È tutto bene quel che a ben riesce/Atto quinto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUINTO
SCENA I.
Marsiglia. — Una strada.
Entrano Elena, la Vedova e Diana con due domestici.
El. Certamente sarete stanca di correr così per la posta giorno e notte, nè fare si poteva altrimenti; ma poichè mi avete già dati tanti giorni e tante notti, e poichè avete esposte le vostre membra delicate a tante fatiche per rendermi servigio, armatevi di coraggio. La vostra bontà sta così profondamente scolpita nel mio cuore, che nulla potrà scancellarla. In tempi più lieti..... (entra un gentiluomo) Quel gentiluomo potrebbe ottenermi una udienza dal re, se volesse usare del suo credito. — Il Ciel vi salvi, signore!
Gent. E voi pure, madonna.
El. Io vi ho veduto, signore, alla corte di Francia.
Gent. Colà ho passato un po’ di tempo.
El. Spero, signore, che vi durerà quella fama di cortese che là godevate; e poichè ho un gran bisogno dei vostri soccorsi, senza altri preamboli vi offrirò tosto occasione di esercitare la virtù della vostr’anima, facendovi con ciò sicuro della mia eterna riconoscenza.
Gent. Che cosa desiderate?
El. Che vogliate avere la bontà di consegnare questo piccolo memoriale al re, e mi aiutiate col vostro credito per ottenere il favore dì essergli presentata.
Gent. Ma il re non è qui.
El. Non è qui, signore?
Gent. No in verità: egli è partito l’altra notte scorsa con sollecitudine straordinaria.
Ved. Gran Dio! è perduta ogni nostra fatica.
El. È tutto bene quel che a ben riesce; quantunque la sorte ne sembri così contraria. — Di grazia m’insegnereste dov’è andato?
Gent. Da quel che ho inteso, si è posto in via per Rossiglione dove vado io pure.
El. Ve ne supplico, signore, poichè probabilmente voi vedrete il re prima di me, raccomandategli questo memoriale; non che alcun biasimo da ciò possa venirvi, spero invece ch’ei ve ne ringrazierà. Arriverò dopo di voi con tutta quella fretta che mi sarà possibile di usare.
Gent. Sarete obbedita.
El. Voi ne avrete ringraziamenti; senza quel di più che potrà forse accadere. - Rimontiamo a cavallo, e apprestiamoci a questo nuovo viaggio,(escono)
SCENA II.
Rossiglione. — Il cortile del palazzo della Contessa.
Entrano il Villico e Parolles.
Par. Buon messer Savatch, date questa lettera a monsignor Lafeu. Fui altra volta meglio riconosciuto da voi, allorchè vestivo abiti più splendidi e più belli; ma oggi caduto come sono nella fossa della fortuna e infangato, tramando l’odore della mia disgrazia.
Vil. Le disgrazie della fortuna devono essere bene sconcie se esali l’odor cattivo che dici. Mettiti sotto vento. Su via, allontanati.
Par. Ve ne supplico, consegnate questa lettera.
Vil. Allontanati, ti dico; non darò carte sfortunate ad alcun gentiluomo! Ma mirate che viene egli etesso (entra Lafeu). Ecco un favorito della fortuna, signore, un seguace della fortuna, che è caduto in una pozzanghera; da cui, com’egli stesso dice, è uscito tutto infangato. Vi prego di trattarlo come meglio potrete, perch’io compatisco alle sue disgrazie col sorriso della consolazione, e l’abbandono alla vostra grandezza.(esce)
Par. Monsignore, io sono un uomo, cui la fortuna ha crudelmente trattato.
Laf. E che volete ch’io vi faccia? Qual è la frode da voi commessa, perchè la fortuna vi abbia abbandonato; ella che è tanto buona, sebbene non tolleri che i malandrini prosperino lungamente al suo servizio? Prendete, ecco un quarto di scudo; i giudici di pace vi riconcilino colla sorte; io ho altri affari.
Par. Supplico Vostro Onore di ascoltare almeno una parola.
Laf. Volete un altro quarto di scudo? Eccolo: ma tacete.
Par. Il mio nome, signore, è Parolles.
Laf. Voi volete dunque dire più d’una parola? Ebbi troppa fretta! Datemi la vostra mano. Come sta il vostro tamburo?
Par. Oh mio signore! voi foste il primo che mi trovaste...
