Abissinia/Capitolo VII
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CAPITOLO VII.
Posizione geografica dell’Abissinia. — Sua divisione in provincie. — Distinzione dei diversi terreni. — Storia del paese e degli abitanti.
A poca distanza da Adua sta Axum, l’antica città santa dell’Abissinia, che naturalmente molto ci premeva di visitare, per cui combinammo l’escursione pel mercoledì 19.
Prima di incamminarci a vedere le rovine dell’antica civiltà, mi pare però giunto il momento opportuno di dire due parole sul paese nel quale stiamo viaggiando.
È cosa assai difficile delineare con una certa precisione i confini geografici dell’Abissinia, ma si può ritenere sotto questo nome la zona che si estende dal 9° al 16° di latitudine nord e dal 36° al 40° longitudine orientale. Confina a nord coi territorii dei pastori Bigias, all’est coi Danakil, a sud coi Gallas e ad ovest col Sennar, ed entro questi limiti la sua superficie può calcolarsi di circa 240,000 chilometri quadrati. Le provincie in cui è diviso questo grande stato sono: il Tigré, che dai confini dell’altipiano etiope, si stende fino al Taccazé: l’Amara, che costituisce un altipiano, che da quest’ultimo fiume declina ad ovest fino al lago Tzana e verso il Sennar: Lasta, che è la parte sud-ovest e la più montuosa: il Goggiam racchiuso dalla curva, vero ferro da cavallo, che fa il Nilo Azzurro, sortendo dal lago Tzana, dirigendosi a sud per piegare ad ovest e terminare il suo corso quasi a nord verso Sennar: lo Scioa, vasto e ricco paese che confina colle tribù Gallas che occupano territorii estesissimi ed in parte inesplorati. La tradizione vuole che i Gallas provengano dal di là del mare, com’essi ancora raccontano, mare che però si ridurrebbe ad uno dei grandi laghi interni, da dove nella loro peregrinazione avrebbero proseguito a nord, allettati dalla fertilità del suolo.
Quasi ognuna di queste provincie usa una lingua speciale, e cioè: il Tigré, il tigrigna, l’Amara l’amarico od amarigna, e le altre il galligna o lingua dei Gallas: lingue tutte che credo però si possano considerare come altrettanti dialetti, ritenuta lingua madre il gheez, od antico idioma del paese, che ora resta solo scritto nei libri sacri e raramente usato nelle divine funzioni.
L’Abissinia è un immenso altipiano che declina a nord-ovest, sostenuto verso il mar Rosso dalla catena detta Taranta. La sua elevazione sul mare è nella media di circa 2000 metri: vi sono poi catene di montagne speciali elevantisi su questo livello, e tali sono quelle del Goggiam dove a 3000 metri d’elevazione ha origine il fiume Abai, che immischiate le sue acque a quelle del lago Tzana, ne esce poi col nome di Nilo Azzurro: quelle del Lasta dove scaturisce il Taccazé, e il gruppo del Semien. Fra questi vi sono monti degni dell’attenzione di qualsiasi alpinista, e Salt narra di aver visto in aprile della neve su due delle vette del Semien: Pearce in ottobre vi fu sorpreso da una nevicata, e Rüppel osservò delle nevi sul Buahat che stima essere 4,800 metri d’altezza.
In paese si danno poi nomi distinti ai terreni, a seconda della loro elevazione, e questo appoggiandosi al genere di produzione di cui sono suscettibili. Così sono detti colla i terreni al disotto dei 2000 metri e deuga quelli al disopra dei 2400: quelli compresi fra queste due altitudini woina-deuga o terreni deuga capaci della coltivazione della vite. Come queste distinzioni sono proprie del paese e ricordate per tradizione, se ne può dedurre come altre volte vi prosperasse la vite, che fu distrutta ovunque per ordine di re Teodoro.
Secondo autori che non hanno solo visitato, ma anche studiato il paese, l’etimologia della parola Etiopia starebbe nelle due greche aito-bruciare e ops-occhio o viso; ed infatti anche oggidì vi è conservato l’uso di abbruciare gli occhi per certe pene. Abissinia, deriverebbe invece da Habesc, che così infatti si pronuncia in paese, e il passo dall’una all’altra non è lungo, ed è vocabolo arabo che significa riunione di diverse famiglie, e sarebbe stato usato in origine dai Mussulmani in segno di sprezzo verso gli abitatori di questa regione, che come credesi vi sono accorsi da diverse parti.
