un po’, e arrivò. Comprò un gelato per entrambi e chiacchierammo piacevolmente. Alla fine, dissi che purtroppo dovevo ripartire, e presi un altro taxi.

Philip Greenspun, il grande studioso del MIT che, con una sua lezione, riuscì nell’impresa di interessare – e motivare – il giovane e inquieto Aaron, ricorda bene ancora oggi, sul suo blog, quel dodicenne e, soprattutto, le sue incredibili qualità.

Un comitato scientifico composto di eccelsi programmatori – scrive Greenspun – aveva selezionato Aaron tra diverse centinaia di candidati, e nominati, per il premio ArsDigita nell’estate del 2000. All’età di 12 anni, Aaron aveva costruito un sistema informatico utilizzando l’RDBMS Oracle e il nostro toolkit open-source. L’intento del premio era quello di incoraggiarli e metterli in condizione di fare di più. All’epoca, Aaron aveva solo tredici anni. Era alto meno di un metro e cinquanta. E, da allora, ogni volta che qualche informatico si lamentava che il nostro software e/o Oracle fossero troppo difficili da installare, mi veniva naturale rispondere: «Beh, un dodicenne di Chicago ci è riuscito. Con la tua laurea in informatica, e il tuo team di assistenti, spero proprio che anche tu riesca a far funzionare tutto…».

Quell’Aaron bambino/adolescente sarebbe ben presto diventato l’Aaron celebrato in tutto il mondo grazie, proprio, a questa strana combinazione di fattori.

Innanzitutto, l’ossessione per un accesso illimitato alle informazioni e alla conoscenza. Poi, la condivisione del suo modo di lavorare con i suoi pari.

Aveva alle spalle una famiglia che lo amava tantissimo, che gli finanziava gli spostamenti per partecipare ai vari meeting e che lo aiutava a crescere.

Per di più, si trovava a vivere proprio in un momento storico dove si stava costruendo la tecnologia che avrebbe permesso la condivisione dell’informazione in rete. [p. 31 modifica]

E lui fu uno dei primi a percepire la novità, a trarre vantaggio da questo panorama e a usare la sua curiosità, la sua motivazione e il suo carisma per investire tutto il suo tempo nella comprensione, e programmazione, di questo nuovo ambiente.

Gli insegnanti, e il mondo attorno a lui, lo volevano spesso coinvolgere in progetti per bambini. Lui, però, aveva già chiara la visione del mondo tecnologico che sarebbe venuto di lì a poco, e iniziò una ricerca costante di persone come lui, con la sua stessa curiosità e talento. Soprattutto, andava a caccia delle più carismatiche, per costruire qualcosa insieme a loro.

Aveva capito, sin da quando aveva tre anni, come l’informazione, nell’era di Internet, fosse divenuta la valuta più preziosa e, soprattutto, un bene del quale nessuno doveva essere privato.

La cosa che, agli occhi di Aaron, rendeva Internet qualcosa di magico era la possibilità di trovare altre persone con cui connettersi.

Ognuna di queste persone generava pagine e contenuti, e molti di questi contenuti erano interessanti, ed aumentava giorno dopo giorno il numero di informazioni che si potevano trovare online.

Da lì iniziò la sua impazienza che tutto il mondo fosse online, la sua passione per progetti grandissimi, enormi, dove tutto il sapere, in un certo ambito, finisse online. Tutti i libri del mondo. Tutte le sentenze. Tutte le leggi. Tutte le informazioni sui politici. Tutti i documenti pubblici.

Sul suo blog, ricordava spesso questo vero e proprio colpo di fulmine nei confronti della rete di allora.

Ero attratto da Internet – scrive – perché era una cosa da sempre presente nella mia famiglia. Mio padre lavorava con un computer, quindi ne ho posseduto uno praticamente appena nato: era uno dei tanti giocattoli con cui giocare. Ed era diventato subito il mio preferito. Ci sono tantissime cose che potevi creare con le costruzioni, ma con un computer potevi costruire un mondo intero. Interi mondi. Poi, quando è arrivata Internet, non era più solo il tuo mondo. Potevi invitare altre persone a prendervi parte. Io sono nato in un piccolo sobborgo fuori Chicago, e non c’era molta gente nella mia strada. Non avevo molti amici. Invece, con Internet ho potuto conoscere persone sparse in tutto il mondo, discutere degli argomenti cui ero interessato e che a scuola non interessavano a nessuno. Improvvisamente, tutta questa subcultura esisteva in un luogo dove tutti ne erano ossessionati e affascinati. Era così interessante.

Già da bambino, in rete, e grazie a un computer, si stavano formando la sua attitudine e il suo carattere. Sentiva molto forte l’idea che non fosse sufficiente vivere nel mondo così com’è, prendere ciò che viene dato, e seguire le cose che gli adulti, i genitori e la società dicono di fare. [p. 32 modifica]

Iniziava a farsi largo in lui l’idea che tutto si dovesse sempre mettere in discussione, e iniziò a elaborare la sua idea di attitudine scientifica.

Tutto ciò che hai imparato, scriveva spesso Aaron, è solo provvisorio, sempre aperto a essere rifiutato, o discusso di nuovo, o questionabile, o confutato.