Laf. E egli vero? Fui dunque anche il primo che ti perdei.
Par. Non dipende che da voi, signore, il rimettermi un po’ in grazia; perocchè voi solo me ne cacciaste.
Laf. Via, malandrino, dovresti arrossire. Vuoi tu ch’io sia in pari tempo Dio e il diavolo? Che l’uno ti faccia ottenere favori e l’altro te li tolga? (squilli di trombe) Ecco il te che giunge: lo riconosco a questi suoni. Miserabile, anche ieri sera ho parlato di te, e sebben sii un tristo, ti resterà di che mangiare. Vien meco.
Par. Lodo Iddio per cagion vostra. (escono)
SCENA III.
La stessa. — Una stanza nel palazzo della Contessa.
'Squillo di trombe. Entrano il Re, la Contessa, Lafeu, Signori, Gentiluomini, guardie, ecc.
Re. In lei perdemmo un gioiello prezioso; e si fatta perdita ne ha impoveriti assai; ma vostro figlio, fatto traviare dalla sua follia, non ha abbastanza sentito tutta l’estensione del di lei merito.
Cont. È cosa fatta, mio re, e scongiuro Vostra Maestà di riguardare tal fallo come effetto della troppa giovinezza che, accendendo il sangue, spegne la ragione.
Re. Onorata signora, ho tutto perdonato, tutto dimenticato, sebbene la mia vendetta stesse per iscoppiare.
Laf. Debbo dirlo, se Vostra Maestà vuole permettermelo; il conte ha crudelmente offeso il suo re, sua madre e la sua sposa, ma è a se stesso che ha fatto il maggior danno, perdendo una moglie le di cui attrattive faceano meravigliare i più avvezzi a contemplare la beltà; e la di cui dolce voce si cattivava l’orecchio di tutti coloro che l’ascoltavano. Essa possedeva tante vìrtù, che i cuori più superbi e più della schiavitù nemici s’inorgoglivano di poterle ubbidire.
Re. L’elogio dell’oggetto che si è perduto ne rende la memoria anche più cara. Ebbene, fatelo venire; noi siamo riconciliati, e il primo nostro colloquio cancellerà tutto il passato. Ch’ei non si mostri però per chiedermi grazia; il motivo delle sue offese non esiste più, e noi sepelliamo il resto della nostra collera nell’abisso più profondo: ch’ei venga come uno straniero, e non come un reo: tale è la nostra volontà.
Un Gentiluomo. Questo gli esporrò, signore. (esce)
Re. Che dic’egli di vostra figlia? Gliene avete parlato?
Laf. Dice che è in tutto disposto ad obbedir Vostra Maestà.
Re. Vi saranno donque nuovi sponsali. Ho ricevuto lettere che lo cuoprono di gloria. (entra Beltramo).
Laf. E sembra lieto.
Re. Io non sono immutabile, e sulla mia fronte tu puoi vedere nel medesimo istante splendere il sole e ruggire la tempesta. Ora le nubi si disperdono, e cedono il posto al più fulgido giorno: avvicinati, il Cielo ha ripreso la sua serenità.
Bel. Oh mio caro sovrano! perdonatemi i falli che ho espiati col più profondo pentimento.
Re. Tutto è dimenticato. Non si parli più del passato. Afferriamo pei capelli il presente che fugge perchè siamo vecchi, e sui nostri disegni più solleciti il tempo scorre senza rumore, e gli annulla prima che siano attuati. Voi ricorderete la figlia di questo signore?
Bel. Con ammirazione la rimembro, mio re. Io l’aveva scelta nel cuore prima che la mia bocca osasse dichiararlo; e dalla viva impressione ch’ella mi aveva fatta, io non vidi più le altre donne che col telescopio del disprezzo che le sfigura, e ne offusca le più belle doti: da ciò provenne che quella, di cui tutti tessono le lodi, e ch’io stesso ho cominciato ad amare poichè l’ho perduta, spiaceva a’ miei sguardi, e pareva al mio occhio una macchia, un fuscello che l’offendesse.