Quanto alla storia del paese, come non si può inventarla nè immaginarla, dirò qualcosa che raggranellai nelle interessanti opere di Bruce, Salt, Rochet d’Héricourt, Ferret et Gallinier, Raffray, per la parte antica, e per la moderna ripetendo alla meglio quanto mi feci raccontare dai pochi che in paese me ne potevano parlare.
Come benissimo osserva Bruce nella descrizione del suo viaggio nell’Africa orientale intrapreso nel 1768, gli storici parlano sempre delle grandi ricchezze dei popoli, raramente curandosi di cercare la fonte di queste ricchezze, ed i viaggiatori trovano negli avanzi delle antiche civiltà a studiare templi e monumenti, ma non trovano mai traccia delle abitazioni e mancano quindi completamente i particolari sugli usi domestici. Questo mette una grande difficoltà allo studioso che vorrebbe, dai confronti fra le civiltà e dalle vie commerciali usate per gli scambii, dedurre la storia delle immigrazioni. Così, ad esempio troviamo, egli aggiunge, nella sacra scrittura, delle descrizioni favolose sull’oro e l’argento che si trovava in Palestina, mentre questo suolo non ne produce, e non si fa menzione alcuna da dove questi preziosi metalli provenissero.
Montesquieu parlando dei tesori di Semiramide immagina le ricchezze dell’Impero Assiro, frutto del saccheggio di altre nazioni vinte, e che gli Assiri a loro volta distrussero e saccheggiarono, e così via, senza però venire a concludere sul paese o sul popolo che primo produceva queste fenomenali ricchezze. Quello che manca nella storia e nelle iscrizioni bisogna dunque trarlo dalla tradizione, ed è per ciò che a questa molto ci affideremo nel nostro proposito.
Vuole una tradizione abissinese che uno dei figli di Noè, spaventato dal diluvio, attraversando l’Egitto, si sia rifugiato sul primo luogo montagnoso incontrato nella sua fuga, e vi si sia stabilito abitando co’ suoi seguaci le caverne, ed i suoi pronipoti avrebbero costrutta la città di Axum poco prima della nascita di Abramo. Estendendo le loro colonie da questo centro, si spinsero poi fino ad Atbara ove si sa da Erodoto che coltivarono assai profondamente le scienze, e furono quindi detti Meroiti o abitanti di Meroe. Fu poi loro guida il Nilo per scendere a fondare Tebe, e si vorrebbe vedere la traccia del loro itinerario nelle grandi grotte abitate che si trovano lungo questo fiume sotto Meroe e sopra Tebe.
Mentre questi avanzavano così verso nord, i loro fratelli progredivano dal sud nelle montagne che si protendono parallelamente al golfo arabico: così divenivano proprietarii degli aromi che producevano quelle ricche terre e vi scoprivano miniere d’oro. In India, non si sa per qual motivo, oro e argento divennero i più cercati oggetti, e presero quindi grande sviluppo le comunicazioni fra questi due popoli avidi dello scambiarsi i proprii prodotti. Trascinato da questa corrente, Sesostri passa con una gran flotta dal golfo arabico all’oceano indiano e apre all’Egitto il commercio dell’India per mare: prima di Sesostri gli Egiziani costruivano le loro imbarcazioni con papiri rivestiti di pelle, ma in onore di questa gran conquista, Sesostri fece costruire un gran naviglio in legno di cedro rivestito in lamina d’oro all’esterno e d’argento all’interno e lo consacrò a memoria del grande avvenimento nel tempio d’Iside.
Le ricchezze ammassate dagli abitanti del sud e il lusso sviluppatosi fra quelli del Nord, che coi loro studii di architettura, astronomia, matematiche, ecc., avevano originata una civiltà, fecero trovar necessario lo scambio, e per questo fare si usarono i pastori, che non avendo dimora stabile non trovarono difficoltà a menare la vita ramminga del commerciante. Con questo mezzo questi accrebbero le loro ricchezze, aumentarono i loro bestiami e i loro territori e si fecero potenti. Loro attributo era di prendere alle coste del Mar Rosso le mercanzie che venivano dalle Indie, e portarle a Tebe e fra i negri del sud-ovest d’Africa, dai quali ricevevano in cambio dell’oro. Tebe divenne assai florida e ricca. I pastori, per questioni religiose e commerciali furono a volte anche nemici dei Tebani, e diventati forti e potenti poterono vantar pretese contro questi, conquistarli, occuparne i troni ed istituire così la serie dei re pastori.
Secondo la cronaca d’Axum fra la creazione del mondo e Gesù Cristo passarono 5500 anni: l’Abissinia non fu popolata che 1808 anni prima di Cristo, e dopo 200 anni, cioè nel 1608 prima della nascita del Salvatore fu sommersa da un gran diluvio. Circa 1400 anni av. G. C. fu invasa da un gran numero di emigranti che provenivano dalla Palestina, parlavano lingue diverse, presero possesso delle terre e vi si stabilirono.