E pensava che lo stesso metodo si potesse applicare alla società tutta: una necessità costante di confrontarsi con le persone, per testare tutto quello che si sta facendo.


Nel 2009, a ventitré anni, Aaron si recò in Brasile, e rimase per qualche tempo con Ronaldo Lemos, a quel tempo studioso a capo del progetto Creative Commons Brasile.

In un’intervista, Aaron sintetizzò con grande precisione questo primo periodo della sua vita.

Sono cresciuto come il più grande di tre figli in un piccolo sobborgo nel centro degli Stati Uniti – dichiarò al giornalista – Mio nonno gestiva una piccola azienda di insegne, che mio padre aveva rilevato e trasformato in una piccola azienda di software, quindi, in casa c’erano sempre dei computer. Non c’era molto da fare nella nostra città, ho passato molto tempo a giocare con quei computer. Abbiamo avuto Internet molto presto (nel 1992, o giù di lì) e, da allora, ho trascorso gran parte della mia vita online: leggendo e-mail, partecipando a gruppi di discussione, navigando sul web. La scuola che frequentavo era a sei miglia di distanza, quindi non vivevo vicino a molti dei miei amici. Invece, ho fatto amicizia attraverso Internet.

La conoscenza del mondo della programmazione e delle community fu, per lui, una scoperta rivoluzionaria.

Quando avevo circa 12 anni – ricorda – mio padre andò in viaggio d’affari al MIT e mi portò con sé. Ho trascorso una giornata in una classe di un professore del MIT, Philip Greenspun, che ha spiegato i principi fondamentali per la costruzione di applicazioni web. Ero così entusiasta della lezione, che tornai subito a casa e provai a creare qualcosa. La prima cosa che realizzai fu un’enciclopedia online che chiunque poteva modificare ma, alla fine, lo fecero solo mia madre e i miei amici di scuola. La seconda cosa che feci fu l’elaborare un programma per prendere le notizie da tanti siti di notizie diversi, e combinarle in un’unica pagina in maniera ordinata. All’epoca era piuttosto complicato: ogni sito di notizie aveva un proprio formato con cui le pubblicava, e bisognava scrivere un software che le leggesse a una a una; c’erano, però, alcune persone che avevano iniziato a parlare dell’esigenza di creare uno standard, in modo che ci fosse un solo formato da leggere. Ovviamente, ho iniziato a frequentarle. Naturalmente, essendo un ragazzino, avevo molto tempo libero, così finii per occuparmi sempre di più dello studio e del lavoro su questi temi, fino a diventare uno dei redattori della specifica che divenne nota come RSS 1.0.

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L’occasione di questa intervista gli fece anche spendere alcune parole, e riflessioni, sul suo profilo da bambino.

Quando ero bambino – ricorda – pensavo molto a ciò che mi rendeva diverso dagli altri bambini. Non credevo di essere più intelligente di loro e, di certo, non avevo più talento. E non posso certo affermare di essere un lavoratore più impegnato e diligente: non ho mai lavorato, ho sempre cercato di fare cose che mi divertissero. Invece, ho concluso che ero più curioso, ma non perché fossi nato così. Se osservate i bambini piccoli, sono tutti estremamente curiosi, sempre in esplorazione, e cercano di capire come funzionano le cose. Il problema è che la scuola fa svanire tutta questa curiosità. Invece di lasciarti esplorare le cose da solo, la scuola ti dice che devi leggere particolari, e specifici libri, e rispondere a particolari, e specifiche, domande. E se si cerca di fare qualcos’altro, si finisce nei guai. Sono poche le persone la cui curiosità innata possa sopravvivere a un ambiente di questo tipo. Ma, per un caso fortuito, la mia ce l’ha fatta. Ho continuato a essere curioso, e ho seguito la mia curiosità.

La curiosità, ribadisce, connoterà tutta la sua vita, tracciando un filo che attraversa tutti i suoi progetti.

Prima mi sono interessato ai computer, che mi hanno portato a interessarmi a Internet, che mi ha portato a interessarmi alla costruzione di siti web di notizie online, che mi hanno portato a interessarmi agli standard (come RSS), che mi hanno portato a interessarmi alla riforma del diritto d’autore (dato che Creative Commons voleva utilizzare standard simili). E così via. La curiosità si auto-alimenta: ogni nuova cosa che s’impara, genera ogni sorta di componenti e connessioni diverse, che poi si desidera approfondire. Ben presto ci s’interessa a sempre più cose, fino a quando quasi tutto sembra interessante. E quando è così, imparare diventa davvero facile: si vuole imparare quasi tutto, perché non c’è nulla che non sembri davvero interessante.

Aaron conclude l’intervista con una buona dose di umiltà:

Sono convinto che le persone che definiamo “intelligenti” siano soltanto persone che, in qualche modo, hanno goduto di un vantaggio in questo processo. Mi sembra che l’unica cosa che ho fatto davvero sia stata seguire la mia curiosità ovunque mi portasse, anche se questo ha significato fare cose folli, come lasciare la scuola o non accettare mai un lavoro “vero”. Non è facile – i miei genitori sono ancora arrabbiati con me perché ho abbandonato la scuola –, ma per me ha sempre funzionato.