Re. Ben vi scusate. L’amore, di cui ardete ora per lei cancella una gran parte delle vostre colpe; ma l’amore che viene troppo tardi (simile al perdono della clemenza recato all’infelice condannato quando non è più in tempo) diventa un rimprovero acerbo per colui che lo prova, e non gli è che di perpetuo rimorso. Nelle nostre temerarie prevenzioni, noi non sappiamo fare alcuna stima degli oggetti preziosi che possediamo, e non impariamo a sentirne il prezzo, che all’orlo del sepolcro. Spesso i nostri risentimenti crudeli verso di noi medesimi distruggono i nostri amici, e ne fan poscia versar vani pianti sulle loro ceneri. E mentre l’odio si addorme, l’amicizia si desta e piange veggendo le sventure accadute. Queste riflessioni servono d’elogio funebre alla sfortunata Elena; ed ora obbliamola. Rivolgi tutto il tuo amore verso la bella Maddalena; ogni consenso è ottenuto, e qui resterò finchè queste seconde nozze abbiano posto fine alla tua vedovanza.
Cont. Possa questa seconda unione esser più felice della prima! — Cielo! degnati benedirla, o fammi morire prima che essa abbia effetto.
Laf. Vieni, mio figlio, tu, in cui deve perpetuarsi il nome della mia famiglia. Dammi qualche pegno di tenerezza che splenda agli occhi della figlia mia, e che l’induca a venir qui tosto. (Belramo gli dà un anello). Per la mia vecchia barba, e pel resto dei miei bianchi capelli, sparsi sulla mia fronte, l’estinta Elena era una vaga creatura. Fu un anello simile a questo che le vidi in dito l’ultima volta che ella si accomiatò dalla Corte.
Bel. Questo non le appartenne mai.
Re. Mostrate, ve ne prego, perchè il mio occhio quando io le parlava si affiggeva spesso sopra quell’anello, che un tempo fu mio, e ch’io le donai, raccomandandole che, se mai si fosse trovata in circostanze da abbisognare de’ miei soccorsi, si facesse riconoscere con esso, ch’io tosto l’avrei aiutata. Sareste voi stato così crudo da toglierle un dono della mia riconoscenza, il di cui possesso era per lei della più alta importanza?
Bel. Mio augusto sovrano, checchè vi piaccia di crederne, codesto anello non fu mai suo.
Cont. Mio figlio, sulla mia vita! io l’ho veduto a lei, e al pari ella sua vita essa lo amava.
Laf. Son certo ch’ella lo aveva.
Bel. Errate, ella non l’ha mai neppur visto. Fu a Firenze che mi venne gettato da una finestra, avvolto entro un foglio dove stava scritto il nome di colei che me lo dava, e che mi credeva stretto ad essa per sempre. Ma quand’ebbi consultato il mio onore, e ch’ella fu pienamente istrutta che io non potevo corrispondere alle intenzioni onorevoli che ella nutria a mio ritardo, cessò allora dal perseguitarmi, e si arrese con dolore alla necessità, ma non volle mai riprendere il suo anello.
Re. Pluto stesso, a cui è nota l’arte dell’alchimia ed ogni altro segreto di natura, non ha un conoscimento pari al mio di questo anello. Esso era mio, e poi fu d’Elena, qualunque sia quegli che a voi lo diede; e mi dovete chiarire con qual violenza fu tolto dalle sue mani. Ella aveva presi tutti i santi a testimonii che tratto non se lo sarebbe mai dal dito che per darlo a voi stesso in quel letto nuziale, in cui voi non siete entrato, che soltanto lo avrebbe mandato a me nelle sue maggiori strettezze.
Bel. Ella non l’ha mai neppur veduto.
Re. Quanto è vero che amo l’onore, tu non dici la verità, e fai nascere in me gravi sospetti. Se è vero che tu sei stato tanto barbaro... ma ciò pon può essere; e nondimeno... Tu la odiavi mortalmente, ed ella è morta, e nulla me ne può convincere di più che la vista di questo anello. — Guardie, impossessatevi di costui, (le guardie obbediscono) Qual che siasi l’evento, l’esperienza che ho del passato mi giustifica abbastanza dal rimprovero di troppa credulità, e se sono colpevole di debolezza è per non avere abbastanza ascoltati i miei timori. Sia condotto altrove. Vogliamo approfondire questo mistero.
Bel. Se rìescite a provare che questo anello era di Elena, proverete del pari ch’io son giaciuto con lei a Firenze, dove ella non ha mai posto piede. (esce fra le guardie; entra un gentiluomo)
Re. Son pieno di sospetti.