Di questo fatto Bruce darebbe la spiegazione seguente: quando Giosuè passò il Giordano e fece cadere le mura di Gerico, un gran panico dovette naturalmente prendere le popolazioni terrorizzate da questa armata invadente che tutto metteva a ferro e fuoco. Cercarono allora di salvarsi colla fuga, e trova naturale che si rifugiassero presso i pastori etiopi che già conoscevano pei commerci esistenti fra loro.
La regina di Saba, sovrana di quelle contrade, che per legge pare fossero sempre governate da donne, spinta dal desiderio di vedere l’impiego che si faceva dei tesori e delle ricchezze che si esportavano dal suo regno, volle visitare il Principe che le impiegava. Questa regina, secondo gli arabi si chiamava Belkis, secondo gli Abissinesi Maqueda: non si sa bene qual religione avesse, ma la cronaca abissinese la farebbe pagana prima del viaggio, e le fa abbracciare il giudaismo in ammirazione delle massime di Salomone. Lo sfarzo della Corte e la profondità del sapere di questo Sovrano pare abbiano esercitato un certo fascino sulla regina, che ebbe forse un momento d’oblio, come dicono i poeti, e frutto della sua visita fu un figlio cui fu posto il nome di Menilek. Al suo ritorno in patria lo tenne qualche anno con sè, poi lo mandò al padre perchè lo istruisse. Fu unto e coronato re d’Etiopia nel tempio di Gerusalemme, poi tornò a Saba con molti dottori della legge che convertirono gran parte d’Abissinia al giudaismo. Ultimo atto della regina fu il decreto che stabiliva la successione maschile della sua dinastia, con obbligo di relegare su alta montagna tutti quelli della famiglia che avrebbero potuto vantare pretese al trono. Uso questo che ancora oggi è in vigore in Abissinia. La regina dopo 40 anni di regno morì, nel 986 av. G. C., e pretendono gli Abissinesi che la sua stirpe tenga ancora lo scettro.
Il suggello reale abissinese porta infatti un leone al centro, e l’iscrizione mo ansaba am nizilet Salomon am negardé Judé — che dice — il leone della razza di Salomone e della tribù di Giuda ha trionfato.
Da queste note certo assai sconnesse, ma che possono costituire un mosaico di storie e tradizioni sul paese e sugli abitanti, risulta come nella razza abissinese si possa trovar fuso diverso sangue, e cioè quello dei popoli immigrati per commercio dall’estremo oriente, passando per lo stretto di Bab-el-mandeb, dei coloni rimontati dal basso Egitto, dei fuggiaschi dall’Asia Minore, e delle famiglie mandate da Salomone ad accompagnare Menilek. Il fatto è che anche oggidì traspare che appartengono a razza distinta, formano un tipo speciale che per colorito e per lineamenti si stacca da qualunque altro delle tante famiglie che popolano l’Africa, e certo ricordano nei tratti, e qualche volta nei costumi, alcuni dei profili che si vedono incisi nei monumenti dell’antico Egitto.
Aggiunge poi ancora la tradizione, che Menilek, desiderando portare in patria un importante ricordo del paese di suo padre, pensò appropriarsi dal Tabernacolo le tavole della legge. Favorito dai compagni e da circostanze speciali, il piano suo riuscì e fece ritorno in Etiopia con questo prezioso ricordo che seguì sempre la Corte laddove si accampava, finchè ad un’epoca di data incerta, ad esempio di Salomone, si convenne di costruire un tempio in Axum dove conservare il sacro deposito.
Da quest’epoca i sovrani d’Etiopia avrebbero avuto a loro dimora diversi punti, a seconda che le circostanze lo richiedevano, e qualche volta la Capitale sarebbe stata anche Axum, che si trovava sul passaggio delle grandi carovane che dalle coste del Mar Rosso portavano a Meroe le mercanzie provenienti dall’estremo Oriente.
Secondo i loro annali, colla conferma però anche della tradizione, fin da tempo immemorabile gli Abissinesi sarebbero stati retti a sistema feudale con un Atsé o imperatore per sovrano supremo, che doveva essere dei discendenti di Menilek, e il diritto di successione spettava, come vedemmo, al primogenito: pare però che si potesse transigere su questo, qualora o dall’imperatore regnante, sia lui vivente, sia per testamento, o per voto della nazione, era designato altro successore al trono. Al loro avvenimento al trono gli Atsé facevano giuramento di rispettare la libertà del popolo e di uniformarsi agli usi del predecessore.
