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Capitolo settimo. 123

cervello, la sua natura rozza e l’indole in fondo forse cattiva, trovando nella sua posizione mezzo a sfogarsi, non conobbero più freno. Si diede all’ubriachezza, commise nefandità che destano ribrezzo al rammentarle. L’uccidere il prossimo era per lui la cosa più semplice, e credeva quasi averne il diritto e farsene merito. Per punire piccole mancanze od anche solo per il capriccio di un momento faceva metter fuoco ad un intiero villaggio obbligando gli abitanti a starsene chiusi nelle rispettive capanne.

Ordinò una volta che si radunassero in una pianura per una data epoca 30,000 buoi e volle in un solo giorno vederli tutti decapitati. Si portò poi come già tutti sanno, cogli artefici europei da lui chiamati, e cogli ambasciatori inglesi inviati dal loro Governo, talchè ne nacque la guerra che gli fu fatale. Fino all’ultimo istante però diede prova del suo carattere fermo e pieno d’amor proprio, col darsi un colpo di pistola alla testa, piuttosto che cader prigioniero dell’esercito nemico. Sono tante e tali le nefandità da lui commesse, che per concepirle in un essere umano e per scusare lui, non si può pensare altro che alla pazzia che lo avesse colpito. Per tal modo la maggior parte dei suoi sudditi lo avevano completamente abbandonato, e come già dissi, all’epoca della guerra inglese il regno da lui riunito era già sfasciato.

Morto Teodoro, l’Abissinia restava così divisa e dominata: il Tigré, di cui era principe Giovanni Kassa, che strinse amicizia cogli Inglesi, lasciando loro libero passaggio sui suoi dominii, e fornendo guide, interpreti, vettovaglie, quanto infine poteva necessitare, dietro promesse di regali e protezione per l’avvenire; l’Amara di cui era principe Gobusié: il Goggiam con a capo ras Desta: lo Scioa capitanato dal padre dell’attuale Menelik, era stato non soggiogato, ma domato fino a pagare un tributo a Teodoro, e, morto questo, lo pagava al re del Goggiam.