Il Gent. Generoso monarca, ignoro se ho fatto bene o male, ma eccovi la supplica di una Fiorentina, a cui diversi ostacoli hanno impedito di venir da se stessa al vostro cospetto. La presi, intenerito dalle grazie di quell’infelice supplicante, che so essere già arrivata in questi luoghi. Si vede ne’ suoi sguardi inquieti l’importanza della sua inchiesta: e con voce commovente ella mi ha detto in poche parole cne Vostra Maestà stessa era in questa interessata.
Re. (leggendo) «Dopo mille proteste di sposarmi allorchè sua moglie fosse morta, arrossisco dicendolo, egli mi ha sedotta. Ora il conte di Rossiglione è vedovo, la sua erede è meco impegnata, ed è a luì che il mio onore è stato immolato. Egli è partito di nascosto da Firenze, senza prender congedo da alcuno, e lo seguo nella sua patria per ottenervi giustizia. Rendetemela, sire; voi lo potete; altrimenti un seduttore trionferà, e una povera fanciulla sarà per sempre infelice.
Diana Capuleto».
Laf. Comprerò piuttosto un genero al mercato, che prender questo.
Re. Bisogna dire che il cielo ti protegga, Lafeu, avendo scoperta in tempo questa nuova colpa. Si trovi l’infelice, e sia qui ricondotto anche il conte. (esce il Gent. con alcuni del seguito) Temo, signora, che la vita non sia stata crudelmente tolta alla povera Elena.
Cont. Ebbene, giustizia sui colpevoli. (entra Beltramo fra le guardie)
Re. Stupisco, che le donne siano per voi oggetti così spaventosi, che vi affrettiate a fuggirle tosto che avete fatto loro le promesse più sacre, e che nondimeno pensiate ad ammogliarvi. — (rientra il Gentiluomo colla Vedova e Diana) Chi è quella donna?
Diana. Sono un’infelice Fiorentina, signore, discesa dagli antichi Capuleti. La mia preghiera da quel che so vi è già nota, e voi conoscete quant’io sìa degna di pietà.
Ved. Io, sire, sono una madre, io di cui l’età e l’onore han tanto sofferto degli oltraggi di cui ci lagniamo qui in presenza vostra; e entrambe moriremo se non venite in nostro soccorso.
Re. Avvicinatevi, conte. Conoscete queste donne?
Bel. Mio principe, non posso e non voglio negare di conoscerle. M’incolpano esse di qualche cosa?
Diana. Perchè ostentate di non ravvisare la vostra sposa?
Bel. Ella non è nulla del mio, mio re.
Diana. Se voi vi ammogliate, mi toglierete una mano che m’impegnaste; spenderete promesse che furono consacrate solo a me; e me da me dividerete, perchè i vostri giuramenti ne han talmente legati, che non possiamo omai più separarci l’una dall’altro.
Laf. La vostra riputazione scema ad ogni istante, e io non vi darò più mia figlia; voi non siete partito idoneo per lei.
Bel. Quella è, mio principe, una pazza impudente con cui solo celiai qualche volta. Vostra Maestà abbia un’idea più nobile del mio onore, e non creda ch’io volessi abbassarmi tanto.
Re. Signore, voi non otterrete la mia approvazione fino a che le vostre opere non l’abbiano meritata. Provatemi che il vostro onore è al disopra dell’opinione ch’io ne porto.
Diana. Buon re, ditegli di giurare ch’ei non mi ha sedotta.
Re. Che rispondete?
Bel. Che è un’impudente; che era una miserabile che si prostituiva a tutto il campo.
Diana. Ei m’oltraggia, sire. Se questo fosse, ei m’avrebbe comprata ad un vil prezzo. Non gli crediate. Gettate gli occhi sopra questo anello, a cui niuna ricchezza è paragonabile; ebbene, egli lo ha dato alla prostituta di tutto un esercito.
Cont. Il rossore lo tradisce e palesa la sua onta. Quel diamante era stato trasmesso per sei generazioni di padre in figlio. Invano egli lo nega; ell’è sua moglie, e quell’anello val mille prove.
Re. Avete detto, mi sembra, di aver veduto taluno qui in Corte, che potrebbe farne testimonianza?
Diana. È vero, signore, ma mi ripugna di produrre un testimonio vile, come è Parolles.