Il fascino del potere, l’ambizione, lo spirito di dominare, portarono pertanto parecchi di loro ad intraprese che tendevano a limitare i diritti dei sudditi, e questo diede luogo a delle continue lotte, delle quali sgraziatamente si è perduta la storia, e la sola memoria che ne resta è la pretesa che fra un tale caos di guerre intestine, la stirpe di Salomone si sia sempre conservata al potere.
L’imperatore era investito del potere militare, amministrativo, giudiziario e per forma più che altro, anche del religioso.
Come custode della Giustizia era assistito da un consiglio supremo composto di otto giudici, dei quali quattro, la cui nobiltà risaliva agli Ebrei, erano detti Licaonti, e quattro d’origine etiope, eran detti Azzagi. Il loro potere era ereditario, ma legato alla conferma del Re, come pure i loro decreti dovevano essere sanzionati dalla firma sovrana.
Portavano il costume sacerdotale, non avevano armi, dovevano seguir sempre l’imperatore, anche alla guerra.
Nel quarto secolo dell’èra nostra, l’imperatore regnante, unitamente a parte della sua famiglia, abbracciano il cristianesimo importatovi da Frumenzio, e questo fatto dà luogo a nuove guerre e rivolte, dividendo il popolo in due partiti accaniti l’uno contro l’altro, per fanatismo religioso. La nuova fede però si fa presto strada, e i rivoltosi sono costretti di rifugiarsi nelle montagne del Semien, dove continuano a professare il giudaismo e vengono distinti col nome di Felasian o esiliati, che si corruppe poi in quello di Felachas.
Verso il 530, come risulta da una iscrizione in marmo trovata in Axum, il re Caleb o Elesbaan, alleato all’imperatore Giustiniano, fece varie campagne in Arabia contro i Coreisciti e conquistò parte dell’Yemen, da dove dopo sessant’anni gli Abissinesi furono espulsi dai Persiani che li spinsero oltre il Mar Rosso e occuparono un tratto della costa Africana; ma la struttura fisica del suolo, rese atti gli Abissinesi a respingere il nemico che tentava inoltrarsi nell’altipiano etiope.
Al decimo secolo una delle ebree Felachas rifugiate nel Semien, sorge a rivolta e riesce ad impossessarsi del potere che tiene colla sua discendenza per circa 3 secoli; ed a questa epoca la dinastia di Solomone si rifugia allo Scioa.
Usavano i principi Abissinesi fare dei pellegrinaggi in Palestina, ma all’epoca delle crociate se ne astennero, e per compiere un atto di devozione mandarono un loro vescovo a visitare il santo sepolcro. Costui cadde nelle mani dei musulmani che lo forzarono ad abbracciare la loro credenza, e da quest’insulto nacque naturalmente un’accanita guerra fra Abissinesi e Maomettani.
Invogliati i portoghesi di entrare in relazioni con questo paese strano e potente, inviarono Pedro Covilham che nel 1499 si presentò alla Corte del Negus, residente allora allo Scioa, ed ottenne che il sovrano mandasse un ambasciatore in Portogallo. Strette queste amichevoli relazioni, pochi anni dopo si vedono 400 portoghesi alleati agli Abissinesi nel respingere gli attacchi dei musulmani. Erano questi guidati da un semplice cavaliero detto Ahmed, che per ironia fu dai cristiani soprannominato gragne (il mancino), che, fortunato nelle armi e dandosi a rubare e saccheggiare, aveva trovato buon numero di seguaci. I portoghesi erano invece condotti da Cristoforo de Gama, fratello a Vasco, che con molti dei suoi morì prigioniero di Gragne, restando però la vittoria della lotta ai cristiani.
Alcuni missionari cattolici venuti coi portoghesi, cercarono scacciare i cofti, e vedendo fallire questo tentativo li conciliarono invece per poco colla chiesa di Roma, ma la religione primitiva tornò presto a prevalere.
In un paese come questo, dove domina lo spirito di conquista, la tendenza alla rivolta, la frenesia al maneggio delle armi, i diversi partiti religiosi, e dove non fu mai guida lo spirito di unità che deriva dall’educazione e dall’amor proprio, continuarono le lotte intestine che spesso vestivano il carattere religioso, altre volte mantenevano il politico, e sempre erano a decadimento del paese.
In queste guerre fratricide si perde dunque la storia, finchè verso il 1840 si trova ras Aly nell’Amara e ras Ubiè nel Tigrè che sono fra loro in guerra. Il primo vince il secondo, ma lo vuol trattare con troppa generosità, e Ubiè si rivolta nuovamente e riesce a riafferrare il suo trono. Lo Scioa da lungo tempo si era dichiarato indipendente e vi regnava Sahala Selasè, che mostrò di essere proclive alla civiltà e di possedere modi cortesi e cuore aperto, quando si presentò alla sua Corte d’Abbadie. Nelle montagne del Lasta sorge un avventuriero, certo Kassa, che con molto ardire e il favore delle armi batte ras Aly, ne imprigiona la madre, ne sposa la sorella, si impadronisce dell’Amara e si fa proclamare re d’Etiopia, dopo aver fatto assassinare ras Aly; era questi re Teodoro del quale tutti conoscono le gesta. Morì il re dello Scioa e lui colse l’occasione per usurparne il trono, e colla forza dei due regni uniti non trovò grave difficoltà a conquistare anche il Tigrè.
Teodoro, il vero tipo dell’avventuriero, pieno di ardire, di energia e dotato anche di un certo grado di intelligenza, entrò presto nelle simpatie di un popolo, che facilmente si esalta per chi mantiene la guerra e sa condurlo vittorioso alla pugna. Unite le diverse provincie del suo regno e ottenuta la pace, pensò allo sviluppo materiale e morale dei sudditi ed invitò a stabilirsi presso di lui alcuni Europei che conoscessero diverse arti e specialmente quella del fabbricar cannoni e polvere.
Le idee erano buone ed apprezzabili in un individuo che non era mai uscito dai confini di un paese poco meno che selvaggio, ma la gloria e l’avidità della supremazia gli scaldarono presto il cervello, la sua natura rozza e l’indole in fondo forse cattiva, trovando nella sua posizione mezzo a sfogarsi, non conobbero più freno. Si diede all’ubriachezza, commise nefandità che destano ribrezzo al rammentarle. L’uccidere il prossimo era per lui la cosa più semplice, e credeva quasi averne il diritto e farsene merito. Per punire piccole mancanze od anche solo per il capriccio di un momento faceva metter fuoco ad un intiero villaggio obbligando gli abitanti a starsene chiusi nelle rispettive capanne.
Ordinò una volta che si radunassero in una pianura per una data epoca 30,000 buoi e volle in un solo giorno vederli tutti decapitati. Si portò poi come già tutti sanno, cogli artefici europei da lui chiamati, e cogli ambasciatori inglesi inviati dal loro Governo, talchè ne nacque la guerra che gli fu fatale. Fino all’ultimo istante però diede prova del suo carattere fermo e pieno d’amor proprio, col darsi un colpo di pistola alla testa, piuttosto che cader prigioniero dell’esercito nemico. Sono tante e tali le nefandità da lui commesse, che per concepirle in un essere umano e per scusare lui, non si può pensare altro che alla pazzia che lo avesse colpito. Per tal modo la maggior parte dei suoi sudditi lo avevano completamente abbandonato, e come già dissi, all’epoca della guerra inglese il regno da lui riunito era già sfasciato.
Morto Teodoro, l’Abissinia restava così divisa e dominata: il Tigré, di cui era principe Giovanni Kassa, che strinse amicizia cogli Inglesi, lasciando loro libero passaggio sui suoi dominii, e fornendo guide, interpreti, vettovaglie, quanto infine poteva necessitare, dietro promesse di regali e protezione per l’avvenire; l’Amara di cui era principe Gobusié: il Goggiam con a capo ras Desta; lo Scioa capitanato dal padre dell’attuale Menelik, era stato non soggiogato, ma domato fino a pagare un tributo a Teodoro, e, morto questo, lo pagava al re del Goggiam.
Come è naturale, nessuno di questi regnanti era contento di quel che possedeva e mirava ad invadere i territori del vicino. La guerra non tardò infatti a dichiararsi fra Gobusié e ras Desta, e in due battaglie fu decisa la sorte delle armi in favore di Gobusié che distrusse e scompigliò le file del nemico in modo che questi, fuggiasco, si diede alla montagna per continuarvi una guerriglia. Gobusié diede allora la sovranità, od almeno il governo del Goggiam a suo cugino ras Adal. Questi continua le ostilità, sorprende il nemico in una gola di montagne, gli piomba addosso, lo fa prigioniero e incatenato lo porta a Gobusié.
In questo frattempo un’altra guerra era scoppiata in Abissinia. Devo premettere, che per tradizione è privilegio del principe del Tigré di domandare al patriarca d’Alessandria l’Abuna, o vescovo cofto che deve risiedere in Abissinia e che solo ha il diritto di incoronare i sovrani. È uso fare la domanda mediante un’apposita commissione che si reca in Egitto e riporta con gran sfarzo la sacra persona domandata, che deve essere un nero. La tassa e le spese per questa funzione sommano a 25,000 talleri.