Laf. Ho incontrato anch’io quell’uomo oggi, se pure gli si può dare il nome di uomo.
Re. Trovatelo e fatelo venir qui.
Bel. Che volete da lui? Egli è già conosciuto pel più abietto scellerato, per mille azioni perfide e disoneste; e la verità non può essere detta da lui. Mi condannerete sopra la testimonianza dì un tal miserabile?
Re. Ma ell’ha quest’anello che è vostro.
Bel. Ciò non nego; ma vero è altresì ch’io non mi sono invaghito di lei, che per un capriccio di giovinezza. Ella conosceva la distanza che vi era fra lei e me, e per attirarmi con più certezza nelle sue reti, accese i miei desiderii coi rifiuti, come avviene che tutti gli ostacoli che si oppongono alla passione non servano che ad accrescerne l’ardore. Così adoprando mi fè’ sborsare il prezzo che voleva, ed io ottenni quello che ogni altro avria conseguito a volgarissimo prezzo.
Diana. Giova ch’io sia paziente. Voi che avete rigettata una sposa rispettabile potete ben del pari privarmi dei miei diritti sopra di voi. Vi prego nondimeno (perocchè voglio a voi rinunziare dacchè niuna virtù possedete) di mandar, a cercare il mio anello; e se me lo restituite, vi renderò il vostro.
Bel. Non l’ho più.
Re. Che anello era questo, ve ne prego?
Diana. Simile molto, signore, a quello che voi portate in dito.
Re. Conoscete quest’anello? Esso fu un tempo del conte.
Diana. E fu quello ch’io gli diedi allorchè giacque meco.
Re. È dunque falso, che voi glielo gettaste da una finestra.
Diana. Ha detto la verità. (entra Parolles)
Bel. Confesso, signore, che questo anello fu suo.
Re. Tu sei molto commosso e tremi. — È quello l’uomo di cui mi parlavate?
Diana. Quello, signore.
Re. Dimmi tu dunque, ma dimmi il vero, io te lo comando, e non aver timore dei crucci del tuo padrone, da cui io saprò difenderti se sei sincero. Cosa sai tu che sia occorso fra lui e quella fanciulla?
Par. Colla grazia di Vostra Maestà, il signor mio è sempre stato un onoratissimo cavaliere. Solo ei si è piaciuto talvolta in quelle cose, che piacciono a tutti i giovani signori.
Re. Al fatto. Ha egli amato questa giovine?
Par. Sì, mio signore, l’ha amata.
Re. Ma in qual guisa l’ha amata?
Par. Come i gentiluomini sogliono amare le donne.
Re. Che volete dire?
Par. Che l’amava e non l’amava.
Re. Come tu sei e non sei un furfante, non è vero? Che mariuolo è costui coi suoi equivochi!
Par. Sono un pover’uomo ai servigi di Vostra Maestà.
Laf. É un buon tamburo, signore, ma un cattivo oratore.
Diana. Sapete voi ch’ei promettesse di sposarmi?
Par. Veramente ne so più che non vorrei dire.
Re. Non vuoi tu dunque esporre tutto quello che sai?
Par. Lo dirò, se tale è il volere di Vostra Altezza. Io fui confidente d’entrambi loro, come vi dissi, ed egli l’amava oltre ogni credere, e ne era fatto insensato. Parlava quindi di Satana, dei limbi, dei fuochi del purgatorio, delle furie, e di non so quant’altre cose; ed io ero tanto in credito, che sapevo quando avevano colloquii la notte, e mille altre circostanze; come per esempio ch’ei promesso le aveva di sposarla, e più cose ancora che mi attirerebbero il suo sdegno, s’io le rivelassi, ciò che non farò.
Re. Tu hai già tutto detto, a meno che non aggiungessi che sono maritati: ma sei astuto troppo nelle tue deposizioni, e perciò fatti a parte. — Voi dite che quest’anello era vostro?
Diana. Sì, mio buon signore.
Re. Dove lo compraste? o chi vel diede?
Dian. Nessuno me lo diede nè l’ho comprato.
Re. Chi ve lo prestò dunque?
Dian. Nè tampoco mi fu prestato.
Re. Allora dove lo trovaste?
Dian. Io non lo trovai.
Re. Se non l’avete ottenuto con alcuno di questi mezzi, come lo poteste dare a Beltramo?