Giunto in Abissinia, l’Abuna vi resta come capo supremo della chiesa, durante tutta la sua vita, dimora presso il re od in Axum, e per appannaggio gli è destinata una delle più ricche province, più un tanto da ogni chiesa che sta sotto la sua giurisdizione. All’epoca di cui narriamo le vicende, mancava in paese questa autorità, e Giovanni Kassa, usando del suo privilegio quale principe del Tigré, e di una avvedutezza non comune, pensò procurarselo dicendolo necessario per la sua incoronazione a re d’Etiopia. Gobusié allora, ingelositosi, mostrò le sue lagnanze adducendo che lui pure poteva vantare altrettante pretese al trono d’Abissinia. Ebbene, rispose Kassa, per farti incoronare ti è necessario l’Abuna che tengo presso di me, vieni a prendermelo se puoi, Così fu dichiarata la guerra, e il vincitore fra i due pretendenti doveva cingere l’ambita corona. In questo spazio di tempo appunto ras Adal aveva consegnato, incatenato, ras Desta a Gobusié. La guerra, che in questi paesi si riduce ad una o due battaglie laddove le due armate marciando una contro l’altra si incontrano, si portò nelle alture fra Adua e Axum e la vittoria fu a re Giovanni, quantunque questi si dice non avesse che 12,000 uomini e l’altro fosse forte di un’armata di circa 60,000. Gobusié e ras Desta caddero prigionieri e il primo fu pure ferito. Torna qui a proposito ripetere un episodio che qualifica il carattere fiero di questo popolo; re Giovanni, che era cognato a Gobusié, avendo riguardo anche alle sue ferite, volle trattarlo generosamente, lo fece raccogliere sul campo di battaglia e ricoverare con ogni cura in un tenda vicina alla sua, dove spesso andava a trovarlo. In una di queste visite, Gobusié gli disse: tu pretendi essere re d’Abissinia, ma dovresti prima di vantare tanto, studiare la storia dei tuoi avi ed arricchirti tanto da poter fare quello che hanno sempre fatto i veri sovrani del nostro paese. Re Giovanni non sapeva comprendere la stranezza di questo linguaggio, e Gobusié soggiunse; sappi che in Etiopia si usò sempre incatenare i re prigionieri con catene d’oro; ma tu l’ignori o non sei abbastanza ricco per farlo.
Kassa si trovò punto da questa osservazione, mandò subito una grossa catena di ferro da Naretti, che allora era da poco arrivato in paese e vi si trovava ancora coi compagni artefici, pregandolo trovar modo di renderla come fosse argento. Fortunatamente, negli arnesi portati v’era il necessario, e l’operazione fu subito eseguita. Kassa si presentò allora al cognato e disse: se i re d’Etiopia si legavano con catene d’oro, credo già far molto mettendo in catene d’argento chi voleva esser re, ma non riuscì a diventarlo. E con questo, appena fu ristabilito dalle ferite, lo mandò alla montagna dove morì or fanno quattro anni.
Re Giovanni poi trovando più giusto di favorire ras Desta che non ras Adal, forse perchè il primo aveva maggiori diritti al principato, mentre il secondo aveva il demerito d’essere cugino di Gobusié, levò le catene a ras Desta e lo nominò ras del Goggiam. A ras Adal non restò altro che ritirarsi, ma non per starsene tranquillo; con quelli che gli rimasero fedeli mosse guerriglia a ras Desta, lo sconfisse e uccise, poi si presentò a re Giovanni professandoglisi amico, dichiarandogli non aver mai avuto astio contro di lui, ed aver solo agito in tal modo perchè riteneva sacre le sue pretese al principato del Goggiam, e ora che l’intento suo era raggiunto, gli si sottometteva giurandogli fedeltà ed ubbedienza. Re Giovanni accettò queste dichiarazioni, lo confermò re del Goggiam e lo annovera ora fra i suoi più devoti amici e vassalli.
Giovanni Kassa intanto, con gran pompa, nel dicembre del 1871 si faceva coronare re d’Abissinia in Axum. Il Naretti fu incaricato della costruzione del trono e della direzione dei preparativi per le feste che ci disse furono splendide, come lo possono essere in tal paese. Le due cose che certo meritano maggiormente d’essere ricordate, sono l’accorrere di un numero favoloso di sudditi e la presentazione, il sagrificio e la consumazione di un numero stragrande di buoi, con una gazzarra infernale.
Veniamo ora al secondo periodo delle guerre del regno di re Giovanni. La questione si fa molto delicata per un intervento e per certe intelligenze segrete fra la Corte dello Scioa e quella del Cairo, che gli Abissinesi vogliono ammettere, ma gli Egiziani decisamente negano.
Io sono ben lungi dal volermi fare lo storico di questo paese, che ben poco merito ne avrei d’altronde per me e nessun vantaggio per gli altri, solo mi faccio narratore delle opinioni che sono in paese. I fatti nessuno li cambia, le apprezzazioni saranno vere o ispirate da spirito di parte o da soverchia animosità, io non intendo farmene giudice nè garante. Nega l’Egitto le sue 1. Bottiglia e bicchiere di corno - 2. Paniere - Tavola - 3. Scarpa da donna in gran costume - 4. Cetra - 5. Lance intelligenze segrete con Menelik? Spogliate il mio racconto della parte che riguarda questo soggetto e vi resterà la pura verità storica dei fatti.
Causa delle guerre che ora vado a narrare, è la pretesa del re dello Scioa di essere lui il solo discendente del ramo diretto da Salomone, e quindi le sue pretese al trono di Etiopia.
Quando, or fanno quattro anni, avvenne la guerra cogli Egiziani, che fu finita collo sterminio del Mareb e di Guda Guddi, si pretende vi fosse una intelligenza fra lo Scioa e l’Egitto per attaccare i primi a sud e i secondi a nord, ma gli Scioani non arrivarono in tempo, chè come vedemmo la guerra non si protrasse e in pochi giorni fu troncata col massacro completo degli Egiziani. Tre mesi dopo il Governo del Kedive organizzò la seconda e più forte spedizione, che invece d’ottenere rivincita ebbe pure sì triste sorte nelle giornate di Gura, e pretendono gli Abissinesi che allora fosse delegato Munzinger pacha a portarne la notizia a Menelik, perchè dal canto suo egli pure avanzasse. Avvenne che questo messo, come sappiamo, fu massacrato per via dai Somali, quindi allo Scioa non giunse la sua ambasciata, ma la notizia invece della prima vittoria riportata da re Giovanni a Gundet. Menelik allora, invece d’avanzare da nemico, fingendo rallegrarsi per l’importante trionfo, mandò 500 cavalieri e dei doni a re Giovanni. Questi arrivarono appunto quando il paese veniva invaso dalla seconda spedizione egiziana, ed ecco come alla battaglia di Gura erano presenti questi pochi alleati, che senza tanti contrattempi sarebbero invece stati piccola parte di un esercito nemico che doveva attaccare alle spalle, mentre l’azione di fronte era già impegnata coll’egiziano.
Assopiti per un momento tutti i rancori, pareva che la pace fosse assicurata, quando or fanno circa tre anni un’altra alleanza è stretta fra Menelik e l’Egitto. Quest’ultimo lo incoraggia a spingersi su Gondar, dove se le sue truppe sono vincitrici, sarà coronato re d’Abissinia, e se le sorti sono avverse si verrà in suo aiuto invadendo dal Galabat.
Menelik col suo esercito si avanza infatti, raggiunge Debra-Tabor e si accinge a procedere nel Goggiam e su Gondar. Come le cose erano combinate, se pur lo erano, poteva certo esser questo un cattivo quarto d’ora per re Giovanni, ma la sua stella si mostrò questa volta più lucente che mai; raccoglie il suo esercito e passando pel Semien marcia verso il Gondar per sorprendervi l’invasore, quand’ecco che la guerra fra Russi e Turchi prende proporzioni gigantesche e volge sfavorevole pei secondi. Questo avvenimento ebbe grandissima importanza sulle sorti di Abissinia, chè, dovendo il Kedive mandare le sue migliori truppe al Sultano, non potè tenere un corpo d’esercito impegnato nelle pianure di Metemma, e Menelik vedendosi così abbandonato, non ebbe più confidenza nelle sue forze e battè in ritirata passando al Goggiam, dove portò lo sterminio, saccheggiando, massacrando e amputando quanti poteva, e fra l’altre volle far sua la donna di ras Adal che pare fosse di rinomata bellezza e d’altrettanto buon cuore. La moglie, che lo seguiva, ingelositasi, non fece rimostranze apparenti al marito, ma dicendosi poco sicura in questo paese nemico, dichiarò di voler rientrare in patria facendosi per maggior garanzia scortare da buon numero di truppe. Tutto questo però non era che una finta, e giunta ai confini cominciò a svolgere il suo piano di vendetta.