Dian. Io non glielo diedi.
Laf. Questa giovine, mio signore, ha la flessibilità di un guanto; essa si ravvolge come meglio le piace.
Re. Quest’anello fu mio, ed io lo donai alla sua prima moglie.
Dian. Ciò non può essere.
Re. Conducetela altrove; ella comincia a spiacermi. Sia guidata in prigione con lui, e se non dice come ottenne questo anello, muoia dopo il termine di un’ora.
Dian. Non mai ve lo dirò.
Re. Allontanatela.
Dian. Vi darò una cauzione, signore.
Re. Ora ti credo una meretrice.
Dian. Per Giove! se conobbi mai alcun uomo foste voi solo.
Re. Perchè hai dunque accusato fino ad ora Beltramo?
Dian. Perchè egli è reo e non è reo; perchè sa ch’io non son più intatta, e lo giurerebbe com’io giurerei che lo sono, quantunque egli nol sappia. Gran re, io sono onesta; e sono ancora fanciulla o sposa solo di quel vecchiardo. (additando Lafeu)
Re. Ella abusa della nostra pazienza; guidatela in prigione.
Diana. Buona madre, andatemi a cercare chi guarentisca per noi. — Aspettate un momento, illustre signore: (la Ved. esce) ella è ita prendere il gioielliere, a cui appartenne l’anello, e che risponderà per me: quanto a questo giovane cavaliere che mi ha ingannata, com’ei ben sa, quantunque però non mi abbia fatto alcun danno, io qui rinunzio a lui. Egli conosce che ha contaminato il mio letto, e che ha ingenerato un figlio nella sua sposa, e sebbene quella sposa sia morta, ella sente però entro di sè viver quel figlio. In breve ecco il mio enigma: una donna morta ha in sè un figlio vivo: e questa è ora la parola dell’enigma che arriva. (rientrano la vedova e Elena).
Re. V’è forse qualche incantatore che inganna i miei occhi? È quello un oggetto reale?
El. No, mio caro sovrano, non è che l’ombra di una donna che voi vedete; il nome solo e non la persona.
Bel. Io perdono ad entrambe.
El. Oh mio caro sposo! allorchè ero come questa fanciulla, voi sembravate un prodigio ai miei occhi. Eccovi il vostro anello, ed ecco la vostra lettera. Qui sta scritto: «quando potrete avere un giorno quest’anello che porto in dito, e sarete incinta di me, ecc.» tutto ciò è accaduto. Volete esser mio ora che mi appartenete con una doppia conquista?
Bel. Se ella può ciò provarmi, io voglio, mio principe, amarla teneramente per sempre.
El. Se non ve lo dimostrerò all’evidenza, o se giungerete a convincermi di mendacio, un divorzio crudele ci divida per tutto il nostro avvenire. — Oh mia cara madre! io vi rivedo ancora.
Laf. Gli occhi mi pungono e sto per piangere. — Su, buon tamburo, (a Parolles) prestami una pezzuola. Te ne ringrazio; va ad aspettarmi in casa; vuo’ che tu serva a’ miei diporti. Lascia quegl’inchini che mi dispiacciono.
Re. Minutamente ci si narri questa istoria, onde la certezza della sua veracità ne colmi tutti di gioia. — Voi (a Dian.) se siete ancora quale dovete essere, potete eleggervi un consorte, ed io penso alla vostra dote, perocchè m’accorgo che col vostro onesto soccorso una moglie è divenuta moglie, e voi vi siete mantenuta illibata. Vogliamo essere istrutti con più agio di questo avvenimento, e di tutte le sue circostanze. Tutto par bene, e se la chiusa è sì lieta, l’amarezza del passato deve renderla anche più dolce, (squillo di trombe. Volgendosi quindi all’uditorio soggiunge) Il Re non è più che un supplicante, ora che il dramma è finito. Tutto è riescito a bene, se abbiamo meritato che ne esprimiate la vostra soddisfazione. Vi mostreremo la nostra riconoscenza pei vostri applausi, facendo ogni dì nuove opere per piacervi ognor più. Accordatene la vostra indulgente attenzione e proteggetene: le vostri mani incoraggiscano gli sforzi nostri, e i vostri cuori godano della nostra gratitudine.(escono)
FINE DEL DRAMMA.