Proseguì verso la capitale, annunciò che Menelik era stato sconfitto e ucciso, si proclamò regina dello Scioa, mise in libertà molti di sua famiglia che il marito per tema o per gelosia teneva incatenati alla montagna, e mandò persino ambasciatori a re Giovanni per trattare la pace in nome suo, ma questi rispose che non era uso trattare con donne e voleva direttamente il re.
Il governatore lasciato da Menelik durante la sua assenza, prestò per altro poca fede alle notizie portate dalla pseudo-regina e invece di sottometterlesi, avuta notizia che il suo re viveva e si avvicinava, radunò quante truppe potè, le mosse battaglia, la vinse, incatenò e consegnò al Sovrano che sopraggiunse poco dopo. Mentre allo Scioa si svolgeva questa pagina di storia che merita solo titolo di aneddoto, Menelik andava continuamente ritirandosi, e re Giovanni lo inseguiva, finchè ebbe percorso quasi tutto il paese e andò ad abitare il palazzo del re nemico alla sua capitale. Qui si finì per conchiudere la pace che diede tutta l’Abissinia sotto lo scettro di re Giovanni, e pacificata, tranne qualche rivoltato che continuò ancora per qualche tempo le sue guerriglie, considerate però come attacchi da briganti più che campagne da nemici. Fra questi, il più importante fu certamente Woldi Michael, che per tre anni tenne in rivoluzione tutta la provincia dell’Amassena, ed anche questo si pretende dagli Abissinesi che fosse istigato, anzi espressamente stipendiato dagli Egiziani.
Colla pace conchiusa, Menelik conservò il suo titolo di re dello Scioa, anzi re Giovanni gli fece dono di una splendida corona, ma si dichiarò tributario del re dei re, obbligandosi a pagargli un annuo tributo ed a fornirgli buon contingente di truppe in caso di guerra. Re Giovanni poi, quasi per mostrargli come non lo temesse, invece di disarmarlo, come forse avrebbe fatto un sovrano in Europa, gli fece dono di 200 fucili per le truppe e di qualche cannone.
Nelle trattative pel tributo, fu una gara di cortesia e di generosità finissime, che nel fondo corrispondevano ad altrettante punture che si davano l’un l’altro questi due che nel cuore nutrivano odio reciproco, ma apparentemente dovevano mostrarsi fratelli, dei quali uno era vincitore e superbo, l’altro vinto e avvilito, ma per cavalleria volevano nascondere questi sentimenti e fingere la più schietta amicizia e indifferenza. Così Menelik fu il primo a fare la proposta, ed enumerò tale quantità di cose che avrebbe voluto annualmente mettere ai piedi del suo nuovo so vrano, che questi insospettitosi forse della finezza che vi si nascondeva ed impuntigliatosi ad essere ancora più grande, dichiarò essere pienamente soddisfatto di un tributo di gran lunga inferiore, e così si conchiuse.
Venuto però il giorno del pagamento, re Menelik presentò appuntino il convenuto, poi a titolo di regalo per simpatia e ammirazione, fece sfilare avanti a re Giovanni molto più ancora di quanto pel primo gli aveva proposto. Alcuni del seguito mi raccontavano favolosa la massa di roba presentata, e pretendono impiegasse tre giorni a sfilare davanti a re Giovanni.
Tutto consisteva in buoi, vacche, capre, mule, cavalli, talleri, avorio, biade e grani, tende nere tessute in paese, miele, burro.
L’atto di sottomissione si dovette compiere con tutte le formalità d’uso, e cioè radunata la Corte, il vinto si deve presentare chinato dal peso di una pietra che porta sulle spalle.
Il vincitore leva, od ordina che si levi quella pietra, e Menelik potè allora alzar la fronte davanti a re Giovanni e al suo seguito, chè in quel momento devono tutti alzarsi in segno di saluto e d’amicizia al nuovo confratello. Ras Adal, che nella ritirata di Menelik attraverso al suo stato aveva avuti tanti maltrattamenti, dichiarò che mai non si sarebbe alzato davanti a costui che per lui era nemico giurato per tutta la vita. Per quanto le etichette di Corte lo richiedessero, assolutamente si dichiarò pronto a perdere posizione e vita piuttosto che umiliarsi a tanto, e come re Giovanni teneva a che figurasse nel momento del ricevimento solenne, si conchiuse che ras Adal starebbe ai piedi del suo re, facendogli delle proprie gambe sgabello, come si usa in paese. Con questo potè figurare fra i fidi di re Giovanni ed evitare di alzarsi davanti al suo più gran nemico.
AXUM